Scuola di PSICOLOGIA
Corso di Laurea Magistrale in Psicologia Clinica e della Salute e
Neuropsicologia
Curriculum in PsicologiaClinica e della Salute
Il femminicidio e i suoi orfani: testimonianze di chi rimane e di chi se ne prende cura
Femicide and its orphans: testimoniesof survivors and their foster parents
Relatore
Prof. Barbara Giangrasso Candidato
Andrea Simonetta
Anno Accademico 2020/2021
A mio babbo e mia mamma,
per la vita spesa all’insegna degli altri e
attivi oppositori contro la violenza
Ad Anna, la cui
devozione e speranza
non saranno mai perdute
INDICE
ABSTRACT....................................................................................................................... VII
INTRODUZIONE............................................................................................................. IX
1. EXCURSUS SULLA CONCEZIONE DI VIOLENZA E FENOMENI AD ESSA COLLEGATI 1
1.1Nozione di genere e sesso........................................................................................ 1
1.2 Nozione di violenza................................................................................................. 3
1.3Violenza contro le donne......................................................................................... 5
1.3.1 Violenza domestica e assistita, nelle relazioni di intimità e di genere........... 5
1.4Concetto di violenza di genere e convenzione di Istanbul...................................... 9
1.5 La violenza interpersonale trasmessa dai media..................................................... 15
1.6 La colpevolizzazione della vittima (victim blaming).............................................. 16
1.7 Vittime: concettualizzazione e ripoliticizzazione della vittima, e processi di vittimizzazione 23
1.8La costruzione del “mostro” e la deumanizzazione................................................. 23
1.9 Statistiche sulla violenza: uno sguardo ai numeri della violenza............................ 28
2.IL FEMMINICIDIO E GLI ORFANI SPECIALI..................................................... 32
2.1Definizionietimologichedeiterminifemicidio,femmicidioe
Considerazioni sul concetto di genere........................................................................... 32
2.2 Definizione di femminicidio e origini..................................................................... 32
2.2.1I numeri del femminicidio............................................................................. 35
2.3Le conseguenze dei traumi e il dolore di chi rimane............................................... 40
2.4Orfani speciali: chi sono e perché sono detti “speciali”.......................................... 41
2.4.1I numeri degli orfani speciali........................................................................ 46
2.4.2Il collocamento degli orfani speciali............................................................. 47
2.5 Percezioni del caregiver sull'adattamento dei bambini........................................... 49
3.FOCUS SULL’AFFIDAMENTO................................................................................. 53
3.1 Cosa è l’affidamento e come funziona.................................................................... 53
3.2 Tipologie di affido e valutazione di efficacia.......................................................... 54
3.3 Statistiche................................................................................................................ 56
3.4 Quando un affido può definirsi concluso con successo?......................................... 57
3.5 Come affrontare/risolvere l’incongruenza tra la durata dell’affido prevista dalla legge e lacomplessità che la realtà dell’affidopresenta?....................................................................................................... 59
4. PRESENTAZIONE CASA FAMIGLIA...................................................................... 61
4.1 Famiglia e casa famiglia.......................................................................................... 61
4.2 Progettazione della casa famiglia............................................................................ 63
4.2.1 Requisiti generali............................................................................................ 63
4.2.2 Requisiti strutturali e impiantistici................................................................. 64
4.2.3 Gli attori della casa famiglia.......................................................................... 67
5.METODO....................................................................................................................... 68
5.1 Partecipanti.............................................................................................................. 68
5.2 Contesto................................................................................................................... 69
5.3Raccolta dati............................................................................................................ 69
5.4Strumenti................................................................................................................. 69
5.5 Obiettivo.................................................................................................................. 69
6.TESTIMONIANZA MADRE....................................................................................... 71
7.TESTIMONIANZA FIGLIO PAOLO........................................................................ 78
8.TESTIMONIANZA FILIPPO E GIORGIA............................................................... 83
9.CONCLUSIONI............................................................................................................. 88
APPENDICE A.................................................................................................................. 91
APPENDICE B.................................................................................................................. 105
APPENDICE C................................................................................................................. 111
BIBLIOGRAFIA............................................................................................................... 119
RINGRAZIAMENTI......................................................................................................... 130
ABSTRACTIl presente studio si presta ad indagare cosa sia la violenza e quali siano le tipologie più diffuse, approfondendo il concetto di violenza di genere. Quest’ultima forma di violenza si trova alla base del fenomeno, molto diffuso, del femminicidio, inteso come l’uccisione di una donna per motivi unicamente di genere. Verranno evidenziate le conseguenze e i disagi che tale fenomeno porta con sé, mostrando come affondi le proprie radici nella società patriarcale e misogina che la caratterizza. Il femminicidio, nei casi in cui siano presenti dei figli, genera inevitabilmente degli orfani: gli “orfani speciali”, definiti così perché il loro vissuto, i loro bisogni e il loro dolore è speciale. Sono figli che oltre a ritrovarsi orfani della madre perché uccisa dal padre, rimarranno orfani anche di quest’ultimo, che sarà in carcere o suicida. A tal proposito, questo elaborato indaga anche la loro sistemazione conseguentemente all’evento traumatico, facendo così luce sulla possibilità di essere accolti da famiglie affidatarie e case famiglia (come in questo caso). È stato quindi possibile, attraverso interviste non strutturate e semi strutturate, ascoltare tre orfani speciali, dando voce alle loro storie, oltre a conoscere il punto di vista della madre riguardo ciò che voglia dire accudire questi ragazzi e le possibili differenze derivanti dal loro affidamento, rispetto a coloro che non condividono lo stesso vissuto.
Questo elaborato si impegna a sensibilizzare le persone con l’intento di contribuire a combattere il fenomeno del femminicidio, dando voce e importanza agli orfani speciali e a chi se ne prende cura.
ABSTRACTThis study lends itself to investigate, through a bibliographic review, what violence is and what are its most common types, examining in depth the concept of gender-based violence. Gender-based violence underlies the widespread phenomenon of femicide, intended as the killing of a woman for reasons purely attributable to gender. The present study will highlight the consequences and inconveniences that this phenomenon drags itself, showing how its roots are firmly anchored to the patriarchal and misogynistic society that characterizes such phenomenon. Femicide, in cases where children are involved, inevitably lead to orphans: the so-called "special orphans", because ofthe
peculiarity of their life experience, needs and pain. In addition to being someone whose mother has been killed by their father, these children will also lose their father who will either be in prison or will have committed suicide. In this regard, this paper also investigates their new accommodation after the traumatic event has happened, shedding light on the possibility of being welcomed byfoster families and foster homes (as in this case). Through unstructured and semi-structured interviews, it was therefore possible to listen to three special orphans, giving voice to their stories, as well as to know the mother's point of view regarding what it means to take care of these children.It was also investigated the possible existing differences caused by the foster care in orphans who suffered from femicide compared to those who do not share the same experience.
The aim of this paper is to raise awareness among people, giving a contribution to the fight against femicide, giving voice and importance to special orphans and who take care them.
INTRODUZIONEFemminicidio. Quante volte abbiamo sentito questo termine? Quante volte lo abbiamo letto sui giornali o nei titoli a scorrimento in televisione? Ma sappiamo realmente cosa esso voglia dire e cosa sia? Abbiamo idea delle conseguenze che esso può portare? Chi pensa a chi rimane? Chi pensa ai cosiddetti “figli del femminicidio”, o meglio “orfani speciali”?
Facciamo un passo indietro. Ci riferiamo al femminicidio tutte le volte che una “donna subisca violenza fisica o psicologica, economica, sociale o religiosa, in famiglia e fuori, quando, cioè, non riesce ad esercitare “i diritti fondamentali dell’uomo”, perché donna, ovvero in ragione del suo genere o anche a causa dell'abuso di potere volto cioè ad ottenere il totale annullamento del femminile” (Spinelli, 2008). Viene utilizzato questo termine per spiegare l’omicidio doloso o preterintenzionale caratterizzato dalla specificità che ad essere uccisa è sempre una donna per motivi unicamente di genere. Il femminicidio rappresenta la massima espressione della violenza di genere, ovvero tutte quelle manifestazioni fondate sull’odio che derivano dal genere di appartenenza e dalle discriminazioni sessiste, rivolte contro determinate persone. La donna viene uccisa in quanto donna, rimandando ad una tipologia di violenza che affonda le proprie radici nella società patriarcale e misogina in cui siamo immersi.
Questa forma di espressione del controllo maschile su quello femminile, attraverso condotte basate sulla diseguaglianza di genere (Baldry, 2016), causa più di 171 vittime (esclusivamente donne) ogni anno solamente in Italia. Ogni 72 ore una donna viene uccisa dal proprio marito, convivente, fidanzato attuale o ex (Eures, 2015).
Sono numeri folli. Sono numeri che non possono essere né giustificati, né accettati.
Ma che fine fanno i figli a cui le loro madri vengono uccise? Chi sono questi bambini/e e ragazzi/e? Con chi vanno a vivere dopo che la loro madre è stata uccisa?
I figli del femminicidio rappresentano un dramma mondiale, e pur quanto non se ne parli, alcune stime indicano come questi orfani, ogni anno, siano più di 55.000 (Alisic, Krishna, Groot, & Frederick, 2015).
Anna Costanza Baldry coniò il termine “orfani speciali” per indicare tutti quei bambini, adolescenti, giovani adulti o già adulti rimasti orfani della propria madre a causa del padre. Vengono considerati tali anche coloro che il proprio padre o la propria madre sono stati uccisi da personecon cui questi erano legati affettivamente (Baldry,
2018). Vengono definiti “speciali” perché i loro bisogni, il loro vissuto, la loro condizione psicosociale e ciò che hanno subito è speciale e unico.
Questi bambini, oltre a rimanere orfani della propria madre, rimangono orfani anche del padre, il quale o si trova in carcere oppure si è suicidato. Quindi essi necessitano di una nuova sistemazione, di una nuova casa e di iniziare a vivere una nuova vita. Molte volte possono essere dati in custodia a parenti stretti del nucleo familiare, come ad esempio a nonni o zii. Altre volte questi orfani possono essere affidati a famiglie esterne alle loro parentele ed esterne a qualsiasi fatto o legame connesso al femminicidio. Una di queste possibili scelte e soluzioni riguarda l’affidamento alle case famiglia.
Nel nostro caso abbiamo avuto la possibilità di poter intervistare, attraverso interviste semi strutturate e non strutturate, un ragazzo (che quando avvenne il femminicidio aveva 8 anni) e un fratello e una sorella (rispettivamente 17 e 19 anni), vittime di questo brutale fenomeno. Oltre ad avere raccolto la testimonianza degli “orfani speciali”, il nostro interesse volgeva anche a riguardo di cosa voglia dire prendersi cura di questi ragazzi e come un caregiver entri in relazione con il loro dolore e cosa essi possano trasmettergli. Così una quarta testimonianza che abbiamo avuto la possibilità di raccogliere è quella della madre affidataria e di come lei ha percepito il loroaffidamento e cosa in lei è stato suscitato. Ci interessava approfondire inoltre, anche le possibili differenze che ci sarebbero potute essere tra un affidamento di un orfano speciale rispetto ad un altro/a ragazzo/a in affidamento.
Il nostro obiettivo è dunque quello di verificare, attraverso le testimonianze raccolte, e se possibile incrementare, il materiale presente nella letteratura consultata e ciò che la psicologa, psicoterapeuta e criminologa Anna Costanza Baldry ha scritto e ciò per cui si è sempre battuta in prima persona, valutando così l’esperienza soggettiva dei genitori affidatari e degli orfani speciali in una situazione di femminicidio.
L’elaborato sarà composto da alcuni capitoli iniziali riguardanti la rassegna della letteratura, cercando di approfondire il fenomeno del femminicidio e quello degli “orfani speciali” attraverso il contesto della società e le influenze che da essa derivano, percorrendo un excursus anche riguardo a tutte le possibili forme di violenza che si potrebbero presentare, sia all’interno del nucleo familiare, sia esternamente. Successivamente, saranno riportate le interviste fatte alle persone sopra indicate, tutte appartenenti ad una casa famiglia.
Ciò che per noi ha un valore molto importante è sensibilizzare le persone nei confronti di questo fenomeno non troppo discusso e le cui conseguenze sono enormemente poco esplorate. È importante che tutti noi ci sentiamo parte dei dolori altrui, soprattutto quando il dolore arriva a colpire bambini indifesi. Allo stesso modo riteniamo che sia fondamentale denunciare le violenze consumate, ma solamente sentendosi sostenuti e protetti si può incrementare questo comportamento non facile, quando a maltrattare e a uccidere sono proprio i partner intimi.
La nostra speranza è quella, oltre di illustrare lo scempio vissuto da tante persone e famiglie, di riuscire a poter dare un piccolo nostro contributo per un tema così per noi sensibile e vicino.
1. EXCURSUS SULLA CONCEZIONE DI VIOLENZA E FENOMENI AD ESSA COLLEGATI1.1 Nozione di genere e sessoRiguardo ai termini “genere” e “sesso” è fondamentale sottolineare i rispettivi significati e le differenze che li contraddistinguono, come viene evidenziato dalle diverse teorie femministe. L’approccio che ha avuto un maggiore sviluppo ed una diffusione più ampia, è quello che si è sviluppato circa dagli anni 60 del secolo scorso, affermando che il “sesso” rimandi ad un concetto biologico, per mezzo del quale è possibile differenziare maschi e femmine in relazione a caratteristiche fisiche e biologiche come potrebbero essere gli organi sessuali, i cromosomi, gli ormoni (Mikkola, 2012).
Il termine “genere” invece riveste un concetto culturale, sociale e storico, utilizzato sempre per distinguere e differenziare i maschi dalle femmine, non sulla precedente base, ma per mezzo di caratteristiche sociali, le quali non sono fisse, ma mutano sia nello spazio che nel tempo. Esso indica le aspettative, la posizione, i ruoli sociali, ma anche le tendenze, gli atteggiamenti, le attitudini, i gusti che vengono socialmente associati all’uno o all’altro sesso (o, meglio, all’apparire come appartenenti all’uno o all’altro sesso).
Questa distinzione è stata fortemente voluta e conseguentemente attuata proprio con il fine di separare, distinguendo e riconoscendo, tutto ciò che potesse essere attribuito al biologico, inteso come naturale e immutevole, da ciò che appartiene alla sfera della socialità, da sempre caratterizzata invece per la sua mutevolezza e dinamicità (Stoller, 1968). Inoltre questa differenziazione permette di contrastare alcune forme di determinismo biologico (Scott, 1986; Mikkola, 2012).
La definizione di “genere”, nonostante rimandi ad un concetto prettamente sociale (“a social category imposed on a sexed body”) (Scott, 1986), suscita ancora non pochi problemi, non essendo riconosciuta come universalmente condivisa per quanto riguarda i modi di acquisizione, apprendimento e imposizione di ciascun genere e l’appartenenza ad esso.
Come abbiamo detto il genere rimanda al concetto di ruolo, alle aspettative, agli atteggiamenti suciò che è considerato o meno appropriato, divenendo così parte attiva
per le persone, interiorizzandoli e inglobandoli nella propria psiche. “A tal proposito sono emerse tesi che affermano come il genere possa essere costitutivo della personalità, non appartenente esclusivamente ad un singolo individuo, ma comune ad un’intera classe di persone, ovvero tutti coloro che appartengono al medesimo sesso” (Mackinnon, 1989, p.113). Quindi il genere, caratterizzato da convenzionalità e mutevolezza, assume così un ruolo identitario, non essendo stato scelto in maniera autonoma. Il fatto che l’appartenenza a un genere sia un fattore identitario non implica necessariamente che l’esistenza di una distinzione tra i generi e/o che le caratteristiche che distinguono un genere dall’altro, siano elementi valutati positivamente.
“Tutto ciò ha, inoltre, l’effetto di creare nuovi stereotipi di genere, che, come tutte le categorie identitarie, hanno una funzione non meramente descrittiva, ma anche normativa: tracciano i confini di ciò che deve essere un’identità femminile di genere, con la conseguenza di escludere chi non soddisfa i parametri individuati” (Mackinnon, 1989, p.113). Questi stereotipi di genere sono identificati come definizioni culturali rigide sui ruoli di uomini e donne sia nella sfera pubblica che in quella privata. Nello specifico indicano cosa dovremmo aspettarci da un maschio e da una femmina e quali comportamenti ed emozioni potremmo considerare appropriati, accettabili odesiderabili per l’uno e per l’altra. Così, gli stereotipi di genere derivano dall’illusione che i generi siano dettati da una naturale divisione.
I percorsi di vita delle persone e le loro relazioni interpersonali possono essere condizionate dalle norme culturali presenti nelle società, che fanno riferimento a ciò che deve essere maschile e ciò che deve essere femminile, rinchiudendo così gli individui entro confini delineati che li conducono a scoraggiare e reprimere le proprie potenzialità, sia per il sesso maschile che per quello femminile. Un esempio di facile comprensione potrebbe riguardare tutto ciò che appartiene al dominio maschile o femminile circa i talenti, gli hobby e le intenzioni lavorative. Così la volontà e il desiderio da parte di uno dei sessi di mettere in pratica ciò che socialmente appartiene all’altro potrebbe essere arrestata. Ciò potrebbe essere riscontrato, ad esempio, nel piacere di svolgere lavori fisicamente pesanti o praticare sport quali il calcio per le donne, oppure fare lavori che si dedicano alla cura o professioni generalmente considerate femminili per gli uomini (Butler, 1991).
“Ammettere che non esista un’unica identità di genere ha però delle conseguenze
drammatiche per il pensiero e le politiche femministe: rinunciare al genere femminile come categoria unificata significa rinunciare alla categoria ‘donna’ e ad una lotta politica control’oppressione delle donne, di tutte le donne” (Stoljar, 1995; Young, 1997; Alcoff, 2006). A tal proposito non rimarrebbe che una duplice scelta riguardo a come il genere può essere concepito: o come una caratteristica reale, oppure lasciare perdere il concetto di “donna”. È attraverso l’educazione alla convivenza sociale che viene costruito il concetto di genere inteso come processodi formazione del concetto di essere uomini o di essere donne. Le persone divengono a stretto contatto con questi modelli, in modo più o meno rigido e libero, quotidianamente trasmessi dalla società in cui viviamo. Attraverso il “genere” è possibile vedere quanto questi modelli siano una costruzione sociale, rendendoli pensabili e quindi necessariamente criticabili. Questi modelli sonotalmente radicati e potenti che vengono considerati naturali e costituiscono le mappe mentali che guidano le scelte degli individui, arrivando a dare forma anche ai pensieri (Poggi, 2017). Anche il sesso è stato visto in parte, da alcune autrici, come una forma di costrutto sociale. Questo dipenderebbe dal fatto che le differenze, oggettivamente osservabili nelle persone, vengono percepite, attribuite e ricostruite in un determinato modo anziché in un altro. Ciò deriverebbe, appunto, da fattori socialmente determinati (Laqueur, 1990).
Quello che quindi rimane è la difficoltà di riuscire a comprendere e distinguere quali caratteristiche dipendano da fattori biologici e quali invece siano dovuti a condizionamenti sociali.
1.2 Nozione di violenzaQuando parliamo di violenza, la connotazione emotiva che essa assume è sempre negativa, associata a ciò che viene inteso come violento. È solamente quando le viene data un’interpretazione diversa, associandola ad altri aggettivi come ad esempio legittima, necessaria, giustificata… che potrebbe acquisire anche un significato meno negativo. Queste varie connotazioni derivano dal potere di alcuni gruppi sociali ed economici che riescono ad imporre la propria visione e prospettiva sul proprio pensiero di cosa sia la violenza. Quindi il valore e il significato di violenza, ritenere che determinati comportamenti siano valutati come tali e altri invece no, dipendono dalla connotazioneche ne viene diffusa all’interno della propria società, dalla morale e dai
valori (Poggi, 2017).
La nozione di violenza può essere suddivisa in tre tipologie, dalla più ampia alla più ristretta. Quella più allargata fa riferimento alla definizione di violenza come tutto ciò “che danneggia fisicamente e/o psicologicamente e/o economicamente gli altri (con il problema non semplice di stabilire che cosa sia un ‘danno’)” (Pilcher & Whelehan, 2004, p.173). Rientrano in questa prima categoria anche gli atti violenti intesi come violenza economica e violenza psicologica. La prima fa riferimento a tutto ciò che riguarda le risorse a cui una persona può attingere, come cibo, soldi,mezzi di trasporto e tempo. La seconda invece riguarda le offese, le umiliazioni (violenza emotiva) che la vittima subisce; inoltre la violenza può manifestarsi anche sotto forma di isolamento o attraverso la manipolazione dei bambini, cercando in tal modo di controllare e minacciare il/la partner (Ganley, 1998).
Una seconda nozione, più ristretta, è quella che descrive la violenza come caratterizzata dalla manifestazione della forza fisica, ovvero con la messa in pratica della minima percossa. Essa esclude le generalizzazioni che “a priori tutto ciò che comporti danni fisici, psichici o economici” venga considerata violenza. Questa sembra la nozione adottata anche in Italia: al riguardo, èvero che il reato rubricato come
«violenza privata» (art. 610 c.p.) comprende anche la minaccia (finalizzata a costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa), ma il testo la contrappone espressamente alla violenza, come distinta modalità di realizzazione dello stesso illecito («Chiunque con violenza o minaccia […]») (Hatty, 2000).
Infine, la terza nozione di violenza è una nozione discreta che amplia quella precedenteaggiungendole l’esternalizzazione delle minacce e le violenze verbali, se caratterizzate da danni potenziali riguardo circa la sfera psicologica, economica e fisica. Se pensiamo alla violenza e algenere, attraverso la letteratura femminista, è facilmente riconoscibile come questi due fattorivadano di pari passo. Il concetto di violenza si dice appunto gendered (genderizzato), inquanto essa risulta diversa a secondo del sesso a cui si riferisce e dell’autore che la mette inatto (quest’ultimo è fortemente associato alla mascolinità) (Breines, Connell, & Eide, 2000).Spesso sono appunto gli uomini a mettere in pratica comportamenti violenti a discapito delle donne,e la questione importante da capire e analizzare è se questa violenza sia associata al
genere, conducendoci così ad una violenza di genere (Poggi, 2017).
1.3 Violenza contro le donneSono ormai presenti numerose definizioni ed espressioni per chiamare e per riferirsi alle varie tipologie di violenza consumate dagli uomini nei confronti delle donne. Questa tipologia di violenza può essere suddivisa in altre categorie, ognuna che si focalizza su di un particolare contesto e su problemi specifici, permettendo di cogliere gli aspetti più profondi (Bonura & Pirrone, 2016):
1.3.1 violenza domestica e assistita, nelle relazioni di intimità e di genereLa definizione di violenza domestica utilizzata nel testo di legge è la seguente: “si intendono per violenza domestica uno o più atti, gravi ovvero non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo famigliare o tra persone legate, attualmente o indipendentemente dal fatto che l’autore di tali fatti condi-vida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima” (Bonura & Pirrone, 2016). Questa tipologia di violenza considera i numerosi abusi subiti da parte delle donne entro le mura di casa propria, il luogo che dovrebbe essere, più di ogni altro, considerato sicuro e protettivo. All’interno di questa definizione, è presente e ne fa parte anche l’abuso di tipo sessuale o di mezzi di correzione nei confronti di minori o fra minori.
Inoltre è considerata violenza domestica anche la violenza che viene perpetrata da coloro che non vivono e risiedono nella stessa residenza, ma condividono comunque un legame affettivo. Essa è strettamente correlata ad un’altra forma di violenza: quella assistita, e sono entrambe, purtroppo, molto diffuse nell’intero globo (Bonura & Pirrone, 2016). La violenza domestica, nonostante sia un fenomeno apparentemente invisibile, comporta conseguenze tutt’altro che da sottovalutare. Un bambino che è cresciuto all’interno di questo contesto potrebbe avere le proprie funzioni genitoriali e relazionali già compromesse. Quindi la violenza domestica non può che non avere conseguenzedistruttive su tutti coloro che la subiscono (Luperti & Pedrocco Biancardi,
2005; Save the Children, 2018).
Inoltre “l'esposizione dell'infanzia alla violenza sotto forma di abuso fisico, sessuale o emotivo, abbandono o l'essere testimoni di violenza in casa ha un effetto significativo sul benessere dei bambini. L'esposizione infantile alla violenza è un fattore di rischio per una serie di comportamenti e disturbi a rischio (ad es. fumo, obesità, comportamenti sessuali ad alto rischio e depressione) che sono, a loro volta, correlati causalmente ad altri importanti problemi di salute pubblica come il cancro, malattie cardiache, malattie sessualmente trasmissibili e suicidio” (Mecacci & Bramante 2013). Lo stupore nasce dal fatto che è ancora diffusa l’idea sbagliata secondo la quale un uomo che picchia la compagna possa essere comunque un buon genitore, o, almeno, un padre sufficientemente idoneo, per il “semplice” motivo che il padre picchia la mamma, ma non i bambini (Long, 2020).
Risulta quindi fondamentale la messa in pratica di interventi precoci atti a ridurre l’esposizione dei bambini a qualsiasi forma di violenza, riducendo conseguentemente anche la loro probabilità di mettere in atto nel futuro comportamenti violenti.
Violenza assistita:
Per “violenza assistita” intendiamo quella forma di violenza che riguarda i bambini quandoassistono ad episodi di maltrattamento da parte di un genitore ai danni dell’altro. Con il termine “assistere” non ci riferiamo esclusivamente a quando il bambino si ritrova direttamente coinvolto nella situazione, osservando e vedendo ciò che accade, ma anche a tutte quelle volte che riesce a percepire cosa stia accadendo, comprendendo l’atmosfera e interpretando i sentimenti e le emozioni dei genitori. Non è necessaria la partecipazione diretta e la presenza fisica agli scontri, da parte dei bambini, per affermare che essi sono vittime di violenza assistita. Per delineare il maltrattamento è sufficiente l’ascolto o semplicemente la conoscenza acquisita tramite gli effetti fisici (come i segni sul corpo) o psicologici (avere paura) (Bonura & Pirrone, 2016).
La definizione oggi più conosciuta di “violenza assistita” si deve al Coordinamento Italiano Servizi Maltrattamento all’Infanzia che, per primo in Italia, ha portato l’attenzione su questa forma di maltrattamento minorile, definendola come «l’esperire da parte della/del bambina/o e adolescente qualsiasi forma di maltrattamento compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale,psicologica, sessuale, economica e atti
persecutori (c.d. stalking) su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative, adulte o minorenni» (Cismai, 2017). Il riconoscimento di queste due forme di violenza e di abuso risulta essere un problema di non poco conto, comportando numerose problematiche sia all’interno delle famiglie, sia da parte dei servizi che si occupano della cura dei minori. Questi ultimi hanno un ruolo molto importante per la salvaguardia dei bambini, ma non sempre il sostegno, il riconoscimento di ciò che sta accadendo e delle richieste di aiuto (più o meno velate che siano), risultano essere veloci, tempestive ed efficaci. Dalla violenza deve poi essere tenuto distinto il “conflitto”. Quest’ultimo consiste infatti in un «dissidio anche grave, (...) tra due persone, ma caratterizzato da una sostanziale parità tra le parti, anche se, nel caso sia coniugale o familiare, può creare un clima violento e comunque inquietante», mentre la violenza domestica «presuppone invece una relazione fortemente sbilanciata e caratterizzata da sopraffazione, dominio evittimizzazione di una parte sull’altra» (Long, 2020, p.66).
La maggior parte delle dinamiche che si verificano si incentrano sul genitore maschio che utilizza la violenza nei confronti della donna, raggiungendo il caso più estremo di violenza assistita, ovvero l’uccisione della donna. I bambini rimasti orfani della madre, a causa del padre, subiscono conseguenze devastanti e irrimediabili per l’intera loro esistenza. Come la violenza domestica, anche quella assistita non pone limiti circa né la stessa residenza dell’aggressore con la vittima, névincoli di familiarità, genere o età. L’aggressore può essere chiunque.
Nella definizione di violenza assistita si parla anche di “figure di riferimento” o “altre figure affettivamente significative” e “adulte o minorenni”, andando così a comprendere oltre a genitori, familiari, fratellini o sorelline, anche animali domestici e da allevamento nel caso in cui il minore abbia instaurato insieme ad essi una relazione di affetto (Cismai, 2017). La violenza assistita rappresenta la seconda forma di maltrattamento più diffusa nel nostro paese: sui circa 100.000 minorenni in carico ai servizi sociali per maltrattamento, il 19% ha subito violenza assistita (Cismai, 2017). Save The Children, tuttavia, stima che nell’arco temporale 2009-2014 ben 427.000 minori abbiano vissuto la violenza tra le mura domestiche nei confronti delle loro mamme, nella quasi totalità dei casi compiute per mano del partner (Save The Children, 2018).
Per quanto riguarda la risposta giuridica relativa alla violenza assistita, oggi, l’ordinamento italiano la condanna come forma di maltrattamento sui minori. La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (c.d. Convenzione di Istanbul, aperta alla firma l’11 maggio del 2011 e ratificatadall’Italia con la legge n. 77/2013) afferma che
«i bambini sono vittime di violenza domestica anche in quanto testimoni di violenze all’interno della famiglia» (Long, 2020). In attuazione di tale documento internazionale, il decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, ha introdotto quale circostanza aggravante comune, per i delitti contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché per i maltrattamenti in famiglia, l’aver commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto (art. 61, co. 1, n. 11-quin- quies, c.p.). La legge 11 gennaio 2018, n. 4 ha introdotto una protezione particolare agli orfani difemminicidio che, come già detto, costituiscono un gruppo con necessità specifiche all’interno dei minori, vittime di violenza assistita. Infine, la legge 19 luglio 2019, n. 69 («Tutela delle vittime diviolenza domestica e di genere», il c.d. “Codice Rosso”) ha poi, tra l’altro, modificato l’art. 572 c.p. (reato di maltrattamenti) affermando che «il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo “si considera persona offesa dal reato”» (Long, 2020).
Violenza nelle relazioni di intimità
per quanto riguarda invece la nozione di “violenza nelle relazioni di intimità”, essa fa riferimento alla violenza che si verifica all’interno delle relazioni di coppia. I maltrattamenti possono essere rivolti verso le donne (rappresentano il sesso maggiormente colpito), gli uomini o persone dello stesso sesso. Il nome, inoltre, deriva dall’espressione anglosassone “Intimate partner violence”. Oggi viene preferita l’espressione “Domestic violence” per intendere questa tipologia di violenza, perpetrata in particolare modo da partner o ex partner (Bonura & Pirrone, 2016).
Violenza di genere:
Infine, la terza tipologia di violenza elencata precedentemente riguarda la violenza di genere, la quale offre un’inquadratura più ampia rispetto alle precedenti (Bloom, 2008).
1.4 Concetto di violenza di genere e convenzione di IstanbulEssa descrive la violenza come tutte quelle manifestazioni fondate sull’odio che derivano dal genere di appartenenza e dalle discriminazioni sessiste, rivolte contro determinate persone. Queste tipologie di discriminazioni hanno vari destinatari anche tra loro differenti, spaziando dalla violenza maschile contro il genere femminile.
In primis, come avevamo già detto precedentemente, la violenza è gendered, nel senso che è sempre di genere, almeno a livello implicito. I comportamenti violenti, considerati tali sia a livello sociale che a livello giuridico, sono strettamente legati al genere di appartenenza, associati in particolare modo al sesso maschile (Poggi, 2017). Questa visione molto ampia di violenza di genere, considerandola come tale ogni qualvolta si verifichi una forma di violenza, permette di essere utilizzata a fini preventivi, combattendo le radici sociale sulle quali la violenza di genere si poggia. Dobbiamo riuscire comunque ad avere una capacità discriminatoria tra le varie tipologie di violenze,non considerandole tutte di genere, altrimenti essa non esisterebbe più come categoria concettuale autonoma (Ciccone, 2015).
In seconda battuta, quando pensiamo alla violenza di genere, essa può essere considerata come la violenza che “il genere è”. Questa teoria è molto meno diffusa rispetto alle altre e rimanda al concetto di genere come qualcosa di imposto e che non viene scelto. La violenza in questo secondo pensiero coincide con quella di tipo psicologico, intendendola come suggestione, persuasione e manipolazione, avente conseguenze ugualmente dannose e costrittive (Poggi, 2017).
Un terzo significato attribuito alla violenza di genere fa riferimento al considerare e utilizzare azioni violenti al fine di voler imporre il rispetto delle caratteristiche del proprio genere, soddisfacendo così le aspettative socialmente costruite a riguardo. Ciò potrebbe essere riassunto con: “la violenza contro chi non si conforma al genere che spetta al suo sesso”. Rientrano in questa considerazione di violenza di genere tutte quelle manifestazioni di violenza, ad esempio, nei confronti delle persone transessuali, i disonori ritenuti tali dalla famiglia, i bambini e le bambine che si comportano o hanno preferenze come quelle del sesso opposto (Poggi, 2017). Questa accezione di violenza di genere è implicitamente richiamata anche dalla Convenzione di Istanbul, allorché, all’art. 42, prevede l’obbligo di escludere che possano valere come scusa per giustificare gli atti diviolenza la cultura, gli usi e costumi, la religione, le tradizioni o il cosiddetto
onore, statuendo che non sono adducibili «le accuse secondo le quali la vittima avrebbe trasgredito norme o costumi culturali, religiosi, sociali o tradizionali riguardanti un comportamento appropriato» (Poggi, 2017).
Infine, possiamo trovare un’ultima interpretazione riguardante il concetto di violenza di genere, la più comune e diffusa in letteratura. Fortemente connessa alla prima interpretazione sopra citata, la violenza di genere viene identificata come quella violenza volutamente indirizzata contro una persona, appartenente ad un determinato genere, proprio perché appartiene a quel genere. Solitamente questa tipologia di violenza viene consumata da uomini nei confronti delle donne, ricalcando così il fatto che essa sia una violenza genderizzata. Quindi i due concetti potrebbero risultare differenti solamente nel caso in cui non si consideri la violenza esclusivamente diretta contro qualcuno che appartenga ad un dato genere (Poggi, 2017).
La violenza basata sul genere può essere stimata attraverso l’utilizzo della frequenza statistica, ovvero vengono stimate il numero indicativo di vittime appartenenti ad un determinato genere che subiscono comportamenti classificabili all’interno di tali tipi di violenza. In tal caso potrebbero essere presenti sufficienti ragioni per sostenere che si tratti di violenze basate sul genere. Nel caso in cui il numero delle vittime non indichi nessuna specifica variazione importante tra i due sessi, quindi la percentuale delle vittime maschili e femminili siano più o meno equivalenti, il genere delle vittime risulterà irrilevante. Se invece la percentuale delle vittime appartenenti ad uno dei due sessi risulterà in misura molto maggiore rispetto all’altra, ciò significa che il genere di appartenenza risulterà un fattore molto importante e sarà ritenuto fondamentale (Poggi, 2017). Quindi, utilizzando altre parole, non si considera violenza di genere quella violenza esercitata contro una donna se essa risulta essere una vittima casuale o se sia indifferente il fatto che sia donna. Però se la totalità o la maggior parte delle vittime di tali violenze risultano essere donne, allora non è possibile parlare di vittime casuali.
Questa breve illustrazione del metodo statistico mostra quanto esso non sia soddisfacente nella stima delle violenze subite, risultando forse sufficiente, ma sicuramente non necessario. Il criterio della frequenza statistica necessita o di una sostituzione con altri metodi, o quanto meno una integrazione, identificando nel criterio della subordinazione la possibile soluzione.
Quest’ultimo è un criterio utilizzato per identificare le violenze fondate sul genere,
sia in maniera autonoma, sia insieme al primo metodo discusso. In base a tale criterio, “un atto di violenza è basato sul genere quando è la manifestazione, ed è funzionale al mantenimento, di una struttura sociale caratterizzata dalla subordinazione/oppressione/dominio di chi appartiene ad un dato genere. Frequentemente l’asimmetria del rapporto fra i generi prende la forma dei sentimenti ritenuti “normali” all’interno di un rapporto intimo o di prossimità” (Poggi, 2017).
La donna, quando si trova in una condizione più svantaggiata rispetto a quella dell’uomo, “concederebbe” al partner di sesso maschile la “condizione culturale” di “possederla”, divenendo così colui in grado di controllore ogni cambiamento nella vita della donna, divenendone il referente e fruitore unico. Queste dinamiche fondate sul possesso maschile, abbinate alla debolezza e alla fragilità femminile, sono condivise e pensate da molti. Attraverso esse gli uomini nutrono orrende false convinzioni di essere autorizzati ad esercitare la violenza e il possesso nei confronti delle donne, fatto che si verifica anche quando queste ultime sono ritenute “troppo indipendenti” dall’uomo. Tutto questo potrebbe sicuramente anche coincidere con il fatto che la maggior parte delle violenze subite dalle donne, per mano del proprio partner, si consumino all’interno della propria famiglia (Donadi, 2015).
La violenza di genere è a tutti gli effetti un problema pubblico e di violazione dei diritti umani di tutti i cittadini o cittadine che la subiscono. In particolar modo la violenza contro le donne è un fenomeno enormemente diffuso in tutti i paesi, fondato su modelli culturali che generanomaltrattamenti e strettamente connesso con la violenza di genere e da poco incluso nella Convenzione di Istanbul. Questo documento è stato adottato dal consiglio d’Europa il 7 aprile 2011, avente come scopo la prevenzione e la lotta contro tali tipologie di violenza.
La Convenzione di Istanbul
La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, nota come Convenzione di Istanbul, approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011 (La Convenzione è stata aperta allafirma l’11 maggio 2011 a Istanbul, sottoscritta da 44 Paesi e ratificata da 22, tra cui l’Italia con la legge 27 giugno 2013, n. 77, entrata in vigore l’1 agosto 2014), “si pone, quali obiettiviprincipali, quelli di promuovere la
parità tra i sessi e combattere le discriminazioni verso le donne, mediante la prevenzione, la persecuzione e l’eliminazione di ogni forma di violenza contro le donne e di violenza domestica, e la predisposizione di misure di assistenza a favore delle vittime di tali violenze. A tal scopo, la Convenzione impone agli Stati contraenti una serie di obblighi normativi di adeguamento del diritto interno, nonché di obblighi informativi e obblighi latu sensu politici e finanziari, prevedendo altresì un meccanismo di controllo sull’attuazione di tali obblighi, che ruota attorno all’attività del GREVIO” (Parolari, 2014, p.859). Più nel dettaglio, la Convenzione di Istanbul all’art. 1 pone gli obiettivi di «a. proteggere le donne da ogni forma di violenza e prevenire, perseguire ed eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica; b. contribuire ad eliminare ogni forma di discriminazione contro le donne e promuovere la concreta parità tra i sessi, ivi compreso rafforzando l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne; c. predisporre un quadro globale, politiche e misure di protezione e di assistenza a favore di tutte le vittime di violenza contro le donne e di violenza domestica; d. promuovere la cooperazione internazionale al fine di eliminare laviolenza tra le donne e la violenza domestica; e. sostenere e assistere le organizzazioni e autorità incaricate dell’applicazione della legge in modo che possano collaborare efficacemente, al fine di adottare un approccio integrato per l’eliminazione della violenza contro le donne e la violenza domestica» (Parolari, 2014, p.859).
Grazie a questa Convenzione è stato possibile riconoscere, come fattori scatenanti della violenza contro le donne, le radici sociali e il carattere transculturale ad essa associata. È stata allargata la visione e la concezione di tale violenza intesa non più solamente come verificabile all’interno della propria vita privata, ma bensì è stata indicata come un problema di natura politica e delle societàcontemporanee. La violenza di genere e quella privata hanno ormai assunto criticità a livello strutturale e sono profondamente radicate sulla disuguaglianza sociale ancora esistente fra uomini edonne in termini di potere, opportunità, rappresentazione simbolica e politica (Parolari, 2014, p.869).
La Convenzione di Istanbul, all’art. 3 lett. a), definisce ‘violenza nei confronti delle donne’ «unaviolazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni osofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o
economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che nella vita privata». In particolare, si precisa che l’espressione ‘violenza contro le donne basata sul genere’ designa, ex art. 3, lett. d), «qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato». Originale, nel senso che compare per la prima volta in un trattato internazionale (Parolari, 2014, p.868), è invece la ridefinizione di ‘genere’ come riferito a «a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini» (art. 3, lett. c).
Ebbene, dal combinato disposto degli articoli sopra citati, si evince che, ai sensi della Convenzione di Istanbul, per ‘violenza nei confronti delle donne’ devono intendersi gli atti di violenza fondati sul genere (art. 3, lett. a), i quali consistono in quegli atti di violenza che colpiscono le donne in misura sproporzionata o che sono diretti contro una donna in quanto tale (art.3, lett. d) – ossia, parrebbe di capire, contro una donna in forza dei ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini (art. 3, lett. c) (Poggi, 2017). Allo stesso tempo che viene utilizzata la violenza, vengono compromessi o vanificati tutti quei diritti e quelle libertà comunemente condivise e sostenute dai principi generali dei diritti internazionali o dalle convenzioni sui diritti umani. Le donne così molte volte si sentono e si vedono sottrarre:
ed evidenziare quanto questo fosse oggetto di mercificazione, ridotto a mero oggetto, con le telecamere che erano solite ad inquadrare determinati parti del corpo con “riprese che andavano dal basso verso l’alto” (Bandelli & Porcelli, 2016).
L’oggettivizzazione femminile del proprio corpo porta con sé conseguenze non di poco conto. Si arriva a dare molta più importanza, di quanto in realtà ne abbia, alle proprie forme, al proprio peso, preoccupandosi in modo eccessivo dell’aspetto esterno, che assorbe ingenti energie mentali. Ciò conduce le donne ad esperienze emozionali negative rivolte verso se stesse ed una riduzione della capacità di individuare i propri stati interni e di interpretarli in modo corretto. Il risultato finale è un’alta correlazione con disturbi alimentari, depressivi, abbassamento del livello di autostima, riduzione della partecipazione alla vita sociale, ecc. La violenza contro le donne è una questione innanzitutto maschile. Essa ricopre problematiche riguardanti il modo in cui la differenza tra le relazioni di genere è percepita. L’educazione quindi ad una mascolinità che non sia restrittiva, ma che riesca a convivere pacificamente con tutti quegli aspetti considerati femminili, come la mitezza e la cura, diventa una priorità per questa società. Si necessità di una mascolinità che non siaesclusivamente basata sulla competizione per raggiungere e per non sentire persa quella virilità che sfocia in violenza (Merli, 2015).
Sono state date alcune spiegazioni relative a questa virilità maschile. La prima, esistenzialista, afferma che la violenza maschile è, piuttosto, “il danno collaterale di una certa concezione della virilità basata, almeno a partire dai greci, con Eracle, sulla figura dell'eroe guerriero, un modello di virilità costruita attraverso una serie di narrazioni di gesta di violente conquiste territoriali, sessuali” (Merli, 2015).
Secondo la psicoanalista Hirigoyen (2006), invece essa deriva dall’aver appreso, fin da piccoli, che il genere maschile è quello forte, potente e con più valore, imparando, contrariamente, che il sesso femminile è tutto quello che non è maschile. In tal modo i maschi tengono lontano da se stessi quelle caratteristiche imparate come appartenenti all’altro sesso, risultando conseguentemente diffidenti verso le donne, sentendosi più potenti di esse. È come se gli uomini rigettassero quelle parti di sé rifiutate perché sentite come minacciose, attraverso la negazione e l’eliminazione progressiva. Questo accadrebbe per il fatto che queste caratteristiche rimosse sarebbero associate solamente alle donne o a uomini che deviano dai classici standard della virilità trasmessi culturalmente (Hirigoyen, 2006).
Affinché si possa riuscire a produrre un maggior benessere sociale, è sicuramente necessaria una prevenzione, intesa come educare, fin dalla prima età, i bambini a rispettare le differenze e le qualità appartenenti ai diversi sessi. Inoltre questo potrebbe essere anche inteso come un debito etico di cui le società si fanno carico, per ogni singola donna che ha conosciuto ed è entrata, purtroppo, in contatto con la violenza di genere (Bonura & Pirrone, 2016).
1.5 La violenza interpersonale trasmessa dai mediaProviamo a vedere anche come le donne vengono rappresentate dai media, come viene descritta la violenza nelle relazioni intime e come questi (i media) uniti all’industria culturale co-costituiscono i concetti di genere e di violenza. I media contribuiscono alla riproduzione di determinati modelli di genere e alla presentazione di vari stereotipi. Sul versante visuale associano ed affiancano spesso l’eroticizzazione della violenza alla sua anestetizzazione, una forma di normalizzazione attraverso la rimozione del dolore dal regime di visibilità: «La massima espressionedella femminilità è saper accettare la violenza, gli abusi e persino la morte rimanendo sexy ed eleganti» (Bassetti, 2020).
Una prima costruzione culturale potrebbe essere quella relativa all’amore romantico, rimandando al concetto di amore cavalleresco dell’800 (Goffman, 1977). Questo concetto rimanda all’ideale secondo il quale l’uomo cortese, protettivo e attivo nel corteggiare la donna, è contrapposto a quest’ultima descritta come passiva, fragile e bisognosa di aiuto. In sostanza era l’uomo che si faceva attrarre dalle donne, le quali invece avevano il compito di attrarre. Era quindi l’uomo che sceglieva e decideva a chi concedere la propria protezione, in modo tale che le donne si sarebbero dovute “comportare bene”, cioè aderendo alle norme di genere. Esse erano descritte come coloroche non nutrivano di una propria autonomia e concedevano il potere in mano agli uomini (Giomi & Magaraggia, 2017). I miti dell’amore romantico fanno sì che la violenza venga figurata come “manifestazione della passione amorosa”, mentre la sopportazione e l’accettazione della violenzasubita “come testimonianza di devozione”. Giomi (2017) afferma che nonostante la figura del gentiluomo borghese nasce in opposizione a quella del proletario violento – «uomini ‘buoni’ che ripudiano la loro innata predilezione per la violenza e uomini ‘cattivi’ che la assecondano», è anchevero
che l’ideale romantico garantisca un’eccezione: tutti gli uomini possono essere violenti laddove ciò origini dalla passione. Alla naturalizzata violenza maschile nella società, è affiancata dunque la sua romanticizzazione (Giomi & Magaraggia, 2017).
Questo purtroppo ancora oggi fa sì che venga subito un condizionamento culturale, il quale conduce molte persone a ritenere le violenze sferrate contro il sesso femminile come un “semplice” motivo di gelosia o passione. Ciò de responsabilizza colui che maltratta, arrivando a credere alla sua volontà di non volere far del male, nonostante magari sia da diversi mesi che picchia, maltratta o aggredisce la partner o ex partner poi uccisa. La violenza non può essere giustificata né con l’amore né con la passione. Ricordiamoci o pensiamo che la maggior parte delle volte, per ogni donna e per ogni madre che viene uccisa, può esserci la presenza di un figlio. Il bambino con che idea dell’amore crescerebbe se nel nome di esso è giustificato uccidere? Oltre ad aver perso la madre, deve vedersi convincere in maniera esplicita o larvata che quello che è accaduto è stato giusto e meritato (Giomi & Magaraggia, 2017).
Il termine “vittima” deriva da victima, sostantivo latino che indicava il fenomeno religiosodell’offerta sacrificale di un essere vivente, un animale o una persona umana.
Data la ricchezza etimologica, i significati a cui il termine rimanda sono molteplici: la vittima è, quindi, «non soltanto quella che è stata scelta e consacrata, ma anche allo stesso tempo la più preziosa, quella che viene colpita, quella che viene offerta agli dei per ‘appagarli’, ovvero per calmarli» (Kolakowski & Prescendi, 2011, p.24). La parola, inizialmente legata ad un concetto prettamente religioso, ha poi assunto un’accezione più profana, rimandando al concetto di colui al quale viene inflitta una pena o un’ingiustizia, e per tale motivo ne derivano varie sofferenze (Piras, 2021).
La vittima nella società contemporanea è caratterizzata da una duplice faccia della medaglia: da una parte essa viene protetta dalle istituzioni deputate a difenderla legislativamente, e dall’altra invece strumentalizzata dai mass media. Questi ultimi si appigliano e fanno leva sulle emozioni, enfatizzando empatia e compassione rappresentano la sofferenza, la estetizzano, la spettacolarizzano e la rendono un mero bene transitorio di consumo per lettori e spettatori (Piras, 2021). In tal modo, la vittima è costretta a ricoprire un altro ruolo, che viene percepito come controverso e disturbante,uscendo dal proprio anonimato, incarnando il “nuovo eroe” della società:
«posta sotto i riflettori dei media, [la vittima] si ritrova in prima pagina, come i campioni sportivi o le stelle del cinema. All’improvviso celebre, esce dalla massa per via della sua disgrazia, brillando di tutta la sua innocenza» (Eliacheff & Soulez Larivière, 2008, p.18; Benbassa, 2009). È attorno alla vittima che si sviluppa la politica della compassione, o la “politica della pietà” come la definisce Hannah Arendt (Arendt, 2006). La vittima dopo aver subito violenze e ingiustizie, richiede aiuto attraverso un pubblico riconoscimento, smascherando la propria condizione e riconoscendole un’azione ripartiva. In questo modo il problema che si presenta non sarà più solamente di carattere personale, ma diventerà di dominio sociale. Ciò fa sì che le persone hanno il dovere di schierarsi,dopo che la vittimizzazione (processo di “costruzione sociale” delle vittime), ha creato delle aspettative.
Succede spesso anche che la vittima possa perdere in parte o tutti i vantaggi, compresa anche la protezione, nel caso in cui essa non ricalchi le caratteristiche del classico modello della vittima ideale per la società. Si può giungere addirittura fino a conferirle la colpa o a farla divenire oggetto di riprovazione. Tutto questo per ciò che di sbagliato viene socialmente e culturalmente tramandato, o ridotto a ingiusti stereotipi. Attraverso questi contesti culturali e comunitari si giustificanoancora comportamenti
inaccettabili e azioni violente (Christie, 2004). Deve essere assolutamente rivalutata questa concezione, dato che oltre alle conseguenze dirette sui figli, sul proprio genitore o le persone a loro vicine, comporta anche un ingente costo sanitario e sociale sia per le vittime che per la società. L'indagine “Quanto costa il silenzio”, realizzata da Intervita ONLUS nel 2013, ha permesso di stimare in quasi 17 miliardi di euro il costo economico della violenza contro le donne in Italia, di cui: 460,4 milioni di euro per i costi sanitari (pronto soccorso, cure specialistiche, ospedalizzazione, ecc.); 44,5 milioni di euro per i farmaci; 421,3 milioni di euro per i costi giudiziari; 289,9 milioni di euro per l'assistenza legale; 158,7 milioni di euro per l'assistenza psicologica; 154,6 milioni di euro per i servizi sociali; 7,8 milioni di euro per l'attività dei centri antiviolenza. Il costo stimato per la mancata produttività è di 604,1 milioni di euro. Il danno sociale ed esistenziale è stato quantificato in 14,3 miliardi di euro (Intervita Onlus, 2013). Nel rispetto delle proprie vittime e per la creazione di contesti comunitari liberi dalla violenza, sono necessari leggi, norme e valori che la contrastino attivamente e fermamente, asserendola come illegittima e irresponsabile (D’Agostini, 2016).
Miranda Fricker identifica la colpevolizzazione della vittima con un altro fenomeno da lei chiamato “Ingiustizia epistemica”. Quest’ultima forma di ingiustizia la suddivide a sua volta in altre due forme: l’ingiustizia testimoniale e l’ingiustizia ermeneutica (Fricker, 2007). La prima fa riferimento all’identità di una persona, dove a causa dei pregiudizi e degli stereotipi ad essa associati, minano la sua credibilità non ritenendo attendibile e affidabile la propria testimonianza. La seconda ingiustizia invece riguarda quelle persone che nonostante subiscano tali esperienzeviolente, non riescono a dargli il giusto significato e quindi non denunciano. Questa mancanza dipende dalla propria cultura di riferimento e deriva dal fatto che tali individui non ne abbiano una piena consapevolezza. Un esempio calzante per entrambi i tipi di ingiustizia è facilmente riscontrabile in due scene tratte dal film The Help, diretto da Tate Taylor, del 2011 e ambientato negli Stati Uniti nel 1963. Aibileen Clark era una delle donne di servizio protagoniste del film che,afroamericana, viene accusata in modo ingiusto di aver rubato tre posate di argento dalla casa in cui presta il proprio servizio. Aibileen cerca di difendersi da questa falsa accusa, fornendo una giustificazione più che plausibile, ma, nonostante ciò, la padrona di casa, una donna con la pelle bianca, decide ugualmente di licenziarla. Questo è ciò che potrebbe accadere quando si trattadi ingiustizia
testimoniale (Piras, 2021). Mentre ciò che si potrebbe dire a proposito dell’ingiustizia ermeneutica, è riscontrabile con Minny Jackson, un’altra donna di servizio anche lei afroamericana. Ella si ritrova invece vittima di abusi e violenze subite da parte del marito, ma non avendo una chiara e giusta percezione di ciò che subisce, non lo denuncia, non giungendo così a vivere una vita migliore. La sua incapacità di comprensione deriva dalla convinzione che sia naturale dover sopportare le violenze da parte delle donne (Fricker, 2007).
È presente un’asimmetria tra le ingiustizie a livello strutturale del potere sistemico, e questi esempi ne sono una dimostrazione. Questo è dimostrato dal fatto che, se anche all’interno della stessa società, alcune persone detengono maggiore credibilità di altre, indipendentemente da quanto succede, ma semplicemente in relazione ad una determinata identità (Fricker, 2007). Molte volte queste tipologie di ingiustizie hanno un’importanza cruciale durante la fase investigativa, nella copertura mediatica e nella ricezione della notizia o dell’evento da parte dell’opinione pubblica, chesi forma già dei pregiudizi e stereotipi negativi indipendentemente dall’accaduto («negative identity- prejudicial stereotypes»). Questi ultimi sono vivamente presenti anche per ciò che riguarda la violenza di genere, che insieme ad una distorsione epistemica si trovano profondamente radicati nella società a carattere prettamente patriarcale entro la quale viviamo. Un problema ulteriore si ha quando questi giudizi e pregiudizi si trovano in presenza di processi penali, limitando così l’imparzialità del giudizio. La soluzione secondo Fricker sarebbe quella di sviluppare una virtù epistemica chiamata: “giustizia testimoniale”. Attraverso di essa le persone che si trovano a dover giudicare lo faranno in modo imparziale, riconoscendo e correggendo i propri pregiudizi relativi all’identità di chi rende testimonianza (Fricker, 2007).
Questa ingiustizia testimoniale rimanda anche ad un altro fenomeno molto grave e purtroppo diffuso: il concetto della cosiddetta “cultura dello stupro” (Brownmiller, 1976; Manne, 2018, Harding, 2015). In questa espressione vengono convogliati tutti quei miti diffusi ampiamente nelle società o teorie implicite che giustificano o tollerano lo stupro (o la violenza di genere in generale). Solitamente sono teorie che possono essere riscontrate tra gli autori e colpevoli di tali violenze, in pratiche culturali o in persone arretrare a livello mentale. (Polaschek & Gannon, 2004). Secondo la giudice Paola Di Nicola, la violenza sessuale «è l’unico delitto che, in tutto il mondo, ha come
principale sospettata la vittima» (Di Nicola, 2018, p.111); ciò dipende dal fatto che pregiudizi e stereotipi riguardo alla violenza di genere sono «condivisi dal contesto sociale e culturale» e «passano attraverso le domande e le risposte della vicenda, senza che nessuno se ne accorga» (Di Nicola, 2018, p.111). Le donne o ragazze vittime di violenza di genere è come se partissero già svantaggiate fin dal processo iniziale. Quando denunciano le violenze subite, dovranno affrontare oltre ai problemi psichici e fisici conseguenti al trauma, anche i vari pregiudizi generalizzati relativi alla scarsa credibilità che nutrono nei suoi confronti. Questo è uno dei motivi per i quale numerose donne decidono di non sporgere neppure denuncia, accompagnate dalla mancanza di fiducia nutrita nei confronti del sistema giudiziario (Piras, 2021).
Molte volte le donne che non ricalcano il prototipo di vittima ideale vengono guardate con diffidenza e si trovano a doversi giustificare per ogni loro comportamento. Deviando cosìl’attenzione dalla persona che compie la violenza, alla vittima, rischiando di nutrire diffidenza nei suoi confronti, ma mostrando comprensione per l’imputato (Di Nicola, 2018). Un esempio di come ciò potrebbe accadere ce lo riporta P. D. James all’interno del suo romanzo “Una certa giustizia”, attraverso un’illustrazione dell’immagine di una vittima emersa durante un processo. James descrive sia come la vittima viene percepita dai giurati a livello psico-sociale, sia le riflessioni che l’avvocato della difesa, Venetia Aldridge, fa tra sé e sé: «sapeva di avere già in partenza un grande vantaggio: la vittima non suscitava un’istintiva simpatia. Mostrate a una giuria le foto del cadavere violentato di un bimbo, fragile come un uccellino, e un’atavica voce interiore sussurrerà inevitabilmente: “Qualcuno deve pagare”. Ma quelle crude fotografie della vittima suscitavano più disgusto che pietà. La sua reputazione era stata totalmente distrutta. [...] Rita O’Keefe era stata un’ubriacona dicinquantacinque anni, di aspetto sgradevole e d’indole litigiosa, con una voglia insaziabile di gin e di sesso. Quattro dei giurati erano giovani, due di loro avevano da poco superato l’età minima richiesta. E i giovani non sono mai indulgenti con la vecchiaia e la bruttezza. Le loro silenziose vociinteriori sussurravano un messaggio molto diverso: “Ha avuto quello che meritava”» (James, 1999).
Oltre ad atteggiamenti che cercano di colpevolizzare la vittima, possono subentrare ulteriori meccanismi come lo screditamento e la ridicolizzazione della vittima, e la minimizzazionedell’episodio di violenza. Queste dinamiche vengono utilizzate in
articolare modo dagli avvocati difensori dell’imputato, rafforzando gli squilibri di potere esistenti nella società. Gli effetti che derivano da queste dinamiche possono essere espressi direttamente, influenzando i processi, oppure in modo indiretto, facendo sì che le donne non espongano denuncia contro le violenze subite (Di Nicola, 2018).
Come Venetia Aldridge sa benissimo, la tendenza a colpevolizzare la vittima è «solo un frammento di una configurazione più ampia, un intero “linguaggio” o un modo di pensare»; «lo spostamento di responsabilità implicito [...] non è solo una mossa argomentativa, è anche uno stile di discorso e una visione della realtà corrispondente a un ben preciso atteggiamento intellettuale» (James, 1999). Viene spesso usata anche l’espressione “asked for it idiom”, soprattutto dalle attiviste femministe, per riferirsi e denunciare la violenza di genere e i casi di stupro. In particolare, con questa locuzione verbale, denunciano “la mentalità colpevolizzante e misogina” che fa sempre più parte dell’opinione pubblica. (Harding, 2015). Considerando questo punto di vista, si parla spesso di violenza intesa come una comunicazione imperfetta (miscommunication). Viene definita come “un’improvvisa se non irresponsabile manifestazione di consenso, o di qualcosa che è stato frainteso e interpretato come consenso”. Questa percezione delle cose fa sì che l’accusato, colui che offende la vittima (offender), avrebbe agito non con la volontà di recare danno, ma sulla base di un equivoco. Ne consegue una de responsabilizzazione, da parte dell’accusato, della propria colpa fondata così su una frettolosa e superficiale incapacità di aver male interpretato il consenso della vittima. Kate Manne chiama questo genere di letture himpathy o androfilia, vale a dire
«l’immagine speculare, spesso sottovalutata, della misoginia». Inoltre l’atteggiamento che viene mostrato verso gli autori di tali crimini, sempre secondo la studiosa, sono caratterizzati da simpatie che non dovrebbero meritarsi (Manne, 2018). Un caso recente successo negli Stati Uniti, a Hollywood, mostra come l’opinione pubblica e i media attribuissero molta più credibilità ai presunti stupratori, rispetto alle vittime, in quanto essi non ricalcavano lo stereotipo del mostro stupratore, ma anzi era caratterizzati da qualità gradite come uomini di successo, brillanti, belli e ricchi. Anche in questo caso si può parlare di ingiustizia testimoniale, non rivolta verso la vittima, ma verso l’aggressore, riguardanti l’identità dello stupratore-tipo (Manne, 2018).
Manne è fermamente convinta che sia necessario riconoscere la misoginia presente nelle società(banalità della misoginia) e modificare l’idea socialmente formatesi dello
“stupratore-mostro”. Come già sostenuto anche da Hannah Arendt, non sempre una persona che si macchia di questi crimini deve necessariamente ricoprire l’immagine stereotipizzata a lei riservata. Il “mostro” potrebbe apparire tranquillamente anche come “una persona ordinaria, o anche insulsa” (Manne, 2018). L’himpathy può condurre le persone verso la ricerca di giustificazioni riguardo comportamenti e attitudini che fanno parte della violenza di genere (Piras, 2021).
La psicologia sociale ha studiato anche un altro fenomeno molto diffuso: il disimpegno morale, attraverso l’utilizzo della colpevolizzazione della vittima (Bandura, 2016). In questo meccanismo il fautore della violenza, affinché non venga distrutta la propria autostima, si libera scindendosi dai sentimenti di autocondanna, attraverso otto diversi dispositivi cognitivi socialmente appresi e costruiti (giustificazione morale, etichettamento eufemistico, confronto vantaggioso, dislocazione della responsabilità, diffusione della responsabilità, distorsione delle conseguenze, disumanizzazione della vittima, colpevolizzazione della vittima). Tutti questi meccanismi vengonoattuati con lo scopo di sentirsi persone migliori, in modo tale che riescano a convivere con la propria crudeltà e giustificare quanto accaduto. Esistono tuttavia diversi miti (rape myths), luoghi comuni e false credenze rispetto agli atti violenti che vengono messi in atto contro le donne. Un primo esempio riguardante questi casi è la falsa convinzione che se il sesso avviene entro una coppia non si tratta mai di stupro; oppure l’idea fasulla secondo cui le donne mentirebbero circa la loro voglia di fare sesso; fino ad arrivare al mito dell’incontentabilità del desiderio maschile (Bandura, 2016). Se l’atteggiamento di colpevolizzazione, diffuso tra le persone vicine alla vittima, tra i familiari o gli amici, fino alla presenza anche negli ambienti più prossimi o in tribunale, la vittima potrebbero subire questi eventi e viverli come una seconda vittimizzazione (o revittimizzazione) (Moor, 2007). Le conseguenze che potrebbe subire sono sia a livello psicologico che fisico, con conseguente perdita di autostima conseguente all’ingiustizia epistemica. Potrebbe provare un persistente senso di vergogna per l’accaduto e sviluppare un disturbo da stress post-traumatico, associati ad una auto-svalutazione o ad una auto- colpevolizzazione (Cavarero, 2007).
Quindi possiamo dire che se questi miti vengono utilizzati dai fautori delle violenze con lo scopo di cercare di salvarsi la propria reputazione e la propria identità, hanno delle conseguenzeenormemente critiche per coloro che subiscono le violenze. Queste
ultime possono essere emarginate dalla propria società e relegate in una posizione isolata traingiustizie testimoniali e auto-colpevolizzazione, negando loro anche il diritto di ottenere giustizia. In particolar modo questo può avere un maggior impatto su tutte quelle vittime potenziali che non vengono considerate come vittime ideali, ovvero tutte quelle persone che non si conformano ai modelli di femminilità mainstream (Piras, 2021).
1.7 Vittime: concettualizzazione e ripoliticizzazione della vittima, e processi di vittimizzazioneIris Marion Young sostiene che l’oppressione, caratterizzata da molteplici processi sociali, abbia almeno cinque dimensioni o facce distinte: sfruttamento, marginalizzazione, mancanza di potere, imperialismo culturale e violenza (Stringer, 2014). I gruppi di donne o di potenziali vittime, esposte a violenza epistemica, colpevolizzazione della vittima e violenza di genere, sono esposte in modo sincrono a queste cinque facce dell’oppressione. Pierre Bourdieu l’ha chiamata “violenza simbolica”, la quale trova la propria funzione non solamente attraverso la violenza fisica, ma anche attraverso “una serie di habitus”, vale a dire schemi mentali e comportamentali, «matrici delle percezioni, dei pensieri e delle azioni di tutti i membri della società, come trascendentali storici che, in quanto universalmente condivisi, si impongono a ogni agente come trascendenti» (Bourdieu, 2017).
Nonostante si possano sensibilizzare le persone riguardo alla presenza di tali problemi, esso non sarà sufficiente finché non saranno trovati e attuati rimedi strutturali con il fine di sviluppare una forma di giustizia epistemica. Questa giustizia dovrebbe concedere una credibilità egualitaria a tutte le persone, prescindendo da gruppi sociali ai quali appartengono. Le vittime devono sentirsi protette e non ulteriormente accusate, devono poter avere a disposizione una serie di servizi completi, utili e a lungo termine, integrando aiuti medici, legali e sociali nel caso in cui la vittima ne avesse bisogno (Anderson, 2012).
1.8 La costruzione del “mostro” e la deumanizzazioneRitornando un attimo al discorso della narrazione mediatica, i femminicidi (di cui ne parleremosuccessivamente), termine con cui si identifica l’uccisione o la sparizione di
una donna a causa del suo genere di appartenenza, del suo essere donna, per motivi di odio, disprezzo, piacere o senso del possesso, è relegata in genere alla cronaca nera e a un modo morboso di riportare le notizie. I sistemi mediatici, quando si tratta di queste tipologie di delitti, incentrano la propria attenzione sulla “morbosità e la spettacolarizzazione del dolore”, enfatizzando informazioni che potrebbero essere racchiuse all’interno della “pornografia del dolore”: “una sorta di grottesca e bulimica euforia consumistica, dove si ostenta il dolore, dove la sofferenza è un indegno e miserabile spettacolo” (Calabrese, 2020).
Viene attribuito troppo spesso molta importanza alle presunte ragioni dell’assassino, al fatto che avesse agito per gelosia, che non avesse sopportato la perdita, che abbia tentato di mediare la situazione e al momento della negazione fosse scattato il “raptus”. La narrazione mediatica concentra l’attenzione sui dettagli macabri e colpevolizza le vittime. Nonostante tutto il frastuonoche genera l’accaduto, non si approfondisce mai la violenza maschile contro le donne, preferendo sempre rimanere ad un livello superficiale. I racconti fanno sempre riferimento al fatto che la vittima “se l’è cercata”, oppure che la loro idiozia non le avesse fatte allontanare. Quello che molte volte non viene detto è che ciò succede proprio quando le vittime se ne stanno andando, succede quando decidono di interrompere la relazione o hanno deciso di denunciare, nel caso non l’avessero già fatto. Gli assassini hanno deumanizzato le donne e le persone che hanno subito le violenze, e lo stesso trattamento di deumanizzazione, anche se in modo diverso, è rivolto da parte dell’opinione pubblica verso questi individui visti come mostri. Questa deumanizzazione è utilizzata dall’opinione pubblica per instaurare un distanziamento emotivo in grado di poter tenere al sicuro le proprie coscienze. “Noi non c’entriamo niente e possiamo goderci lo spettacolo in TV sprofondati nelle nostre comode poltrone” (Calabrese, 2020).
Il concetto di deumanizzazione, introdotto da Chiara Volpato, riguarda la negazione dell’umanità dell’altro – individuo o gruppo – che introduce un’asimmetria tra chi gode le tipiche qualità umane e chi ne è privato, o considerato carente (Volpato, 2016). Questo termine si riferisce alla sottrazione della propria umanità e alla svalutazione della persona offesa, riuscendo ad essere flessibile e adattabile ad ogni contesto culturale. La deumanizzazione si trova alla base di discriminazioni, violenze e massacri. Deumanizzare vuol dire “avere un’idea, implicita o esplicita, delle qualità chevengono
negate, avere quindi un’idea dell’umano e dell’essenza che gli si attribuisce” (Volpato, 2016). Attraverso la deumanizzazione, le persone vengono private delle due caratteristiche principali che rendono gli uomini tali:
Privare le persone di queste due componenti fondamentali per la propria vita, le rende trattabili come oggetti o usate come mezzo per scopi altrui. Non vengono più considerati come umani, ma come oggetti subumani (Calabrese, 2020).
La violenza di genere, che vede il suo apice nel conseguimento del femminicidio, vede nei fattori culturali una sostanziosa base per il proprio compimento. Già dall’uso che i media fanno delle immagini stereotipiche del corpo femminile utilizzate per fini commerciali, è possibile individuare quanto siano presenti problemi culturali. Il corpo della donna viene meramente mercificato, conducendo ad una visione completamente distorta del sesso femminile, ridotto solamente ad un corpo, non alla persona che sta davanti a noi. Chiara Volpato ci ricorda come “il diniego sia una parte costituiva dell’atrocità: prima si uccidono le persone, poi si uccide o si cerca di uccidere la memoria di quanto accaduto” (Volpato, 2016). Compagni, mariti e uomini che uccidono proclamando di averlo fatto per amore, sono e resteranno solamente degli assassini.
Per quanto riguarda le possibili difese che le vittime potrebbero mettere in atto, una delle più estreme è quella dell’identificazione con l’aggressore. In questo caso la vittima, costretta dal dominio percepito del potere evidente e incontrollato del compagno, si sottomette alla volontà dell’aggressore. La paura che la vittima percepisce è talmente elevata, che le impedisce di mettere in atto né una difesa né una reazione di rifiuto, preferendo rinunciare a sé e alle proprie libertà, in cambio della sopravvivenza. La vittima riesce a percepire ciò che l’aggressore sente da una parte e ciò che l’aggressore vuole che la vittima senta dall’altra. In questo modo la vittima riesce ad anticipare le azioni future e imminenti, riducendone la gravità della portata e aumentando le probabilità di sopravvivenza (Ferenczi, 1932). Il processo quindi alla base di questo meccanismo di difesa è quello della dissociazione. La vittima svuota la propria mente per far entrare lapercezione dell’aggressore, in modo tale che le
esperienze che successivamente vivrà saranno percepite attraverso uno stato oniroide. Ciò fa sì che l’esperienza di maltrattamento, di abuso e di violenza sia come se venisse vista dall’esterno, simile ad uno stato crepuscolare onirico meno accentuato. La conclusione di questo evento traumatico è la negazione, perché attraverso l’innesco di queste difese, la vittima arriva fino alla negazione della realtà (Calabrese, 2020). Il distanziamento dalle violenze e i tentativi di dimenticare ciò che viene subito, hanno lo scopo di mantenere buoni rapporti con gli aggressori e il cercare di assicurarsi lapropria sopravvivenza. Molte volte succede anche che la vittima si senta innocente e colpevole al tempo stesso, finendo per perdere fiducia nelle proprie percezioni e avendo un offuscamento della realtà.
Quando la violenza non sfocia in gesti che provochino l’uccisione della donna, le conseguenze che questi comportano sono comunque importanti e gravi, come ad esempio il disturbo da stress post traumatico. Le vittime possono manifestare inoltre anche due particolari tipologie di sintomi conseguenti a maltrattamenti: la “sindrome di Stoccolma domestica” e la “sindrome della donna maltrattata” (Reale, 2011).
Nella prima la donna si ritrova ad idolatrare il compagno o marito affinché possa garantire una protezione per se stessa e per i figli. In questa condizione psicologica appartenente alle donne maltrattate, esse attuano una modalità di adattamento cercando di tenere sotto il proprio controllo l’ambiente in cui vivono.
Mentre nella seconda, simile alla prima, le fasi che la donna vive, all’interno di un ciclo di violenza, possono essere suddivise in tre: accumulo della tensione, aggressione e percorse, e infine amore vero e proprio. In quest’ultima fase, la donna è vittima dell’illusione che l’uomo al suo fianco possa in qualche modo cambiare, smettendo di essere violento nei suoi confronti, amplificando così il disagio in lei (Walker, 1979; Walker, 1994; Walker, 2007).
All’interno delle dinamiche di violenze e maltrattamenti subiti dal sesso femminile, come violenza psicologica, denigrazioni, isolamento, intimidazioni, limitazioni economiche e controllo dei comportamenti, emerge un’altra problematica: il gaslighting funzionale all'assoggettamento mentale all'interno di una relazione di potere. La manipolazione che il partner abusante utilizza nei confronti della vittima, causa notevoli insidiosi problemi fisici e psichici, avendo probabilità di alterare anche il funzionamento mentale (Iaccarino, 2019).
Lenore Walker, psicoterapeuta Newyorkese, spiega come la violenza crei nelle vittime un sentimento di dipendenza fisica e psicologica, facendo sì che le vittime generino e mettano in pratica meccanismi di autodifesa. Le conseguenze che ne derivano possono dipendere dal tessuto personale e psichico della vittima e da quello socioculturale nella quale essa risiede (Walker, 1979; Walker, 1994; Walker, 2007).
Guardiamo se a livelli alti di uguaglianza corrispondono livelli elevati di violenza e viceversa, o se invece la prima riduce la seconda. Dai risultati ottenuti, attraverso l’indagine comparativa portata a termine nel 2012 dall’Agenzia Europea per i Diritti Fondamentali (Fundamental Rights Agency o FRA) riguardanti tutti i Paesi dell’Unione Europea, si può vedere quanto non sia veritiero il pensiero secondo il quale l’uguaglianza possa limitare e frenare la violenza. Infatti, la ricerca evidenzia come, nel periodo di riferimento, i Paesi nordici riportino un’elevatissima percentuale di donne vittime di almeno un episodio di violenza. Questi dati sono sorprendenti poiché tali Paesi sono sempre stati in vetta alle classifiche per quanto concerne l’uguaglianza di genere (Gracia & Merlo 2016).
È solamente all’inizio degli anni Sessanta del Novecento che si inizia a riconoscere il problema della violenza di genere contro le donne e la sua stretta connessione con la disparità dei generi. Nasce proprio in questi anni, in USA, l’espressione “violenza sulle donne”. Questo problema di diseguaglianza di genere a discapito delle donne è fondato sulla società prettamente patriarcale formatasi nel corso della storia. Con riferimento ai contributi sulla violenza da partner, già dai primi anni Settanta il sociologo Goode (1971), ispirato a sua volta dalla resource theory di Blood e Wolfe (1960), propose l’idea secondo cui gli uomini, all’intero della propria relazione di coppia, gestissero molte più risorse della compagna o della moglie. Quando questa gestione, sia della forza fisica, sia di risorse materiali, non riusciva a piegare le donne di fronte ai propri obiettivi, veniva utilizzata anche la violenza. Secondo Goode quindi il potere negoziale della donna sarebbe limitato dalle minori opportunità economiche e dai vincoli che le vengono imposti. Conseguentemente la donna si troverebbe in difficoltà nel difendersi dalla violenza che si consuma all’interno delle proprie mura di casa o dalle relazioni violente che la coinvolgono (Harway & Hansen, 2004).
Un’altra ipotesi femminista di impronta sociologica fa riferimento al fatto che la violenzadomestica non derivi tanto dall’ammontare delle risorse da parte di uno o
dell’altro, ma dalla disparità di risorse presente tra i due. Sono state osservate anche la frequenza delle molestie sessuali che rappresentano il tipo di violenza più diffusa fuori dalle mura domestiche.I dati e gli studi disponibili evidenziano quanto le molestie siano sempre più presenti sul luogo di lavoro e più facilmente tollerate quando il contesto lavorativo è prettamente maschile, ma soprattutto quando ci riferiamo alla cultura maschile dello specifico luogo di lavoro (Beneit, Escribano, & Garcia, 2019). In particolare, per citare alcuni esempi, la letteratura fa riferimento a quei lavori come l’esercito o le miniere (Ilies, Hauserman, Schwochau, & Stibal, 2003). Altre situazioni in cui si vengono a verificare le molestie sono quelle relazioni fortemente basate sulla gerarchia maschile, dove appunto l’uomo ricopre la posizione di cui che domina (McDonald, 2012; Commissione Europea, 1998). Ciò si potrebbe verificare, ad esempio, tra le donne che si trovano ad essere disoccupate o con un’occupazione precaria (Istat, 2018; McDonald, 2012), ma potrebbe verificarsi anche tra donne che hanno un’alta scolarizzazione o un’autorevole posizione lavorativa (FRA, 2014; Bates, 2018). Più che denunciare, le donne vittime di molestie, la maggior parte delle volte preferiscono reagire ad esse cambiando lavoro (McLaughlin, Uggen & Blackstone; Istat, 2018). È stato visto come una donna lavoratrice ha meno probabilità di subire violenze psicologiche all’interno della propria relazione intima, poiché lavorando è sia più indipendente, sia contribuisce maggiormente all’allontanamento del rischio di povertà. Povertà e violenza domestica nutrono di una forte associazione. Mentre guardando la discrepanza di stipendi, si è visto che le donne che guadagnano maggiormente sono associate ad una maggiore probabilità di subire violenze fisiche e sessuali, rispetto a coloro che percepiscono uno stipendio minore. Se invece lo stipendio della donna è maggiore rispetto a quello del suo partner, in questo caso la probabilità di subire violenze sessuali o fisiche risulta maggiore. Per quanto riguarda invece il livello di istruzione in relazione alle violenze e alle molestie subite dal proprio partner, questo risulta più probabile quando il livello di istruzione è basso (Bettio & Ticci, 2017).
Quindi avere un lavoro per le donne risulta essere un elemento importante per uscire da relazioni violente e avere una propria autonomia.
1.9 Statistiche sulla violenza: uno sguardo ai numeri della violenzaSecondo i dati riportati dall’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il 35%
delle donne di tutto il mondo ha riferito di essere stata vittima di almeno una forma di violenza da parte di un uomo. Questo vuol dire che più di 1 donna su 3 ha subito queste violenze (World Health Organization, 2021).
Rashida Manjoo, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, ha affermato che la violenza domestica risulta essere la forma di violenza più persuasiva e diffusa che continua a colpire tutto il mondo, con dati statistici che indicano la sua presenza dal 70% all’87% dei casi.
In Italia: sono circa 14.000 le donne che ogni anno si rivolgono ai centri antiviolenza italiani; nel2014 sono stati in 16.678, con circa 13.000 nuovi casi. 7 su 10 sono cittadini italiani, così come italiani sono la maggioranza gli aggressori (72%) (D.i.Re, 2014). L’Istat, attraverso una propriaricerca in Italia risalente al 2016, evidenzia come il 31,5% delle donne italiane abbia subito una qualsiasi forma di violenza di genere. Risulta così che le donne colpite da violenze sessuali o fisiche da parte di un uomo sono precisamente 6.788.000. ricordandoci che questi dati fanno riferimento alle donne che hanno avuto la forza di denunciare l’accaduto, poiché la maggior parte delle volte, ovvero 9 volte su 10, il crimine non viene denunciato. Un ulteriore precisazione riguarda il fatto secondo cui il 10,6% delle donne che ha subito violenza sessuale aveva un’età inferiore ai 16 anni (Istat, 2007; Istat, 2015). Nonostante l’omicidio sia in diminuzione rispetto agli anni precedenti, ifenomeni come il femminicidio e la violenza contro le donne sono, purtroppo, in costante aumento. Dai dati provenienti dell’osservatorio Eures del 2017, si osserva che sono 142 le donne che sono state uccise, registrando così un incremento del 0,7% rispetto all’anno precedente. Di queste 142 vittime 119 sono state uccise all’interno del proprio nucleo familiare, affermando che “gelosia” e “possesso” fossero alla base di più di un terzo delle uccisioni. Inoltre l’Eures ha evidenziato come lo stalking e i maltrattamenti in famiglia, siano entrambi in aumento rispettivamente del 4,4% e dell’11,7%. L’unico dato che ha subito un incremento, per quanto positivo possa essere inteso, sono le denunce per le violenze sessuali, che registrano un +5,4% (Eures, 2017). Lewandowski e colleghi (2004) hanno stimato che i casi di tentato femminicidio sono ben il triplo dei casi di omicidio.
Un ulteriore ricerca è stata condotta dal Dipartimento di psicologia dell'Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, la quale ha analizzato più di 300 fascicoli giudiziari e sentenzedi condanna di questi omicidi. Essi evidenziano quanto sia
estremamente diffuso l’utilizzo del movente della gelosia, indicato come passionale dai giudici. Tale categoria però non ha un’esistenza né a livello giuridico, né a livello psichiatrico. Si tratta piuttosto di omicidi dettati dal possesso e dal controllo sulla vittima e dal fatto di considerare la donna comeun “oggetto alla propria mercè”. Il costo che la donna si ritrova a dover pagare, per cercare di sottrarsi a questi attaccamenti morbosi dell’uomo e al concetto di passività, molte volte, coincide con la perdita della propria vita (Baldry & Ferraro, 2010).
Di fronte a questi dati sconcertanti non si può parlare né di emergenza né di retorica. Riconducibile alla società maschilista, patriarcale e fondata ancora eccessivamente su discriminazioni a scapito del sesso femminile (considerato il “secondo sesso”), queste violenze non possono più passare inosservate o nell’indifferenza. Queste strutture devono necessariamente essere smontate alla base, le relazioni famigliari non devono essere sbilanciate e non può esistere ancora la mancata uguaglianza di diritti e la reale libertà per le donne nel XXI secolo. La soluzione non risiede nell’aumentare le pene o agire attraverso la castrazione chimica, ma andando a sradicare ciò che questa società, nel corso del tempo, ha creato (Valente, 2019).
Considerando la Convenzione di Istanbul che si propone di “proteggere le donne da ogni forma di violenza e prevenire, perseguire ed eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica” e le relative “quattro P” (Prevenzione, Protezione, Procedimento contro i colpevoli e Politiche integrate), il nostro Paese non è rimasto fermo a guardare, ma ha fatto passi in avanti. Sono passi indirizzati verso i cittadini e verso le persone vittime di violenza, cercando di fornire protezione e cercando di combattere i reati. Per quanto riguarda invece la prevenzione e le politiche integrate, la strada è ancora lunga e devono essere spesi maggiori sforzi per tali fini.
Quindi risulta necessario che queste problematiche vengano affrontate il prima possibile affinchépossa essere garantito che tutte le donne possano godere di pari diritti, essere protette nei casi in cui si verificassero violenze e guadagnare credibilità nei casi in cui decidono di denunciare. È un processo “indispensabile per il benessere e lo sviluppo di tutta la società italiana, non solo della sua componente femminile”. Il percorso di crescita deve partire dagli insegnamenti delle scuole della prima infanzia, padroneggiare un linguaggio diverso e un utilizzo migliore e più accreditato dei media e mass media. Necessitiamo di una migliore formazione degli operatori che entreranno in
contatto con la violenza e una più approfondita ricerca. Questi sono sicuramente dei buoni punti di partenza per movimentare una rivoluzione di questa società e di queste crudeli ingiustizie (Valente, 2019).
2. IL FEMMINICIDIO E GLI ORFANI SPECIALI2.1 Definizioni etimologiche dei termini femicidio, femmicidio e femminicidio. Considerazioni sul concetto di genereÈ doveroso, quando parliamo di femminicidio, illustrare e chiarire inizialmente l’uso di tre vocaboli molto simili tra loro, anche se diversi in termini di utilizzo. È possibile riscontrare in letteratura tre termini diversi: femicidio, femmicidio e femminicidio (Spinelli, 2011, p.125). Le possibili distinzioni possono aversi per significato politico, avendo appunto origini e connotazioni diverse, ma possono anche racchiudere una differente modalità di approccio allo studio.
Fu nel 1801, nel libro satirico A Satirical View of London at the Commencement of the Nineteenth Century, che per la prima volta è stato utilizzato il termine femicide per indicare l’uccisione di una donna in modo generico (Corry, 1801). Nel 1976, con la criminologa femminista Diana H. Russell questo termine giunge al First International Tribunal on Crimes Against Woman, organizzato a Bruxelles. Anche se è il 1992 l’anno in cui, Diana H. Russel, insieme a Jill Radford, utilizzano il termine femicide nella loro opera “Femicide The Politics of Women Killing” per descrivere “l'uccisione misogina di donne da parte di uomini” (Radford & Russell, 1992, p.3).
Con questo termine si descrive la dimensione e la relazione violenta come principale causa di morte e uccisione sessista di una donna, la quale deriva conseguentemente a pratiche sociali misogine. Si intende quindi l’uccisione di una donna perché donna, vittima di disparità di ruoli e oppressa per la mancanza di diritti (Corradi, Marcuello- Servòs, Boira, & Weil, 2016).
Il femmicidio ci parla anche esso della natura del delitto di genere, specificando che tale fenomeno è anche un fatto che appartiene alla sfera della socialità, contestualizzato e delineato dalla cultura di riferimento.
2.2 Definizione di femminicidio e originiIl femminicidio invece viene da subito inteso quale categoria generale della violenza contro ledonne, estendendosi a qualsiasi forma di violenza di genere volta ad annientare la soggettività femminile dal punto di vista fisico, psicologico, simbolico ed economico. Le novità checaratterizzano il termine “femminicidio” fanno riferimento all’accezione
più ampia che viene data al suo significato. Questo include ulteriormente tutti quegli atti e queicomportamenti aggressivi che minacciano la libertà, lo sviluppo e l’integrità della donna, determinandone “l'assoggettamento, l'annientamento fisico e psicologico, senza causarne necessariamente la morte” (Russell, 1992). Ci riferiamo al femminicidio tutte quelle volte in cui “la donna subisca violenza fisica o psicologica, economica, sociale o religiosa, in famiglia e fuori, quando, cioè, non riesce ad esercitare “i diritti fondamentali dell’uomo", perché donna, ovvero in ragione del suo genere o anche a causa dell'abuso di potere volto cioè ad ottenere il totale annullamento del femminile” (Spinelli, 2008). Come abbiamo più volte ripetuto, queste violenze sono fondate su una società patriarcale e misogina, dove il ruolo della donna viene considerato inferiore e dove la vita di una donna può essere estinta se la supremazia maschile viene percepita come messa in discussione (Russell, 1992). Il femminicidio può essere considerato come una forma di espressione del controllo maschile su quello femminile, attraverso condotte basate sulla diseguaglianza di genere (Baldry, 2016). Iniziare tuttavia a chiamare con il proprio nome quegli omicidi misogini e commessi nei confronti delle donne perché appartengono al genere di donna, ha permesso di ridurre la vasta generalizzazione presente fino a quel momento, comprendendo tutto ilsubstrato sociale, culturale e psicosociale sotteso ad essi. I termini femminicidio e femicidio nascono appunto per rendere visibili e conoscibili tutti quegli omicidi commessi volontariamente nei confronti delle donne (Spinelli, 2011).
Derivante dallo spagnolo (feminicidio), il termine femminicidio trova in Marcela Lagarde il proprio ampliamento a significati specifici e molto più estesi, appartenenti all’oppressione e alla diseguaglianza di genere dovuta alla complessa relazione tra violenza e discriminazione sessuale. In Italia, prima dell’avvento dell’utilizzo di questa parola, l’unico modo per descrivere la morte di una donna condotta per mano di un uomo, era uxoricidio (Baldry, 2016). La parola femminicidio fu riconosciuta nel nostro Paese ufficialmente, solo a partire dal 2001.
La Word Health Organization (World Health Organization, 2012) individua quattro diverse tipologie di femminicidio:
possesso o estrema forma di esercizio del proprio. In Italia è la tipologia di crimine maggiormente commesso (Baldry & Ferraro, 2010);
detto, se ne è iniziato a parlare con il decreto legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito nella legge 15 ottobre 2013, n. 119, sulle “Nuove norme per il contrasto della violenza di genere che hanno l'obiettivo di prevenire il femminicidio e proteggere le vittime”, dopo che il parlamento italiano ha ratificato la Convenzione di Istanbul del Consiglio d'Europa sulla “Prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica” (Amnesty International, 2015). Nel 2017 viene istituita dal Senato la Commissione di inchiesta parlamentare sul femminicidio, per analizzare il fenomeno in Italia e per trovare soluzioni finalizzate a ragionare la problematica.
2.2.1 I numeri del femminicidio
Ogni anno quasi 2 milioni di donne negli Stati Uniti sono gravemente maltrattate e uccise nel contesto familiare (Eures, 2015). Nello stesso periodo, sempre in USA, sono circa 2.000-3.000 le donne vittime di IPF (femminicidio del partner intimo), rappresentando la principale causa di morte per le donne afroamericane di età compresa tra i 15 e i 45 anni (Lewandowski, Mcfarlane, Campbell, Gary, & Barenski, 2004) e la settima causa di morte prematura per le donne in generale. Ogni 18 secondi una donna viene picchiata dal suo partner attuale o da un ex partner, giungendo a 4.800 le donne che subiscono un'aggressione nell’arco di una giornata, da parte del compagno o ex compagno. In Italia, considerando lo stesso periodo temporale, le donne vittime di aggressione sono circa 250. Nel mondo invece sono circa 6.000 le donne che ogni ora subiscono abusi fisici o sessuali, che vengono perseguitate dai loro partner o ex partner, e uccise (Unicef, 2000). Sempre in Italia è stato visto che ogni giorno 95 vittime donne denunciano di aver subito minacce, 87 ingiurie, 64 lesioni dolose, 19 percosse, 14 di stalking, 10 violenze sessuali, e come se non bastasse ogni due giorni una donna è vittima di femminicidio (Casa delle donne per non subire violenza, 2013).
L’Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che il 30% delle donne nel mondo hanno subitoqualche forma di violenza all’interno della propria relazione intima (World Health Organization, 2012). In tutti i Paesi il principale rischio per la donna di essere uccisa è proprio attraverso le mani del proprio partner intimo, in particolar modo all’interno del proprio contesto domestico, precedute da percosse a lungo termine (Campbell et al., 2003) e nel 29% delle IPF, l'autore si suicida (Dawson & Gartner, 1998).
Gli Stati Uniti rappresentano un Paese in cui i tassi di omicidi sono elevati. È stato visto che nel 2008, degli omicidi totali riguardanti le donne, il 45% erano state vittime di omicidi commessi da parte dei partner intimi, mentre gli uomini uccisi da partner intimi rappresentano il 5% degli omicidi maschili totali. Allo stesso modo, nel Regno Unito, nel 2009, il 54% degli omicidi femminili e il 5% degli omicidi maschili sono stati commessi da un partner intimo. In Sud Africa invece, uno studio fatto tra il 1999 e il 2009, ha mostrato che circa il 50% delle donne che sono state uccise, è avvenuto per mano di un partner intimo (Sharma, 2012). “Questo retaggio culturale a sfavore del femminile è stato quantificato dall’Eures (Ente Europeo Ricerche Economiche e Sociali) che, nel rap-porto 2013 sull’omicidio volontario in Italia, sottolinea che il 70% delle vittime di reati omicidiari in famigliasono donne. Tra il 2000 e il 2012 segnala
2.200 donne vittime di omicidio in Italia, con una media di 171 donne uccise ogni anno e 81 uccise nei primi sei mesi del 2013, ossia una ogni due giorni” (Eures, 2014). Sono circa 150 le donne uccise, sempre nell’arco di un anno, per mano del marito, ex marito, convivente o ex convivente. 1 femminicidio su 4 è compiuto dal partner. In Italia viene ucciso una donna dal proprio marito, convivente, fidanzato attuale o ex in media ogni 72 ore (Eures, 2015). Nel 2015 sono state 125 le donne vittime di femminicidio, di cui 70 sono state assassinate dal proprio partner o ex partner eterosessuale (Eures, 2015, p.22).
Inoltre, la percentuale di donne che vengono assassinate dai propri partner è di 6 volte maggiore rispetto a quella inversa, aggirandosi l’una intorno al 38,6% e l’altra 6,3%, riflettendo in tal modo come sia evidente la disparità di genere e la differenza di omicidi commessi da parte di entrambi i sessi. “Il Rapporto Eures 2013 sottolinea che, alla forte caratterizzazione di genere di al-cuni reati violenti (sono donne il 90,5% delle vittime di violenze sessua-li, il 77,4% di stalking e il 55,3% di ingiurie), si affianca una crescente femminilizzazione per le minacce (45,4% di vittime donne), le percosse (48,3%) e le lesioni dolose (40,6%), alle quali si contrappone una asso-luta dominanza degli uomini come esecutori della violenza” (Casa delle donne per non subire violenza, 2013).Anche la “Casa delle donne per non subi-re violenza” di Bologna ha confrontato i dati Eures nel decennio che va dal 2000 al 2011 con quelli ottenuti da loro, anche se in un periodo differente, datati 2005-2012. Anche se elaborare una comparazione sia difficile, in quanto i periodi diriferimento siano differenti, è stato riportato che i casi
complessivi sono 908 per il gruppo di Bologna, mentre 1.459 quelli raccolti dall’Eures. Giungendo così ad una media considerevolmente diversa, di 194 femicidi l’anno per la “Casa delle donne per non subi-re violenza” e invece molto più alta quella ottenuta dall’altro ente (Casa delle donne per non subire violenza, 2013). “Guardando i dati riportati dall’Eures con riferimento alla distribuzionedei casi di femminicidio fra 2010 e 2014, da un'analisi dettagliata emerge che la genesi di coppia di femminicidio familiari si conferma ciascun intervallo annuale, con una percentuale di donne uccise dal proprio compagno ex compagno pari al 61,8% nel 2010, al 72,7% nel 2011, al 69,4% nel 2012,
al 66,4% nel 2013 e al 69,2% nel 2014” (Eures, 2015, p.22).
Dall'analisi delle sentenze del ministero di giustizia si evince che nei casi in cui la vittima è una donna, l’88,5% delle volte a commettere il reato è un uomo. Inoltre, sono 355 le sentenze dichiarate come femminicidio su 417 esaminate, costituendo così l’85% dei casi di omicidi giunti a processo. I dati Eures indicano che le donne vittime all’interno del contesto familiare sono pari ai tre quarti, nel periodo che va dal 2001 al 2016. Esiste una relazione sentimentale attuale o pregressa tra la vittima e l’autore del reato nel 60% dei casi. Se invece vengono considerate anche le relazioni di parentela, i casi di omicidio salgono al 75%. Quindi risulta che nel 63,8% dei casi, vittima e autore sono coniugi o conviventi, il 12% fidanzati, il 24% aveva intrattenuto una relazione sentimentale. (Eures, 2017).
Questi dati risultano elevatissimi nonostante la loro raccolta sia ostacolata da fattori quali la disponibilità e la qualità nel reperirli. Soprattutto nei Paesi a basso e medio reddito, i dati nazionali riguardanti gli omicidi avvenuti risultano incompleti e poso esaustivi. I dati sono principalmente raccolti attraverso polizia e obitori, rimanendo la maggior parte delle volte sconosciute le informazioni riguardanti la relazione e il legame tra la vittima e l’autore del delitto. La percentuale mediana di omicidi di partner intimi tra le donne uccise era più alta nel sud-est asiatico (58,8%, 58,8–58,8), nei paesi ad alto reddito (41,2%, 30,8–44,5), Americhe (40,5%, 7,5–54,8) e Africa (40,1%, 38,6– 41,7). La prevalenza era più bassa nella regione del Pacifico occidentale (19,1%, 19,1– 21,3), nella regione europea a basso e medio reddito (20,0%, 1,82–37,8) e nella regione del Mediterraneo orientale (14,4%, 5,3–23,6) (Eures, 2017).
Circa le modalità di omicidio, invece, emerge un profilo primitivo. Le prevalenti modalità diomicidi avvengono per mezzo di armi bianche, armi da fuoco, unite alla
colluttazione quale sfogo di rabbia inaudita. I mezzi e le armi più utilizzate per perpetrarel’uccisione sono, prima di tutti, l’utilizzo di armi da punta e da taglio, come il coltello, che richiama proprio l’ambito domestico. Questo è l’oggetto che è più facilmente reperibile e dannoso che una persona può trovare in casa e nel 41% dei casi le donne sono vittime di ripetuti colpi violenti. Il 18% delle uccisioni avviene tramite strangolamento, 12,8% con armi da fuoco e il 9% delle volte la vittima viene aggredita senza l’utilizzo di armi, ma colpita con pugni, calci e testate, fino a strangolarla e soffocarla. Inoltre, è stato visto che in un ulteriore 15,5% dei casi la donna viene uccisa con oggetti di varia natura: martelli, accette, bastoni, picconi (Bartolomeo, 2017).
Per quanto riguarda i tentati femicidi, vengono considerati importanti e vengono valutati oltre alle minacce psicologiche, anche le percosse, atteggiamenti discriminatori, violenze economiche, anche tutte quelle azioni che vengono definite e reputate gravi (Casa delle donne per non subire violenza, 2013).
Le fasce di età che sono ritenute più a rischio per subire qualsiasi forma di violenza, sono quelle interposte tra i 25 e i 44 anni. Questa è l’età entro la quale gli individui iniziano a progettare e programmare la propria vita, nella quale iniziano a instaurare solide relazioni affettive e familiari. Vengono stimate circa 784 donne uccise in questa età (dai 25 anni ai 34 è la più esposta), nell’arco di anni tra il 2000 e il 2012. Un’altra fascia di età considerevolmente colpita è quella delle donne anziane (ultra- sessantaquattrenni), registrando un altro elevato numero di vittime, circa 524, nello stesso periodo temporale (Casa delle donne per non subire violenza, 2013).
Per quanto riguarda invece i fattori e i segnali di rischio per i femicidi, si è visto come nel 93,5% di una relazione di coppia, la volontà e la richiesta di separazione è di parte femminile, con il delittoche si compie entro i tre mesi successivi nel 48% dei casi. Nel 44% dei casi antecedenti la separazione, la donna aveva sporto denuncia per violenza e nel 67,5% la violenza che si consumava entro le proprie mura di casa era nota a terzi. Il 19% delle vittime, prima di essere state uccise, hanno subito un inasprimento della violenza. All’interno invece di coppie unite, il 40% delle coppie vive una litigiosità costante ed estrema. Il “possesso” da parte dell’uomo rappresenta nel 17,3% dei casi, la ragione dell’uccisione della donna. Questo possesso è rivolto alle situazioni in cui la donna vorrebbe interrompere il proprio rapporto intimo con l’uomo. È proprio all’interno delle coppieunite che si sono verificati il maggior numero di
femminicidi, con una percentuale pari al 40,9%, più che nelle coppie separate, nonostante il nostro immaginario avrebbe pensato diversamente (Casa delle donne per non subire violenza, 2013).
La relazione inerente al femminicidio, presentata al Senato, evidenzia come questo fenomenoavvenga per motivi passionali nel 31% dei casi, per litigi e dissapori nel 24%, il 15% delle volte a causa di malattie psichiche sofferte dall’autore e un altro 15% per raptus. Sono molte di più le volte che i femminicidi vengono consumati a causa della collera scattata da litigi accesi (“la motivazione principale è il rifiuto da parte della donna di continuare o riprendere la relazione sentimentale”), invece che premeditati dall’autore. La donna è colpita ripetutamente e con veemenza nel 41% dei casi, e nel 55% l’autore è reo confesso e prende la decisione di chiamare le forze dell’ordine (Eures, 2015).
Un problema ancora più profondo riguarda quando queste violenze e questi femminicidi sono consumati nei confronti di madri incinte, commettendo così una vera e propria “doppia violenza”, andando a gravare sia sulla madre che sul feto. La violenza in gravidanza, in Italia, rappresenta la seconda causa di morte materna, e nonostante quanto questo sia grave, non sono stati prodotti dati specifici su queste tipologie di vittime. Un altro importante fattore di rischio può essere la presenza di una storia di violenza verificatasi prima della gravidanza, o una gravidanza non voluta associata alla giovane età della donna. Questo fa sì che la probabilità di subire violenza aumenti di quattro volte, con un picco tra i 16 e i 19 anni di età (Casa delle donne per non subire violenza, 2013). “Il problema delle donne uccise nelle relazioni intime affettive, e quindi, per trasposizione, delle donne con figli che vengono uccise all'interno della relazione affettiva, colpisce il 50% del totale delle donne uccise in Italia” (Baldry, 2016). Il numero degli orfani di femminicidio rimane ancora un mistero da dovere essere svelato. Di loro non si parla quasi mai, ad eccezione di particolari fatti di cronaca o perché il giornalista che scrive l’articolo nutre una particolare attenzione nei loro confronti. Quindi si può solamente trarre delle stime derivanti dal numero di donne che vengono uccise e dalla verifica se avessero dei figli. Negli Stati Uniti, sebbene non ci siano dati di prevalenza nazionali, le stime indicano che sono circa 3.300 i bambini affetti da IPF ogni anno (Lewandowskiet al., 2004). Le donne di età compresa tra 30 e
39 anni hanno maggiori probabilità di essere vittime di femminicidio e tentato
femminicidio, in particolare se lavorano e il loro guadagno risulta inferiore di 25.000$ all’anno. Poiché queste donne sono così giovani, di conseguenza anche i loro figli saranno piccoli, infatti la maggior parte di loro hanno meno di 10 anni. Quest’allarmante prevalenza di bambini esposti, così piccoli, a violenze domestiche, omicidi o tentati omicidi, aumenta esponenzialmente le probabilità di incontrare conseguenze negative, aggravate ulteriormente dal mancato supporto ricevuto. Questi episodi sono e continuano ad essere ancora troppi. Il fenomeno del femminicidio riguarda una tipologia di violenza che colpisce, oltre alla donna vittima e la sua famiglia, l’intero tessuto sociale,e deve inoltre interessare tutta la comunità che non può rimanere passiva di fronte all’accaduto.
“Va rotta una catena, non muoiono sole le donne, ma anche i bambini e gli altri superstiti” (Prandi, 2020, p.3).
2.3 Le conseguenze dei traumi e il dolore di chi rimaneSandor Ferenczi (1932), psicoanalista ungherese, identificò le possibili conseguenze dovute all’effetto distruttivo del trauma. Le vittime, che siano genitori o figli, possono mettere in pratica identificazioni patologiche con coloro che li offendono, come una sorta di colonizzazione mentale (identificazione con l’aggressore, vista precedentemente) (Ferenczi, 1932). Il trauma a cui lo psicoanalista fa riferimento è una ferita, una lesione che si crea tra la vittima e il modo nel quale è immerso, modificando così il rapporto tra se stesso e l’esterno. Questo trauma può ripercuotersi sia sulla vita personale della vittima, sia nel contesto relazionale. Il vissuto e le conseguenze più frequenti ad una violenza di genere sono quelle riconducibili ad un senso di incredulità, percependo i traumi come eventi impensabili, sovvertendo e sobbalzando la vita mentale e psichica dell’individuo. Il trauma rende le persone completamente impotenti, frantumando l’illusione di avere tutto sotto il proprio controllo. Le vittime arrivano in questo modo a perdere il potere personale e il controllo di se stessi, compromettendo di conseguenza anche il legame con gli altri (Prandi, 2020).
Il disorientamento provato dalle persone offese, è riconducibile alla discrepanza tra ciò che subiscono, ovvero le violenze, e le loro credenze, miste alle proprie aspettative di vita. Di conseguenza anche la loro autostima e la fiducia risulteranno compromesse, in quanto non sonoriuscite a evitare le violenze, sentendosi in parte anche responsabili.
I dolori, le violenze subite e i traumi tendono ad essere sepolti dalle persone che ne sono vittime, ma più cercano si sommergerli e più saranno difficili da dimenticare, nonostante l’utilizzo del diniego o di altri meccanismi di difesa (Prandi, 2020).
Molte persone, tra cui molti bambini vittime di violenze assistite, domestiche, sessuali o quel che siano, non ne vogliono più parlare. Sono stanchi. Preferiscono non pensare o non parlare di ciò che sono stati costretti a subire. Non hanno voglia di tormentare se stessi o gli altri. Preferirebbero non ricordare, anche se la letteratura ci mostra quanto sia importante la loro testimonianza, rappresentando un passo importante per un possibile recupero psichico (Prandi, 2020). Un esempio di questi tragici episodi sono i figli del femminicidio. Sono i figli di chi, il proprio padre, ha portato via loro la madre. Sono i cosiddetti “Orfani speciali".
2.4 Orfani speciali: chi sono e perché sono detti “speciali”“Chi sono? Come stanno? Dove sono? Con chi sono? Di cosa hanno bisogno gli orfani di femminicidio, cosiddetti speciali, in Italia e nel mondo, non è noto. Sono una parte della popolazione dimenticata, sottaciuta, emarginata che pare non meritarsi politiche di intervento e di protezione” (Baldry, 2018). A coniare questo termine di “orfani speciali” è stata Anna Costanza Baldry, criminologa e docente di Psicologia sociale e giuridica all’università Luigi Vanvitelli di Napoli.
Quando si parla di orfani speciali, facciamo riferimento a quei bambini, adolescenti, giovani adulti o già adulti rimasti orfani della propria madre a causa del padre. Vengono considerati tali anche coloro che il proprio padre o la propria madre sono stati uccisi da persone con cui questi erano legati affettivamente (anche se per questi fatti viene utilizzato maggiormente il termine “orfani di crimini domestici”). Gli orfani speciali sono stati denominati con questo termine perché i loro bisogni, il loro vissuto e ciò che hanno subito è speciale e unico. I casi di femminicidio sono purtroppo tra i più diffusi sia in Italia che in Europa, e a pagarne le spese sono anche i bambini.
Come abbiamo detto il loro vissuto è speciale. Se provassimo a paragonarlo a ciò che potrebbe comportare una catastrofe naturale, un evento luttuoso o un incidente, non sarebbe comunque la stessa cosa. Ciò che perdono questi bambini e le conseguenze che ne derivano sono immense. Sono conseguenze appunto uniche, speciali (Baldry, 2018). La morte di un genitore, a qualsiasi età, hasempre conseguenze molto importanti. È
come perdere una parte di sé nonostante venga ritenuta una cosa naturale, nel senso che è un evento inevitabile quando si diventa adulti e i genitori invecchiano. Sono molti purtroppo però gli eventi della vita che rendono questo evento non più naturale, ma traumatico, sia per i modi, che per i tempi. Il femminicidio incarna la sofferenza più estrema che un bambino potrebbe mai vivere, poiché oltre a perdere la propria madre, perde di conseguenza anche il padre (suicida o in carcere). Lo stesso padre, figura che dovrebbe proteggerci, è nient’altro che la fonte del dolore, la causa del trauma del figlio e l’assassino della madre. Questo altro non è che un trauma, all’interno del trauma (Baldry, 2018; Calabrese, 2020). Questi crimini sono in ogni contesto devastanti, in qualsiasi modo e in ogni circostanza; quando si verificano durante l’infanzia o l’adolescenza, e per di più in maniera traumatica, possono avere conseguenze debilitanti per tutta la vita.
Il quadro clinico del figlio può essere profondamente aggravato se fosse stato presente durante l’uccisione della madre. A tale trauma può essere associato inoltre anche la paura di essere lui stesso ucciso dal padre (succede molte volte), andandosi così a sommare, come se già non bastasse, a tutte le violenze subite e assistite. Coloro che sopravvivono all’accaduto possono sentirsi disorientati, frastornati, impauriti e increduli. È come se vivessero in una bolla, in un sogno. Questi bambini cresciuti in contesti di violenza sono “bambini silenziosi, abituati a nascondersi in vari posti, sotto il tavolo, a fare silenzio, a non disturbare, in modo che l’altro non si accorga” (Calabrese, 2020). Allo stesso tempo potrebbero sentire anche la necessità di agire, di rialzarsi e rimettere in ordine le cose. Le paure e il dolore che tali eventi portano con sé faranno parte di chi rimane e molte volte saranno relegati ad una propria solitudine. Purtroppo, “guarire” da dolori così profondi, radicati e devastanti, non è possibile. Il dolore, quando è talmente forte da cambiare la propria vita, non può essere dimenticato. Non servirà cercare di compensare o di non pensare, sarà necessario, per costruirsi da capo una nuova possibilità e una nuova vita, una ristrutturazione della propria persona e della parte scompensata. Cercare di rimuovere o sostituire il dolore e il proprio vissuto, non è la scelta migliore da percorrere per riuscire a ricominciare, né tanto meno la soluzione alla propria sofferenza (Calabrese, 2020). I traumi più diffusi e presenti nei figli, successivi all’avvenimento dell’uccisione della propria madre, e in alcuni casi anche alla testimonianza oculare dell’accaduto, possonoessere: disturbo da stress post
traumatico (dspt), pensieri, immagini e suoni intrusive ricorrenti relativi all'accaduto; incubi e disturbi del sonno; distacco emotivo e attaccamento ansioso; negazione; paura cronica che l'evento possa accadere nuovamente; bassa concentrazione e scarsi risultati scolastici (Burman & Allen-Meares, 1994; Eth & Pynoos, 1994). Sono facilmente osservabili e comuni anche depressione, ansia, comportamenti passivo aggressivi, problemi nelle relazioni tra pari, sentimenti di rabbia, senso di colpa e complicanze somatiche.
Una recente metanalisi ha mostrato che, in media, il 16% dei bambini traumatizzati ha sviluppato PTSD (Alisic et al. 2014); in base ai criteri del DSM-IV: combinazione di almeno cinque (peradolescenti e adulti) o quattro (per bambini di età inferiore ai 6 anni) sintomi di intrusione, evitamento, alterazioni negative delle cognizioni e dell'umore e alterazioni dell'eccitazione e reattività). I tassi individuati però differivano a seconda della tipologia di trauma subito, poiché quando il trauma era interpersonale, come potrebbe essere un’aggressione, i livelli di PTSD erano molto maggiori. Le analisi condotte a riguardo delle tipologie dei possibili traumi evidenziano l’importanza che deriva dal benessere del caregiver (Alisic, Jongmans, Van Wesel, & Kleber; Morris, Gabert-Quillen, & Delahanty, 2012) e dal supporto sociale percepito per l’accaduto (Trickey, Siddaway, Meiser-Stedman, Serpell, & Field, 2012). È necessario intervenire nei confronti di questi ragazzi, con il fine di ridurre, se possibile e più quanto sia possibile, i potenziali danni. Una delle misure più importanti da considerare e da valutare è il collocamento del bambino dopo che il femminicidio è avvenuto. È proprio il contesto successivo al delitto che permetterà ai bambini di poter elaborare l’accaduto e la gestione del lutto. Il problema sorge quando questi bambini sono collocati all’interno di situazioni famigliari, presso i propri parenti, che non sono in grado di gestire quanto successo e preferiscono non parlarne, come se non fosse mai successo niente. Questi comportamenti impediscono un’elaborazione, accrescendo così le fatiche e le sofferenze dei piccoli, cronicizzando il trauma e il dolore, con conseguenze molto gravi anche nel breve termine (Baldry, 2018).
Le conseguenze che il femminicidio porta con sé e che si riversano sui bambini possono essere tra loro differenti. Ogni figlio, sia nel breve che nel lungo termine, può avere reazioni diverse dai propri fratelli o da altri bambini. Sono presenti, sempre nei bambini, anche molti fattori cherendono difficoltosa la comprensione di quanto sia
accaduto. Essendo piccoli non sono in grado di acquisire informazioni precise sul decesso in modo autonomo, quindi si vedono costretti a chiedere spiegazioni a chi hanno intorno in quel momento. Data anche la mancata formazione universale del concetto di morte, persistono nel richiedere la presenza della madre, bloccati nella difficoltà di chiedere conforto per il dolore che li sta lacerando.Potrebbero sperimentare impotenza di fronte a quanto accaduto o arrivare a pensare anche che tutto sia successo per causa loro, che dipenda dalla propria esistenza (Baldry, 2018).
Inoltre, questi bambini “sono a rischio di sequele psicologiche e comportamentali negative a causa del trauma subito e a tutti i fattori di stress associati”. Il rischio di diventare adulti violenti, riportando nel futuro ciò che hanno vissuto nel passato è particolarmente elevato, in particolare modo se anche loro sono stati vittime di violenze (Crowell & Burgess, 1996; Fagan & Browne, 1994). La violenza vissuta può essere riproposta anche in contesti sociali extra familiari, come ad esempio a scuola, dove i bambini si ritroveranno a intrattenere interazioni e legami più negativi sia con i coetanei che con gli insegnanti. I bambini rifiutati potrebbero sviluppare anche l’idea che il mondo sia ostile solamente nei loro confronti. Risultando conseguentemente molto difficoltoso rivedere i propri pensieri, sentimenti, intenzioni e motivazione in relazione agli altri, non riuscendo ad avere una capacità riflessiva.
Un’altra conseguenza devastante per questi bambini è quella di essere visti e diventare i “figli della vittima” e i “figli dell’assassino”, i cosiddetti “figli di…”, i “figli del femminicidio”. È in questo modo che vengono visti dagli altri ed è in questo modo che anche loro tendono a sentirsi: schiacciati dal peso della stigmatizzazione e detentori della “lettera scarlatta” cucita addosso (Baldry, 2018).
È stata indagata anche la resilienza in questi orfani, intesa come adattamento con risultati positivi di individui e famiglie, nonostante questi siano stati esposti a fattori di rischio significativi. Gli studievidenziano come il ruolo importante di fattori protettiti in grado di aumentare la resilienza nei bambini esposti a violenza. Ad esempio, un contributo importantissimo per lo sviluppo di una risposta resiliente è dato dalla relazione stabile che gli adulti premurosi (che si prendono cura dei bambini) instaurano con gli orfani (Humphreys, 2001; Parker, Steeves, Anderson, & Moran 2004). Questo dimostra quanto sia necessario e fondamentale fornire agli orfani di femminicidio un ambiente sano, di supporto e sicuro, affinché possa avvenire un loro recupero. Inoltre,
risultano avere un ruolo altrettanto importante anche i fattori protettivi esterni al sistema familiare, come potrebbero essere le nuove amicizie instaurate, gli ambienti che il bambino frequenta o le risorse a cui può attingere (Humphreys, 2001). Questi ultimi fattori non sono assolutamente da sottovalutare, in quanto il non poter più vivere nel proprio ambiente familiare, abbandonando, probabilmente, così le proprie abitudini, i propri amici, la scuola, le persone, cambiando molte volte anche città e avendo contatti prolungati con polizia e operatori del sistema giudiziario penale, possono rappresentare un aumento del trauma (Lewandowski et al., 2004). In uno studio su 146 bambini affetti da IPF, Lewandowski e colleghi (2004) hanno scoperto che l'87% si è trasferito dalle loro case dopo l’incidente.
Per gli orfani di femminicidio e per quelle persone che restano quando il delitto è stato già commesso, servirebbe un sostegno e un aiuto sia psicologico, per rielaborare il lutto e per iniziare un percorso di terapia, sia un aiuto economico in quanto non saranno autosufficienti per il proprio sostentamento. Devono essere aiutati a superare i propri sensi di colpa e permettere che anch’essi possano essere in grado di riprogettare un proprio futuro. Per far sì che ciò si possa verificare, è necessario che l’intera società si assuma le proprie responsabilità. “Se è vero che l'unico responsabile materiale e quindi criminale dell'omicidio è chi lo ha commesso, tuttavia una società civile che non è stata in grado di tutelare le sue cittadine e i suoi figli lasciandoli orfani, è in parte corresponsabile, sia perché non è in grado di contrastare una cultura misogina, sia per la mancanza di tutele coordinate, tempestive ed efficaci". Quindi subire per i bambini una consulenza psicologica dopo il trauma è un aspetto fondamentale, come è fondamentale che i propri caregivers si accorgano delle difficoltà psichiche del minore. Lewandowski et al. (2004) hanno riferito che nel 22% dellefamiglie colpite dal femminicidio, nessuno dei bambini ha ricevuto consulenza. A tal proposito, il Parlamento italiano con l’approvazione della legge 11 gennaio 2018 n.4, cerca di offrire assistenza e sostegno agli orfani di femminicidio, attraverso una gamma diversificata di strumenti normativi. Questa legge riconosce il nodo fondamentale che ricopre la violenza di genere e la violenza domestica, per troppo tempo ignorate e ancora oggi non sufficientemente esplorate. Enfatizzando i traumi e le profonde conseguenze distruttive di natura psicologica, sociale ed economica che tali eventi si portano dietro (Calabrese, 2020).
2.4.1 I numeri degli orfani speciali:
Anche se il problema degli orfani speciali, la cui mamma è uccisa dal padre, è un dramma mondiale e una stima approssimativa ne calcola oltre 55.000 all’anno (Alisic et al., 2015), stupisce, anche se solo in parte, quanta poca attenzione alla ricerca sia stata finora rivolta nei loro confronti. Calcolare l’incidenza dei bambini orfani di femminicidio non è così facile da determinare, inquanto, attraverso i registri riguardanti i crimini domestici, non viene quasi mai scritto o detto se essi sono presenti. Gli unici dati a nostra disposizione sono quelli derivanti dalle stime condotte neltempo attraverso i registri pubblici degli omicidi. In Italia, ad esempio, così come in altri paesi, non si sa nemmeno quanti siano gli «orfani speciali» (Calabrese, 2020). Ogni anno quasi mezzo milionedi persone muoiono vittime di omicidio. Almeno uno su sette di questi omicidi
è perpetrato da un partner intimo (Sto c̈ kl et al., 2013). Se stimiamo prudentemente che
il 40% delle vittime abbia figli e che una famiglia media ne coinvolga due, ogni anno oltre 55.000 bambini in tutto il mondo subiscono un lutto a causa dell'omicidio del partner. Anche utilizzando i dati di Uniform Crime Reports, il numero di bambini colpiti ogni anno è considerevole. Le nostre stime sono che se almeno 2400 donne vengono uccise da un partner intimo ogni anno e se almeno il 60% di questi casi coinvolge bambini (1440 casi) con una media di 2,3 bambini in ciascuna di queste famiglie (Lewandowski et al., 2004). Nonostante non siano presenti dati di prevalenza nazionale, le stime indicano che ogni anno circa 3300 bambini, negli Stati Uniti, siano profondamente colpiti da questi omicidi (Lewandowski et al. 2004). In Virginia si stima appunto che nel 75% dei casi, la donna, di età compresa tra i 15 e i 44 anni, abbia almeno un figlio e che si trovio negli anni della gravidanza o negli anni dell’educazione dei bambini. Nel loro studio "Fattori di rischio del femminicidio del partner intimo", Campbell e colleghi (2003) hanno riscontrato che i bambini presenti all’interno delle mura domestiche durante l’omicidio erano pari al 63% dei casi studiati. Più nel dettaglio, è stato rilevato che erano il 43% degli orfani, quelli che hanno assistito effettivamente alla scena oppure hanno ritrovato il corpo della madre (Campbell et al., 2003).
Inoltre, nella stragrande maggioranza dei femminicidi, si parla del 66-80% dei casi, il bambino, per anni, ha avuto il trauma di assistere a violenze precedenti nei confronti della propria madre(Campbell & Parker, 1992; Smith et al., 1998). Inoltre, circa il 14-
29% dei femminicidi dei partner intimi sono omicidi-suicidio, aggiungendo ulteriori traumi e dolore per i bambini che potrebbero perdere entrambi i genitori contemporaneamente (Dawson & Gartner, 1998). I bambini rimasti orfani, ancor più se hanno vissuto la scena dell’omicidio in prima persona, regrediscono manifestando sintomatologia di ansia reattiva da perdita dell'attaccamento, collera, regressione dell'uso degli sfinteri, negazione, messa in atto di forme rituali di gioco ossessivo- compulsivo (Eth & Pynoos, 1994).
2.4.2 Il collocamento degli orfani speciali:
Viene dato per scontato che la scelta migliore riguardante il collocamento degli orfani, dopol’uccisione della propria madre, sia all’interno del contesto dei familiari più stretti. Garlatti afferma che in realtà questa scelta, non ricalchi quasi mai la scelta migliore per un orfano, non permettendo né un’elaborazione corretta del trauma, né riuscendo a ridurre il malessere che tale trauma comporti (Baldry, 2018). Nonostante ciò, in uno studio su 146 bambini affetti da IPF, Lewandowski e colleghi (2004) hanno scoperto che l'87% si è trasferito dalle loro case dopo l'incidente e che i loro nuovi caregiver includevano parenti materni (47%), parenti paterni (12%), sia parenti materni che paterni (ad esempio, quando i fratelli sono stati separati; 10%) e altri caregiver, come i genitori affidatari (9%) (Lewandowski et al., 2004). Oltre a questo studio, in più della metà di casi monitorati riportati in letteratura nazionale e internazionale, Garlatti mostra come questa scelta sia ancora la più diffusa. Come abbiamo già detto in precedenza, questi orfani sono considerati speciali per ciò che hanno subito, per il fatto che oltre ad aver perso un genitore, ucciso dall’altro genitore, hanno perso anche quest’ultimo. È appunto un dramma nel dramma, un trauma nel trauma. Oltre ad essere tale per i figli, è così anche per gli altri familiari e questi non avranno mai la lucidità di guardare come stanno le cose in realtà, prendendo posizione o avvertendo un enorme peso su di loro che non riescono agestire. Anche i parenti si ritrovano a dover affrontare emozioni legate all’uccisione di qualcuno molto vicino e potrebbero non essere emotivamente disponibili per i bambini (Baldry, 2018). Inoltre, l'inclusione di uno o più bambini nella propria famiglia si è rivelata una sfida per i caregiver (Hardesty, Campbell, McFarlane & Lewandowski, 2008). L’influenza che potrebbe derivare dalla famiglia della vittima o da quella dell’assassino, potrebbero non permettere al figlio una
corretta elaborazione, o addirittura preferirebbero non volerne parlare. In alcuni casi potrebbero anche non raccontare ai bambini la vera natura dell’accaduto, nascondere o distorcere la verità. A tal proposito Black e Kaplan (1988) hanno notato che i parenti, al contrario dei caregiver non imparentati, spesso decidevano di non dire ai figli la vera natura della morte dei loro genitori, o distorcevano la verità, che era vista come una barriera per il recupero dei bambini (Black & Kaplan, 1988). È però solamente attraverso la verità che il bambino può intraprendere percorsi catartici e la ricostruzione del valore di fiducia rivolto verso qualcuno. I bambini vogliono e devono sapere la verità. È stato ben documentato che il disagio del caregiver influisce sul funzionamento del bambino, sia negli articoli recensiti che nella più ampia letteratura sui traumi infantili e sullo sviluppo del bambino (Salmon & Bryant, 2002; Scheeringa & Zeanah, 2001).
Se l’orfano viene affidato ad una famiglia estranea ai fatti, e se in essa prevalgono e risultano più efficaci i fattori di protezione su quelli di rischio, allora la resilienza ha maggiore efficacia sul benessere e sulla capacità di copying del bambino. Il trauma e le conseguenze possono essere mitigate a patto che si stabilisca una relazione stabile con i nuovi caregivers nel corso degli anni. I nuovi genitori devono essere in grado di fornire un ambiente e un contesto sicuro e di sostegno (Humphreys, 2001; Parker, Steeves, Anderson, & Moran, 2004). Il collocamento degli orfani presso nuovi genitori deve quindi essere considerato di fondamentale importanza e non una seconda o terza soluzione rispetto al collocamento dai aprenti. I nuovi genitori potrebbero concedere all’orfano un migliore stato di salute psicofisica dopo il lutto. Il benessere e la resilienza dei caregivers sono fattori estremamente importanti per la protezione dei bambini (Baldry, 2018).
L’ambito psicologico, che viene compromesso in conseguenza all’aver vissuto il trauma, è strettamente correlato con quello fisico e relazionale. I bambini si ritrovano ad avere un legame di attaccamento destrutturato e più che incrinato. Il senso di colpa provato da essi, unito a perdita di fiducia, paura, ambivalenza, già esistenti prima della morte della madre, si sommano alle conseguenze provocate dal lutto, generando ripercussioni disastrose. Risulta così essere fondamentale identificare i fattori di rischio antecedenti l’omicidio, per capire quando e dove è necessario un intervento (Marsac, Kassam-Adams, Delahanty, D, Widaman, & Barakat, 2014).
Inoltre, di estrema importanza è il periodo immediatamente successivo al trauma, ovvero la settimana seguente all’omicidio, rappresentabile metaforicamente attraverso l’immagine di un terremoto, che determinerà la portata e la magnitudo del danno e del trauma, e la relativa gestione (Baldry, 2018). Le migliori pratiche nell'assistenza psicosociale dopo disastri e traumi di massa sottolineano costantemente l'importanza di una comunicazione buona e onesta. Sia l'ambiente diretto dei bambini che i professionisti coinvolti possono ridurre o aumentare l'esperienza dei bambini di caos o mancanza di sicurezza.
Quindi gli orfani speciali mostrano una moltitudine di bisogni e aree che rappresentano dolore e sofferenza. Sono caratterizzati da senso di solitudine e hanno bisogno di punti di riferimento, anche se spesso vengono affidati a parenti anziani poco vicini ai loro bisogni. Nutrono un forte senso dell’abbandono, in particolare modo immediatamente dopo l’accaduto, non sostenuti neppure dalla scarsa rete sociale che si ritrovano ad avere. Necessitano di sicurezza e informazioni adeguate per riuscire, o almeno provare ad evadere, dall’incertezza del futuro. Gli orfani hanno bisogno di un supporto per l’accettazione di un percorso terapeutico, troppe volte rifiutato perché ritenuto poco efficace a livello di concretezza. Infine, necessitano anche di un supporto a livello economico, soprattutto se si ritrovano in assenza di beni di proprietà o di fondi a disposizione, o in presenza di debiti (Baldry, 2018).
2.5 Percezioni del caregiver sull'adattamento dei bambiniLa teoria dello stress familiare (studia gli effetti dei cambiamenti all’interno o all’esterno della famiglia, successivamente ad eventi inaspettati) postula che l'adattamento sia modellato da fattori contestuali che includono fattori di stress pre-IPF, la natura dell'evento stressante (IPF) e le sue tensioni e difficoltà associate, risorse familiari e strategie di coping e percezioni familiari e individuali della situazione (Boss, 2002). Per quanto riguarda le strategie di coping, Hardesty e i suoi colleghi, hanno individuato quelle più utilizzate, ovvero: rimanere occupati, usare rituali e sollecitare il supporto sociale. Le strategie sono state vissute come utili dalle famiglie, sebbene gli autori abbiano messo in dubbio gli effetti a lungo termine delle strategie di evitamento (Hardesty et al., 2008).
Dal punto di vista dei caregivers invece sono stati riferiti problemi di adattamento
mentale, fisico, comportamentale e accademico tra i bambini dopo il femminicidio del partner intimo (IPF), come è possibile riscontrare in una testimonianza di una donna, curatrice del nipote di 7 anni: “Dopo l'incidente, è stato curato per un disturbo da deficit di attenzione e iperattività, diagnosticati in precedenza ma non trattati. Ha mostrato segni di disturbo da stress post-traumatico e recentemente è stato diagnosticato come "disturbato emotivamente". È rumoroso, distruttivo, impulsivo e si picchia con i bambini a scuola. Subito dopo l'IPF, era pieno di rabbia e rabbia. Aveva incubi quasi ogni notte. Se la luce del corridoio non fosse accesa, avrebbe urlato finché non mialzavo e l'accendevo. È in un programma di livello 4 a scuola, ha bisogno di un rapporto a tu per tu con tutte le materie” (Hardesty et al., 2008, p.108).
I problemi che la maggior parte dei caregivers solitamente incontrano, come abbiamo dette nelle pagine precedenti, sono di varia natura. Quelli di natura mentale maggiormente rilevati sono stati:depressione, ansia, disforia, dolore prolungato, sintomi di stress post-traumatico, difficoltà di apprendimento e concentrazione a scuola e incapacità di mantenere precedenti livelli di autostima o connessione con figure di supporto sociale (Dowdney, 2000). In particolare, sono molto presenti i concetti di lutto prolungato e traumatico, riferendosi a quella tipologia di dolore e disagio persistente (Eth & Pynoos, 1994), che dura più di 6 mesi da dopo l’accaduto. Questo dolore prolungato comporta sintomi come l’incredulità riguardo alla morte, intorpidimento, angoscia da separazione e la sensazione che la vita sia priva di significato. A causa di questo straziante evento, i bambini si ritrovano in difficoltà a svolgere i “normali compiti di lutto”, ritrovandosi a convivere con una combinazione patologica, derivante dall’accaduto, e le relative reazioni al lutto (Brown & Goodman, 2005). Sono stati identificati otto di questi compiti normativi, con i bambini tenuti a: (a)accettare la realtà e la permanenza della morte; (b) sperimentare e affrontare reazioni emotive dolorose alla morte; (c) adeguarsi ai cambiamenti nella propria vita e identità derivanti dalla morte; (d) sviluppare nuove relazioni o approfondire le relazioni esistenti per aiutare a far fronte alla morte; (e) investire in nuove relazioni e attività di affermazione della vita come mezzo per andare avanti; (f) mantenere un attaccamento continuo e appropriato alla persona amata deceduta attraversoattività come il ricordo e la commemorazione;
(g) dare un significato alla morte, che può includere la comprensione del motivo per cui la persona èmorta; e, (h) continuare attraverso le normali fasi di sviluppo dell'infanzia e
dell'adolescenza (Goodman et al., 2004, p.11). Sono state segnalate anche eventi di amnesia sotto stress, un sintomo di PTSD. Ad esempio, Mariana, 9 anni, è stata "in grado di descrivere alcuni aspetti dell'evento in modo molto dettagliato un giorno, e un altro giorno avrebbe detto che non riusciva a ricordare nulla". La bambina riferì che non riusciva a ricordare molto del giorno in cui i suoi genitori morirono, nemmeno la data.'' (Lovrin, 1999, p 112). Inoltre, vengono spesso riferiti anche problemi relativi alle preoccupazioni sull’ansia da separazione e sui disturbi del sonno, di intensità maggiore nei mesi immediatamente successivi all’IPF.
Un’altra caregiver ha dichiarato che: “mia nipote di 11 anni non andrà da nessuna parte da sola. Non vuole essere sola. Non possiamo chiudere nessuna porta in casa. Vuole dormire con me. Non vuole chiudere la porta del bagno o la tenda della doccia. Ha solo paura di essere lasciata sola” (Hardesty et al., 2008). Oltre a non voler dormire da soli, i bambini hanno problemi di sonno che derivavano da incubi costanti, si svegliano ripetutamente di notte, vogliono dormire in posti diversi (per esempio, la macchina) e hanno paura del buio.
Invece, i problemi maggiormente rilevati di natura fisica includono: disturbi somatici,cambiamenti di peso e appetito, e sintomi di asma; sono molto ricorrenti anche mal di testa e dolori di stomaco (Black et al., 1992). I bambini hanno difficoltà a mangiare e ad alimentarsi mostrando sintomi di nausea. Hanno cambiamenti di peso e alterazioni di appetito, misti ad altri comportamenti insoliti come "imbottirsi la bocca fino al punto di conati di vomito" (Gaensbauer et al., 1995, p.524). Un esempio di una forte reazione fisica nella fase acuta è stato un ragazzo che ha sviluppato una febbre alta durante le prime due settimane dopo l'omicidio (Rupa, Hirisave, & Srinath, 2013).
La maggior parte delle volte i caregivers si preoccupano in misura superiore per la saluta mentale dei bambini, più che della salute fisica, anche quando i problemi di entrambe le nature erano presenti contemporaneamente (Hardesty et al., 2008). Questo probabilmente è dovuto al fatto che si è soliti associare di più i problemi mentali al trauma subito. I cambiamenti a livello comportamentale presentavano numerose variazioni e includevano ribellione generale, comportamenti distruttivi e impulsivi, e problemi relativi ai coetanei (per esempio l’uso di droghe). Tra i ragazzi, di qualsiasi sesso, non è da escludere anche il profondo e doloroso problema del suicidio (Hardesty et al., 2008).
Risulta fortemente necessario individuare le caratteristiche predittive e i fattori di rischio che potrebbero scatenare conseguenze ancor più gravi, enfatizzando maggiormente i fattori protettivi, mitigati attraverso anche i punti di forza della nuova famiglia. I possibili fattori deputati allaprotezione includono capacità di coping positivi, alta autostima; legame con altri significativi come altri membri della famiglia, insegnanti, assistenti sociali e membri della comunità; un luogo sicuro dove andare al di fuori della casa; sane credenze e standard positivi riguardanti relazioni interpersonali in cui le azioni e le conseguenze sono delineate (Fitzpatrick, 1997; Kolbo, 1996).
Quando devono essere progettati programmi finalizzati alla protezione e alla cura dei bambini, è doveroso e necessario valutare tutti i possibili fattori, sia di rischio che di protezione. In particolare quando i figli assistono all’omicidio o al tentato omicidio del proprio genitore (Hawkins, 1995).
3. Focus sull’affidamento3.1 Cosa è l’affidamento e come funzionaL’affidamento familiare si propone come un intervento complesso e multilivello, da attivare per tutelare i minori in difficoltà. La legge 184/83 che disciplina l’istituto dell’affido prevede, infatti, che il minore che sia temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo possa «essere affidato ad un’altra famiglia, possibilmente con figli minori, o ad una persona singola, o ad una comunità di tipo familiare, al fine di assicurargli il mantenimento, l’educazione e l’istruzione» (art. 2).
Nel corso degli anni, le diverse criticità emerse dall’applicazione della legge del 1983 hanno portato alla revisione di alcuni suoi articoli; in particolare, la legge 149/2001 pone specifica attenzione alla durata della permanenza del minore in una famiglia diversa da quella biologica,precisando all’art. 4 comma 4 che l’affidamento
«non può superare la durata di ventiquattro mesi ed è prorogabile, dal tribunale per i minorenni, qualora la sospensione dell’affidamento rechi pregiudizio al minore». Emerge in questa revisione della legge del 1983 un richiamo al servizio sociale nella direzione dell’efficacia delle forme di stimolo e sostegno da attivare verso e con la famiglia di origine, finalizzate ad un miglioramento delle sue capacità educative, ma anche una chiara preoccupazione per la protezione della continuità dei legami che il minore ha instaurato con la famiglia (Cassibba, Cavanna, Bastianoni & Chistolini, 2018). Ulteriori importanti modifiche al testo della legge 184/83 sono riportate nella legge173/2015, nota anche come legge sulla «continuità affettiva»; questa ribadisce con forza unimportante principio: il diritto al mantenimento dei legami significativi da parte dei minori in affido familiare. In particolare, la legge dispone che: «qualora in seguito a un prolungato periodo di affidamento il minore sia dichiarato adottabile e la famiglia affidataria chieda di poterlo adottare, iltribunale, nel decidere sull’adozione, dovrà tener conto dei legami affettivi significativi e del rapporto stabile e duraturo consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria» (comma 5 bis inserito all’articolo 4 della legge 184/83).
L’obiettivo dell’istituto dell’affido è, quindi, quello di “assicurare al minore che non disponga di un ambiente familiare idoneo alla sua crescita, la possibilità di beneficiare, temporaneamente o meno, delle cure di una famiglia affidataria, in attesa, se possibile, di tornare a vivere con la propria famiglia di origine che, in tempi contenuti (al massimo
in due anni), dovrà essere aiutata dai servizi territoriali a raggiungere un livello adeguato di capacità genitoriali” (Cassibba et al., 2018).
3.2 Tipologie di affido e valutazione di efficacia:Nella prassi possiamo individuare almeno 3 diverse tipologie di affidamento (Per semplificare la trattazione si tralascia di considerare gli affidi cosiddetti part-time) (Cassibba et al., 2018):
Per quanto riguarda il secondo caso invece, l’obiettivo è quello di capire quale potrebbe essere il contesto più indicato e appropriato per il bambino. Il tempo che deve trascorrere è auspicabilmente il più breve possibile, garantendo nel mentre un ambiente consono e adeguato. L’affido potrà essere ritenuto concluso quando, al termine dei due anni massimi previsti, verranno raggiunti i due obiettivi di: a) aver individuato una collocazione definitiva per il minore (non necessariamente il suo rientro in famiglia); b) avergli garantito un contesto di relazioni adeguato durante la valutazione della recuperabilità dei suoi familiari.
Infine abbiamo il terzo caso, il più lungo temporalmente, dove l’obiettivo del progetto è quellodi aiutare il bambino in affidamento a relazionarsi e a costruire un
saldo legame con la famiglia affidataria, in modo tale che possa sviluppare un forte senso di appartenenza. In più, sarà necessario e importante aiutare il bambino ad affrontare il fatto che non possa più far rientro nella propria famiglia, sostenendolo in questa fase di elaborazione della perdita (Cassibba et al., 2018).
Chistolini (2015) sostiene che sia necessario e fondamentale attivare gli affidamenti “sine die” quando la definitività dell’affido e la consapevolezza del mancato rientro in famiglia risulta evidente e chiara fin dall’inizio, oppure quando durante l’affido si viene a conoscenza dell’irreversibilità dello stesso. Questo risulta importante per i bambini e i genitori affidatari, in modo tale che possano instaurare una stabilità e un’appartenenza reciproca. È ulteriormente fondamentale iniziare a vivere l’affidamento per quel che è realmente, non creando false aspettative o illusioni nel bambino, ma avere la consapevolezza che tale affido sarà una condizione di vita che potrebbe diventare stabile nel corso del tempo. Quindi si potrebbe richiedere un affidamento sine die quando ad esempio sono state aperte le pratiche di adattabilità del bambino, oppure quando la situazione familiare è tale da non poter prevedere un rientro del minore, nonostante non venga escluso (Chistolini, 2015).
Sapere distinguere e riuscire a scegliere la forma di affidamento è fondamentale per riuscire ad individuare e valutare in modo congruo la loro efficacia. Occorre che sia chiaro il fatto che esistano tipologie di affidamenti diversi, e che il mancato rientro del minore all’interno della famiglia non è necessariamente un insuccesso. Infatti, non necessariamente l’affido deve avere come obiettivo quello di assicurare al minore la possibilità di beneficiare, in modo temporaneo, delle cure offertegli dalla famiglia affidataria. La maggior parte delle volte, piuttosto, il bambino può sperimentare e comprendere cosa vuol dire intrattenere relazioni positive e sperimentare il senso di appartenenza.La stabilità che una famiglia affidataria può donare ad un minore fa sì che quest’ultimo possa riuscire ad accettare anche il mancato rientro all’interno del nucleo familiare di origine (Chistolini, 2017). Il valore dell’affido e la sua valutazione cambiano in base alle problematiche, relative ai nuclei familiari, dei casi che si presentano. Quindi non sarà mai attivato sempre il solito intervento per rispondere all’aiuto dei minori, ma verranno valutate le possibili scelte che l’affidamento consente di scegliere.
Ciò che risulta importante è la garanzia che il bambino deve avere, riguardo
all’opportunità di poter crescere e maturare all’interno di un contesto familiare che sia appropriato, attraverso la costruzione di legami favorevoli con i genitori o gli adulti affidatari e poter sviluppareun senso di appartenenza (Chistolini, 2017). Se questi adulti possono essere i propri genitori del bambino, questa opzione verrà sicuramente privilegiata e sostenuta, costituendo per il bambino la scelta migliore in quanto non deve subire il trauma della separazione. Se invece ciò non potesse avvenire, l’obiettivo sarà quello di riuscire a identificare e trovare altri genitori, ovvero i genitori affidatari, in grado di poter concedere al bambino l’opportunità di sperimentare relazioni attaccamento sostitutive. Ciò che risulta avere un grado elevato di importanza è il concetto di appartenenza, intesa come stato, oggettivo e soggettivo. È importante per il bambino sentire di appartenere a qualcuno e che quel qualcuno appartenga a lui (Schofield & Beek, 2006). Sentire diappartenere a qualcuno è condizione essenziale per il benessere degli adulti e, a maggior ragione, dei bambini, e diversi studi hanno dimostrato che poter contare su di un contesto di relazioni stabile e sicuro, capace di ridurre il senso di precarietà, rappresenta un fattore protettivo per lo sviluppo psicologico del minore (Cassibba et al., 2016; Selwyn e Quinton, 2004; Triseliotis, 2002).
Infine, è importante ricordare e sottolineare che si può appartenere a diversi sistemi relazionali e a diverse persone. Queste differenti appartenenze devono necessariamente essere gerarchizzate e non devono essere considerate tutte equivalenti tra loro, rischiando sennò di non appartenere a nessuno, per il fatto di appartenere a tutti. Perciò il progetto di affido dovrà avere fin da subito le idee chiare sulla propria durata (Cassibba et al., 2018).
3.3 StatisticheNel 2014, 14.020 minori (47,7% femmine), pari all’1,4% della popolazione minorile residente in Italia, risultavano collocati in affido: la maggior parte di essi si distribuisce nella fascia di età preadolescenziale (11- 14 anni: 31%) e adolescenziale (15-17 anni: 26%); per il 18% dei casi si tratta di minori stranieri. Diversamente da quanto previsto dalla legge sull’affido, 2 minori su 3 sonoin affidamento da più di 24 mesi; il 19% degli affidi, infatti, dura da 2 a 4 anni, mentre salgono al 42% gli affidi in corso da più di quattro anni (Cassibba et al., 2018).
Per quanto riguarda la situazione di post-affido relativo ai minori, la cui esperienza si è conclusa nel 2014, emerge che solo il 34% di essi è rientrato in famiglia; il 12% è passato, invece, in collocamento preadottivo, mentre il 6%, avendo raggiunto la maggiore età, ha intrapreso un percorso di vita autonoma. Dei rimanenti minori, il 30% transita verso altre forme di collocamento extra-familiare; degli altri minori non si hanno informazioni (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2017).
3.4 Quando un affido può definirsi concluso con successo?Un primo quesito che i dati esaminati pongono riguarda, quindi, le modalità di valutazione dell’efficacia dell’affido. Possiamo limitarci a considerare il rientro in famiglia come indicatore di successo, o dobbiamo piuttosto focalizzarci sui risultati, in termini di sviluppo e benessere, raggiunti dal minore insieme alla sua famiglia? (Cassibba et al., 2018). Il supporto della famiglia affidataria, infatti, consente ai minori di essere più resilienti e di sviluppare le proprie potenzialità e risorse personali (Schofield & Beek, 2006).
Van de Dries e coll. (2009) evidenziano come i livelli di sicurezza e di disorganizzazione dell’attaccamento siano simili nei campioni analizzati di ragazzi in affidamento rispetto a quelli adottati. L’interesse del minore a poter crescere in un contesto favorevole al suo sviluppo è stato salvaguardato. Questo permette di ipotizzare l’affidamento come un intervento efficace per la ristrutturazione del legame e dei modelli di attaccamento, tanto quanto lo può essere l’adozione (Van den Dries, L., Juffer, F., van IJzendoorn, M. H., & Bakermans-Kranenburg, M. J., 2009).
Per quanto riguarda il livello di soddisfacimento delle famiglie affidatarie, è stato visto come questo correlasse in modo significativo con la formazione delle famiglie stesse e con il supporto ricevuto dai servizi nel corso dell’esperienza di accoglienza. Queste due importanti funzioni generano alta insoddisfazione quando vengono a mancare, incidendo negativamente sul modo di vivere l’esperienza di accoglienza da parte della famiglia (Blythe et al., 2012).
Molte volte si è soliti valutare lo sviluppo e i progressi dei ragazzi in affidamento con quelli deiminori di pari età che hanno avuto l’opportunità di poter crescere nella propria famiglia esenti da problemi. Questo confronto purtroppo potrebbe mascherare i grandi passi in avanti fatti dai bambiniin affidamento, celando di conseguenza il grande lavoro
apportato dall’affidamento, scoraggiando operatori e genitori affidatari. Inoltre potrebbero essere create false convinzioni o credenze poco realistiche a causa dello sconforto, rischiando di perdere la voglia e la volontà di continuare a credere in questa istituzione. Oltre alla valutazione dei progressi attraverso l’utilizzo di misure di baseline, sarebbe importante anche valutare in quali condizioni, e verificare per quali minori, l’affidamento familiare costituisca la scelta più appropriata (Canali,Maurizio, & Biehal, 2013).
Uno studio condotto da Cassibba e colleghi, mostra quando è più opportuno e migliore scegliere l’affidamento familiare rispetto a quello in comunità. Gli studiosi confrontano le varie tipologie di attaccamento e legami che instaurano i ragazzi, e l’adattamento sociale all’ambiente extra-familiare in cui si trovano. I contesti analizzati erano: affido in comunità, affidamento familiare, adozione aperta e adozione legittimante. I dati derivanti dall’analisi, mostrano che tutti e quattro i contestianalizzati raggiungano un buon livello di adattamento, in particolare modo i minori in adozione hanno sviluppato un attaccamento superiore agli altri e hanno recuperato inoltre una buona sicurezza nei rapporti. Dopo questi ragazzi, sulla base di un buon legame di attaccamento, è possibile trovare i minori in affidamento, che sono riusciti a sviluppare maggiori livelli di sicurezzadi attaccamento rispetto ai ragazzi affidati ad una comunità. Questi dati raccolti sono associati al senso di appartenenza, il quale risulta migliore e più forte, appunto all’interno di un nucleo familiare. Inoltre, questi dati indicano anche quanto sia importante, ai fini di poter istaurare legami di attaccamento migliori, una minore durata nell’esposizione del minore al contesto disfunzionale della famiglia di origine. Più precoce avviene l’allontanamento, migliori saranno i risultati successivi per il minore (Cassibba et al., 2016).
La realizzazione di un affidamento familiare, qualche volta, può anche essere realizzato in tempi non contenuti, e non sempre è indice della scelta più adatta per alcune tipologie di traumi subiti dai minori. Un esempio in cui l’affidamento non risulta essere troppo idoneo riguarda quei traumi relazionali precoci, che potrebbero essere riattivati se il bambino vivesse un’altra situazione familiare, come nell’affidamento o nell’adozione. I bambini vittime di questi traumi “funzionano” meglio all’interno di contesti e ambienti che rimandano in misura minore al concetto di famiglia. Unesempio di queste realtà potrebbero essere le comunità di accoglienza che forniscono ambienti
meno intimi, in cui il bambino può rielaborare il trauma relazionale subito e rimosso (Cassibba et al., 2018).
3.5 Come affrontare/risolvere l’incongruenza tra la durata dell’affido prevista dalla legge e la complessità che la realtà dell’affido presenta?Un secondo elemento di criticità che può essere estrapolato dai dati ottenuti in Italia sull’affido, riguarda la sua durata. Nel 61% dei casi, gli affidi si protraggono oltre i 24 mesi previsti dalla legge; d’altronde, la recente legge 173/15 sulla continuità degli affetti ha preso atto di questa caratteristica ormai strutturale, prevedendo “la possibilità che un minore affidato, se dichiarato adottabile, possa, a tutela del suo prioritario interesse, essere adottato dagli affidatari" (Cassibba et al., 2018).
Cassibba ed Elia (2007), in un volume pubblicato nel 2007, sottolinearono la discrepanza che si presentava tra la durata massima dell’affidamento stabilita dalla legge (24 mesi) e gli obiettivi che essa si prestabiliva di raggiungere, sul piano affettivo relazionale (Cassibba & Elia, 2007). Ciò è riscontrabile anche con la teoria dell’attaccamento di Bowlby, il quale sostiene che siano necessari circa due anni affinché si possano instaurare quei legami affettivi significativi tra adulto e bambino. Sono questi legami che andranno a formare, secondo Bowlby (1969), la “base sicura” dalla quale ilbambino potrà liberamente muoversi per esplorare l’ambiente circostante e il mondo (Bowlby, 1969). Questo vorrebbe dire che i 24 mesi imposti dalla legge per l’affidamento, costituirebbero in realtà il tempo minimo necessario affinché i bambini si possano sentire a loro agio con i genitori e instaurare reciprocamente relazioni di fiducia, rispettare le regole ed entrare in contatto con ilmondo. È proprio dopo questi 24 mesi che il bambino inizia a considerare e a percepire i genitori affidatari come “base sicura”, iniziando ad intrattenere e ad esplorare relazioni interpersonali e situazioni relazionali e affettive nuove. Il bambino potrà percepire una maggiore protezione e una migliore sicurezza anche quando si dovrà confrontare con i genitori e con la relazione che ha avuto fino a quel momento. Potrà così iniziare ad affrontare i sentimenti di disagio derivanti dalla relazione con i genitori naturali, acquisendo consapevolezza per loro mancanze e carenze relative alle capacità genitoriali, integrandoli con i sentimenti di affetto che comunque potrebbe nutrire nei loro confronti (Cassiba & Elia, 2007).
Quanto detto mette in evidenza come il momento della conclusione dell’affidamento per la leggecoincida proprio con la fase secondo la quale il bambino ha raggiunto le condizioni affettivo-emotive ottimali per poter beneficiare della relazione con gli affidatari. Il bambinosembrerebbe aver raggiunto le capacità per poter ristrutturare e riorganizzare i modelli operativi interni della relazione, grazie alla fiducia conferitagli dal nuovo contesto relazionale (Cavanna,2013). Questa potrebbe essere una spiegazione relativa al fatto per cui gli affidamenti siprotraggano oltre i 24 mesi indicati, o il motivo per il quale i risultati raggiunti noncoincidono con quelli prestabiliti e sperati. Di particolare interesse, al riguardo, è l’analisi di Marco Chistolini (2015) sui fattori responsabili degli affidi lunghi o «sine die». Molte volte è diffuso il convincimento, sia a livello giuridico che psicosociale, secondo il quale mantenere i rapporti e una relazione con la famiglia di origine sia un bene e sia fondamentale, indipendentemente dalla reale qualità della relazione. È proprio per questo che spesso l’affidamento familiare viene utilizzato come mezzo affinché ciò si possa verificare, e viene preferito rispettoad un’adozione. Queste scelte purtroppo vengono prese indipendentemente dalle capacità genitoriali e anche quando la loro valutazione risulta scarsa. Tutto ciò è rafforzato da un’altraidea, quella diffusa dagli operatori che affermano che tutti gli allontanamenti del bambino dallafamiglia costituiscano sempre e comunque un evento doloroso e crudele. Nessuno mette in dubbio che essere separati dai propri genitori non sia doloroso, ma non tutte le separazioni sono necessariamente traumatiche, in particolar modo se vengono adeguatamente preparate (Chistolini, 2015). Altro aspetto molto importante, già citato in precedenza, riguarda il sostegno che le famiglie e il bambino devono ricevere nello scorrere del tempo. L’affidamento non si conclude quando ilbambino risiede nella nuova famiglia affidataria. Il suo successo deriva dalla progettazione edal continuo monitoraggio di interventi mirati per il
bambino, fino a che possa raggiungere gli obiettivi prefissati.
4. Presentazione casa famiglia4.1 Famiglia e casa famiglia“Il passaggio da una mentalità individualistica a una di tipo plurale è dato dal desiderio di affettività, di relazione, di farsi comunità di un uomo o una donna che iniziano a costruire un progetto di vita insieme a un’altra persona” (Macchietti, 2004). Da tale unione si può costituire una famiglia che «si sorregge su se stessa soltanto quando è spazio e tempo d’amore» (Gennari, 2006, p.253). La famiglia rappresenta una fusione di due mondi intimi e personali, molte volte percepitianche come lontani, che si uniscono e si plasmano, cosicché si possa creare un mondo unico. Viene identificata come una forma di “comunione sociale basata sulla relazione, sul dialogo, sulla responsabilità e sulla cura”, valori essenziali che devono accompagnarla e sostenerla nel suopercorso. Alla radice del passaggio da singolo a famiglia sta dunque un «andar oltre, un trascendere la mera logica individualistica» (Fornari, 2009, p.86).
Una coppia, il cui progetto si è già reso plurale dando origine ad una famiglia, decide di aprirsied accogliere porzioni di altre famiglie, accettando una sfida educativa che
«appartiene alla storia del genere umano, ed in particolare alla storia della famiglia come istituzione sociale, in maniera altrettanto originaria quanto la generazione, il dono e la reciprocità, costituendone una sintesi» (Franchini, 2003, pp.37-38). La trasformazione riguardante i ruoli, le condizioni sociali, la storia personale e della coppia, sosterranno la famiglia arricchendo il loro percorso di riflessività e speranza. La famiglia può essere considerata come una realtà plurale e condivisa, abitata da più persone, le quali si riconoscono vicendevolmente attraverso una rete condivisa di significati. Questo processo è dinamico, flessibile e in continua evoluzione, e permette appunto di potersi costruire un’identità familiare, plurale. L’apertura della famiglia permette la creazione e la formazione di tale tipologia di identità. Questa visione prende vita attraverso la realizzazione delle case famiglia e dalla realtà che si vive all’interno di essa. La casa famiglia è uno “strumento” attraverso il quale i genitori decidono di aprire la porta della propria casa e quella della propria famiglia ad altri, diventando così, in un particolare momento del loro cammino, genitori (anche) di altri. Alla base di questa intenzione vi è un desiderio educativo che eleva la famiglia verso un impegno culturale, civile ed esistenziale (Cerri, 2008).
La casa famiglia, o comunità familiare per minori, viene definita dal Nomenclatore
2013 come un servizio «residenziale che accoglie bambini e adolescenti fino ai 18 anni di età e che si caratterizza per la convivenza continuativa e stabile di un piccolo gruppo di bambini con due o più operatori specializzati, che assumono ruoli identificabili con figure genitoriali di riferimento inun percorso socio-educativo, nel rispetto dei bisogni e delle esigenze rispondenti alle varie fasce di età» (Istituto degli Innocenti, 2018, p.65).
La “Comunità familiare per minori” è finalizzata ad accogliere prioritariamente bambini per i quali si ritiene particolarmente adatta una situazione caratterizzata dalla convivenza continuativa e stabile di almeno due adulti, preferibilmente coppia con figli, adeguatamente preparati e che offrono un rapporto di tipo genitoriale sereno, rassicurante e personalizzato (Istituto degli Innocenti, 2018).
Uno dei bisogni emergenti delle famiglie riguarda la volontà «di farsi risorsa per altre famiglie, di trovare nuove forme di dialogo e di reciprocità con altri, per poter dare e ricevere aiuto» (Sità, 2005, p.32). Questi genitori decidono quindi di aprire le porte di casa loro ad altri bambini, ad altri minori, con la volontà di poter concedere loro uno spazio all’interno del quale possano sperimentare il senso della famiglia e relazioni sane. La scelta che fanno queste persone è un po’ quella di alleggerire e salvare quei bambini, che colpe non ne hanno, dalle situazioni difficili e di disagio che si ritrovano a dover vivere. Diventare genitori accoglienti è un’importante occasione per modificarela propria identità di coppia e di famiglia di partenza e per incrementare la qualità delle relazioni tra i suoi vecchi e nuovi componenti (Cadei & Simeone, 2013).
La famiglia si costruisce così come comunità ospitante di altre realtà differenti, non ricoprendo il concetto di dimensione plurale tradizionale, ma ancora più dinamico e arricchito. I ragazzi, che entrano all’interno di una casa famiglia, hanno l’opportunità di formarsi in un luogo educante composto da genitori che per propria natura sono educatori (Cerri, 2007). I genitori, intesi anchecome educatori, per realizzare il progetto di una casa famiglia, devono avere competenze relazionali specifiche e necessarie, che rimandano al concetto di cura ed empatia (Palmieri, 2000; Boella, 2006; Catarsi, 2011). Le relazioni all’interno di questo contesto devono essere basate sul fattore della fiducia, elemento che si viene a creare con il tempo e caratterizzato, alla base, dall’empatia genitoriale. Riuscire a capire cosa l’altro sta provando, mettersi nei suoi panni, permette al bambino di essere capito, compreso e accettato. È altresì fondamentale uno spirito e una predisposizioneall’accoglienza, in modo tale da permettere alla famiglia di origine
di trasformarsi in una famiglia “allargata”, dove la presenza e lo scambio di incontri e relazioni nuove, non sono altro che un arricchimento reciproco. Inoltre, ai minori inseriti nella casa famiglia deve essere data la possibilità di «sentirsi a casa, e proprio la casa è il luogo della relazione, della cura, della reciprocità» (Sità, 2005, p.56).
La possibilità che viene data ai ragazzi in affidamento in queste strutture è quella di sperimentare che cosa vuol dire vivere all’interno di un nucleo familiare, che cosa vuol dire avere una vera e propria famiglia, composta da due genitori ed eventuali figli, e sentirsi di farne parte. Ciò che siimpegnano a dare, i genitori, è un senso all’esistere
«fatto di vincoli e di opportunità, nel quale convergono bisogni, paure e vantaggi di genitori e figli» (Pati, 2000, p.24). Tali processi di inclusione hanno trovato una legittimazione in specifiche norme ed indicazioni. La casa famiglia per minori è, infatti, regolamentata dalla Legge n. 149/2001. In particolare, l’art. 2 c. 1 cita: «il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo [...] è affidato ad una famiglia [...] in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui ha bisogno». Il successivo comma 2 del medesimo articolo afferma ancora: «Ove non sia possibile l’affidamento [...], è consentito l’inserimento del minore in una comunità di tipo familiare caratterizzata da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia» intervento (Traverso, Azzari, & Frulli, 2014, p.23). Ciò che deve essere tutelato è il diritto del bambino di ricevere cure adeguate e significative per le loro esigenze. Questo può essere ritrovato all’interno della casa famiglia, simbolo della pluralità nella pluralità, dove idee, storie di vita, culture, religioni e vissuti si intrecciano. Attraverso questa forma di comunità i minori possono immergersi nel suo più profondo autentico significato, basato su interscambio e condivisione. In questa organizzazione dovranno vivere in armonia ed essere tenuti in equilibrio, oltre al bisogno dell’accoglienza, intesa anche da un punto di vista emotivo, anche la definizione degli obiettivi da raggiungere per i ragazzi e la predisposizione di un piano di intervento (Traverso,Azzari, & Frulli, 2014).
4.2 Progettazione della casa famiglia4.2.1 Requisiti generali:
Le raccomandazioni sui requisiti generali che devono caratterizzare le strutture residenziali per iminorenni sono riconducibili a tre dimensioni principali, che
qualificano un servizio «caratterizzato da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia» (Istituto degli Innocenti, 2018).
4.2.2 Requisiti strutturali e impiantistici
La L. 328/2000, all’art. 22 comma 3, “per favorire la deistituzionalizzazione” prevede che i servizi e le strutture a ciclo residenziale destinati all’accoglienza bambini siano organizzati«esclusivamente nella forma di strutture comunitarie di tipo familiare» (Istituto degli Innocenti, 2018, p.57). Questo perché è importante offrire un ambiente accogliente e adatto alle diverse fasce di età dei bambini accolti, sia sotto il profilo della sicurezza che del benessere (Istituto degli Innocenti, 2018). Il progetto educativo della struttura e il progetto educativo individualizzato, utilizzato per i bimbi e le bimbe che entrano nel nucleo familiare, sono gli artefatti (Rossi &Toppano, 2009) che definiscono l’incontro con l’altro e l’intenzione pedagogica che veicola la «relazione di reciprocità» (Simeone, 2009, p.57).
Le caratteristiche del personale e l’organizzazione delle attività della “Comunità familiare per minori” sono regolate dalle amministrazioni regionali, le quali fanno riferimento a: le competenze certificate dei due adulti residenti, documentate almeno da un percorso formativo sulla genitorialità e l’accoglienza; al ruolo di uno degli adulti residenti che ha la funzione di coordinamento e svolge compiti di responsabilità per la realizzazione dei Progetti educativi individuali, di referenza nei rapporti con l’esterno e di raccordo con i servizi del territorio; all’eventuale presenza di educatori e altre figure di sostegno (Istituto degli Innocenti, 2018). Le amministrazioni regionali regolano, inoltre, anche le caratteristiche organizzative, il modello abitativo e la ricettività della “Comunità familiare per minori” con riferimento a: delle “caratteristiche di civile abitazione” che laqualificano come una normale ed “effettiva” abitazione di una
famiglia tra altre abitazioni di famiglie; un’accoglienza fino a un massimo di 6 bambini, ivi compresi gli eventuali figli minorenni della coppia residente; alla preferibilità che i bambini di età 0-5 anni siano accolti presso le Comunità familiari; l’accoglienza di bambini di età inferiore ai 4 anni è realizzata esclusivamente in Comunità caratterizzate dalla presenza di una famiglia pre-esistente (Istituto degli Innocenti, 2018).
Anche la famiglia, nonostante non assuma le caratteristiche di quella adottiva e che prima aveva il proprio nucleo familiare composto dagli attori legati dallo stesso sangue, subisce una trasformazione e un mutamento diventando casa-famiglia (Chistolini, 2017). Solitamente le fasi che una famiglia affronta per raggiungere un allargamento sono tre: la prima è la fase generativa e si ha quando si passa dalla scelta alla progettazione; la seconda fase è detta sociale e rappresenta il momento della preparazione del nucleo, della struttura e il momento dell’accoglienza. La terza invece è la fase della formazione e dello sviluppo, ovvero la convivenza che si crea all’interno della casa-abitazione, la quale ha il ruolo di riattivare il circuito educativo (Paradiso, 2003, p.83).
Questa nuova pluralità porta con sé un peso con cui, oltre ai genitori, ci entrano in contatto anche i figli biologici. I primi hanno il compito di gestire i rapporti tra i propri figli e tra quelli in affidamento; i figli invece si trovano a dover condividere tutto quel che fino a quel momento era appartenuto solamente a loro. I figli, quindi, dovranno ridisegnare nuovi legami tra fratelli e trasorelle, essendo chiamati nuovamente ad
«imparare concretamente il senso della fiducia nell’altro, la ricerca di una sintonia nella relazione, la feconda fatica della condivisione» (ivi, p.50).
I genitori impegnati nel quotidiano di una casa famiglia sono interpellati nel loro doppio ruolo di madre-padre e figure educative di riferimento, atti a garantire le condizioni di «dialogo intergenerazionale, ad affrontare in modo costruttivo i conflitti, ad offrire sostegno nei momenti di difficoltà. Un adeguato equilibrio tra dialogo, conflitto e sostegno può creare una sicura base relazionale che permetta [...] di conquistare la progressiva autonomia (anche affettiva), necessaria per costruire un rapporto d’amore autentico frutto di una scelta consapevole e di un impegno responsabile» (Simeone, 2009, p.56). I genitori-educatori devono fronteggiare le esigenze, le richieste e i bisogni di eventuali figli naturali e dei minori accolti e, contemporaneamente,‘sorvegliare’ le loro relazioni di nuova fratellanza/sorellanza
indiretta (Traverso, Azzari, & Frulli, 2014).
Elisabetta Musi, evocando l’esperienza generatrice della coppia, evidenzia il duplice movimento che spetta ai genitori: «accompagnare e lasciare andare» (Musi, 2011, p.54) che, nell’esercizio e impegno della casa famiglia, assume un significato ancora maggiore e più significativamente educativo. La capacità di saper lasciare andare quando sarà necessario dovrebbe essere «sin dall’inizio parte della progettazione educativa e costituire la cornice in cui si muove l’intervento» (Tosco, 2003, p.72). “Questo non vuol dire archiviare o saper dimenticare, ciò significa aver fatto un buon lavoro che permette al bambino o bambina di poter iniziare una nuova fase della propria vita oppure permettere un riallineamento della vita che si era interrotta precedentemente”. Ma sino a quel momento i genitori-educatori fanno una nuova esperienza (Mortari, 2007) della paura, della tensione verso l’altrui autonomia, degli incerti inizi e tentennamenti sino a rivivere il ritiro e «lasciargli la mano» (Musi, 2011, p.54).
Per quanto riguarda invece i requisiti necessari per organizzare una casa famiglia, essi dipendono dalle varie regioni dove le strutture sono ubicate. La struttura deve presentare i caratteri della civile abitazione e «deve essere situata in zone dotate di una rete accessibile ai servizi generali, educativi e ricreativo- culturali tale da permettere la partecipazione alla vita sociale del territorio e facilitare le visite degli ospiti esterni» (Traverso, Azzari, & Frulli, 2014).
Vanna Iori, nel suo testo Fondamenti pedagogici e trasformazioni familiari, specifica la natura pedagogica della famiglia nelle sue dimensioni operative e sociali caratterizzate da risorse di amore, sostegno e cura «che nessun servizio ‘esterno’, anche il più attento potrebbe offrire» (Iori, 2001, p.37). Questo confine è quello che la casa famiglia cerca di superare, offrendo tutte le proprie risorse e le potenzialità ai bambini che le necessitano. Quello che la casa famiglia fa è mettersi in discussione a livello sociale, culturale, affettivo e giuridico, avendo la consapevolezza e la fiducia nel successo educativo. Anche la natura dell’educazione si auspica tale successo. Il ruolo di queste case famiglia risulta molto importante ai fini di concedere ai bambini una nuova opportunità ed un’educazione negli anni più vulnerabili e complicati del loro sviluppo. Risulta a tal proposito molto importante il valore della progettazione delle fondamenta sulle quali la casa famiglia andrà aderigersi. Essa deve essere considerata sia come
soluzione abitativa, sia come ambiente protetto e luogo di cura (Traverso, Azzari, & Frulli, 2014).
4.2.3 Gli attori della casa famiglia:
Gli adulti impegnati nei processi di accoglienza sono in grado di ascoltare e di accogliere la soggettività e la biografia del bambino, sanno valorizzare le esperienze positive e affrontare quelle negative, sanno ascoltare i bisogni immediati e prefigurare quelli a venire, sanno mantenere la discrezione e garantire l’ambiente più idoneo alla crescita del benessere del bambino e della sua famiglia, sono adeguatamente formati sui diritti dell’infanzia e su come avere un approccio nella presa in carico centrato sui diritti. (Istituto degli Innocenti, 2018). Gli adulti che partecipano al progetto di accoglienza non si sostituiscono e non si sovrappongono ai genitori del bambinoaccolto. Essi sono chiamati: a osservare il principio del superiore interesse del bambino; a rispettare i suoi diritti; ad assicurare l’educazione, l’istruzione e la cura delle relazioni affettive; ad ascoltarlo, informarlo e coinvolgerlo nelle decisioni che lo riguardano; a rispettare e accettare la sua famiglia mantenendo rapporti positivi con essa, di concerto con i Servizi invianti e secondo le indicazioni dell’Autorità giudiziaria; a favorire il superamento delle difficoltà che hanno determinato il suo allontanamento dalla famiglia. Gli adulti impegnati nei processi di accoglienza sono persone competenti nel loro lavoro e nei loro compiti. Lo sviluppo di un’accoglienza mirata al benessere del bambino e al rispetto dei suoi diritti richiede un complesso e articolato sistema di interazione tra piùsoggetti istituzionali che va definito, programmato e monitorato in un quadro più ampio di sviluppo delle risorse accoglienti. La rete dei soggetti titolari di funzioni e competenze in materia diprevenzione e protezione dell’infanzia costituisce la “rete istituzionale di corresponsabilità” che, insieme alla valorizzazione del ruolo degli altri soggetti coinvolti, è il presupposto per una correttaed efficace gestione dei percorsi dell’accoglienza (Istituto degli Innocenti, 2018).
5. METODO5.1 Partecipanti
Sono quattro i testimoni privilegiati di questa analisi:
Sabrina è una donna di 54 anni sposata con Giulio da 28 anni. Ormai da più di 30 anni hanno deciso di dedicare e spendere la propria vita all’insegna degli altri. Genitori di due figli biologici, Francesco e Alessandro, e di un figlio adottato, Paolo (orfano speciale).
L’“avventura” dell’affidamento iniziò circa 21 anni fa, attraverso un affido part-time di una bambina di 3 anni, quando i figli propri avevano 4 e 5 anni. Da allora non si sono più fermati,passando da una bambina in affidamento, a raggiungere quota nove bambini in affidamento. Quella classica famiglia normale di 21 anni fa, adesso è diventata una casa famiglia popolata da quattordici persone e tantissimi animali. Oltre a fare accoglienza, G e S hanno potuto e continuano a dare il loro contributo per un tema molto delicato e che sta loro molto a cuore: il femminicidio e in particolare gli “orfani speciali”. Infatti, oltre a Paolo, orfano speciale, che è stato adottato, hanno voluto accogliere all’interno del loro nucleo familiare anche altri due casi di “orfani speciali”: Filippo e Giorgia.
Paolo, 24 anni adesso, aveva solamente 8 anni quando il padre, con una mazza dal baseball, ha ucciso sua madre. Dopo che si è ritrovato orfano di entrambi i genitori, e in mancanza di parenti che volessero la sua custodia, è stato adottato da G e S, per sua volontà e per quella della nuova famiglia. Ormai da più di 6 anni, Paolo è a tutti gli effetti un figlio della coppia e un fratello per Francesco e Alessandro.
Filippo e Giorgia, fratello e sorella, rispettivamente di 17 e 19 anni. Orfani da 4 anni, quando il padre, durante la notte, dopo aver tentato di soffocare la loro madre, le sferrò numerose coltellate in tutto il corpo, uccidendola. 3 anni fa entrarono a far parte della casa famiglia di Sabrina e Giulio, dopo aver trascorso 9 mesi in affidamento dal nonno paterno.
5.2 Contesto
La casa famiglia è composta dal nucleo familiare che comprende i genitori Sabrina e Giulio, che hanno due figli biologici: Francesco di 27 anni, Alessandro di 25 anni e Paolo 24, più altri 9 ragazzi in affidamento giudiziario. Questi ragazzi hanno tutti età diverse, partendo dalla ragazzina più piccola di 14 anni, fino ad arrivare a Simone, che ha 25 anni. Alcuni lavorano, altri invece studiano.A far compagnia alla loro presenza ci sono anche tantissimi animali, i quali forniscono il loro contributo attraverso la pet therapy, permettendo così ai bambini e ai ragazzi, vittime di tanti, troppi traumi, di imparare a prendersi cura di se stessi attraverso la cura degli animali stessi.
5.3 Raccolta dati
Le interviste si sono svolte all’interno della struttura e abbiamo impiegato poco più di due pomeriggi per portarle a termine, per un totale di circa 4/5 ore. Abbiamo utilizzato domande precedentemente da noi formulate di cui i partecipanti erano all’oscuro. L’intervista, inoltre, ha seguito una scaletta, la quale aveva lo scopo di indagare prima lo stato attuale del ragazzo, poi la misura in cui fosse stato esposto all’omicidio della madre, per giungere alla fine all’attuale relazione con i nuovi caregivers e l’idea che hanno o si sono fatti circa il femminicidio.
Inoltre, ogni riferimento alle vicende personali è stato omesso per non risalire all'identità delle varie situazioni personali ed è stato firmato da tutti un consenso informato, confluito poi in un lavoro di tesi. Per il ragazzo minorenne, il consenso informato è stato firmato da entrambi i genitori affidatari e dal nonno che rappresenta il suo tutore legale.
5.4 Strumenti
Gli strumenti che sono stati decisi di utilizzare sono le interviste semi strutturate e non strutturate.
5.5 Obiettivo
Ciò che vuole essere evidenziato non è tanto l'aspetto criminale dell'omicidio nella sua dinamica, ma il punto di vista dell'orfano, il suo racconto, il significato da esso vissuto e trasmesso, i suoibisogni che abbiamo visto essere spesso così distanti da
quello che gli adulti pensano essere nel loro interesse. Abbiamo voluto dare spazio anche al punto di vista della madre affidataria, cercando di fare emergere l’esperienza soggettiva derivante dall’accudimento di un orfano speciale, e se tale accudimento risulti in qualche modo differente da quello degli altri ragazzi in affidamento presenti sempre nella struttura.
Gli “orfani speciali”, e coloro che se ne prendono cura, meritano e necessitano di un ascolto maggiore.
6. TESTIMONIANZA MADRESabrina è una donna che ricopre più ruoli di madre, in quanto è biologica per alcuni, adottiva per un altro e affidataria per altri ancora. La sua storia, e la loro storia, se consideriamo tutta l’ampia famiglia, assume le caratteristiche di un racconto che trascende dalla considerazione di normalità. Questa storia, anche se da loro considerata quotidiana normalità, è una storia fuori dalle righe, è semplicemente una “storia diversa per gente normale”. Entrare in contatto con il dolore e i traumi di questi bambini è sempre sofferente. La sofferenza che li accompagna nel corso delle giornate diventa tangibile. Come è allo stesso tempo difficoltoso assumere i ruoli di genitori quando sono proprio queste le figure che hanno generato e continuano a generare malessere negli orfani: da una parte la madre uccisa, dall’altra il padre omicida.
Sabrina racconta cosa vuol dire essere madre affidataria e adottiva di orfani speciali e di ragazzi in affidamento, mostrandoci sia il suo entusiasmo nell’accogliere bambini in casa propria, sia le difficoltà che affrontano, affermando che “Quando accogliamo un bambino e/o minore presso il proprio nucleo familiare, vi è sempre un’attesa, un'emozione e tante domande che devono ricevere risposte future. Siamo molto consapevoli che le informazioni forniteci dal servizio sociale riguardanti il “caso”, non saranno mai del tutto aderenti alla realtà vissuta dal bambino”.
S continua nel suo racconto parlando di quei ragazzi che sono rimasti orfani a causa del padre che ha ucciso la madre, esprimendo così il peso che sono costretti a vivere, dichiarando appunto che “nel caso degli orfani speciali, per noi genitori, anche se affidatari, il carico emotivo è diverso rispetto agli altri vissuti. In questo caso la forte emozione intensa che riusciamo a provare deriva dalla consapevolezza e dalla certezza del dolore che li accompagna. È il lutto più grande che un bambino possa provare. Questi orfani porteranno con sé un fardello non per colpa loro, ma percolpa del padre. Sarà un fardello molto difficile da elaborare e da accettare. Sarà un fardello che, una volta varcata la porta di casa nostra, avranno sempre in spalla e noi cercheremo di aiutarli in tutti i modi e con tutti i mezzi”.
Il loro vissuto non rimane sicuramente indifferente a coloro che decidono di occuparsi di questi ragazzi, riescono a far percepire e provare sentimenti non usuali, come si evince da quando S ha detto che “la tristezza espressa dai loro volti e il dolore profondo che si può facilmente leggere neiloro occhi, trasmettono una sensazione di
inadeguatezza e impotenza. Io molte volte mi sento inadeguata e impotente. Non ho mai cercato di fare l’impossibile, non ho mai cercato di prendere il posto delle loro madri, non ho mai cercato di farmi vedere migliore dei loro genitori. Nelle vite di questi ragazzi ci muoviamo, soprattutto all’inizio, in punta di piedi, con grande rispetto, osservando e ascoltando tanto”. Il lavoro che persone, educatori e genitori come S e G si ritrovano a dover ricoprire non è una cosa di semplice conto. Devono essere in grado di “creare per loro un punto di riferimento importante, presente, su cui poter contare, cercando di essere in qualche modo una boa in mezzo al mare alla quale potersi aggrappare”.
Allo stesso tempo devono essere abili e capaci nel salvaguardare l’integrità del bambino, non distruggendo tutto ciò a cui si sente di appartenere o da dove proviene, infatti come si può ascoltare dalle parole della madre affidataria: “la mamma, che è una vittima, non può essere messa in discussione; il padre che è il carnefice non può essere distrutto nella sua totalità. Questi bambini sono il frutto dell’unione di queste due persone e affinché i bambini possano essere salvati, devono essere salvati anche i genitori. I bambini essendo nati da queste persone, soprattutto da un babbo che è riuscito ad uccidere la loro mamma, se venisse annientato, loro si sentirebbero distrutti, perché si sentono comunque di appartenergli, e se distruggi la figura che ti ha messo al mondo, è come se distruggessi anche il figlio. Salvando i genitori, in qualche modo è come se si salvassero anche loro”.
S sottolinea anche l’importanza dell’accoglienza, la necessità della formazione degli operatori e la loro professionalità, enfatizzando come: “chi accoglie ha l’obbligo di essere preparato, di essere neutrale, di fare tutto il possibile per aiutare questi bambini nell’elaborare il proprio lutto e i propri traumi”.
Una distinzione, emersa durante l’intervista con Sabrina, riguarda l’età a cui un/a bambino/a o un ragazzo/a si ritrova ad essere esposto al femminicidio. I genitori affidatari hanno riscontrato meno difficoltà e stress quando si ritrovano ad accogliere ragazzi di età maggiore, “quando i ragazzi sono più grandi ci è risultato più semplice o comunque più facile instaurare da subito un dialogodove loro hanno potuto e sono stati in grado di raccontarsi”.
Per quanto riguarda le richieste o particolari tipologie di esigenze, non abbiamo riscontratodifferenze così cospicue nelle parole di S, la quale ha affermato molto
precisamente come “ogni bambino ha bisogno di essere trattato singolarmente, in modo esclusivo. Hanno bisogno di sentirsi di appartenere a qualcuno, di essere parte di qualcosa, di essere speciali ed esclusivi”.
Altro concetto, a parere nostro molto importante, che è emerso dalle parole di S è quello di normalità. Ha chiarito molto bene come “la normalità è specialità per chi di normale non ha mai avuto niente. Avere un babbo e una mamma, anche se è normale, è una cosa esclusiva. Essere amati, essere accettati, essere voluti, sono tutte cose apparentemente normali, ma che non tutti hanno potuto vivere o tuttora non stanno vivendo”.
Inoltre, per quanto riguarda le possibili differenze tra un affidamento “normale” e quello di un “orfano speciale” può sicuramente essere riconducibile in “ciò che viene suscitato in noi operatori e noi genitori. Ciò che ho provato in prima persona è stata la paura di non essere capace, la risonanza che un caso del genere potrebbe portare con sé, la posizione esposta che siamo tenuti a prendere. In più a questo posso aggiungere che sono stata spaventata dalle possibili ripercussioni di un dolore così particolare nei confronti degli altri figli, la paura che il disagio travolgesse e coinvolgesse eccessivamente i bambini della casa”. Queste sono parole di una madre, che, comeruolo genitoriale, nutre nei confronti di tutti i figli presenti all’interno della propria famiglia, sentimenti di tutela e famiglia.
Altra emozione provata e raccontateci da S, sempre inerente all’affido di questa particolare categoria di orfani, è quella che coincide proprio con il senso di colpa. Questo sentimento viene descritto da S così: “Era un senso di colpa dovuto al fatto che io era come se avessi potuto “beneficiare” del bambino poiché la madre non poteva più; io potevo e lei no”.
Tornando a ciò che i genitori affidatari hanno il compito di fare, ma soprattutto si ritrovano a dover affrontare, in modo tale che questi orfani così possano avere una crescita sana e con i giusti valori, coincide con la rivalorizzazione delle figure genitoriali, sia quella maschile che quella femminile. S ci illustra i due punti di vista, quello suo e quello di suo marito: “Dal punto di vista dell’uomo, quindi in questo caso di mio marito, il lavoro che ha dovuto fare lui è stato molto impegnativo. Era importante per questi ragazzi mostrare loro, attraverso azioni concrete, esperienze e praticità, che esiste altro oltre al mondo che fino a quel momento hanno vissuto.La
violenza non è associata alla forza, ma è sinonimo di debolezza e insicurezza. Amare una donna nonvuol dire picchiarla o usare violenza, amare vuol dire libertà, protezione e rispetto. Era fondamentale dare a questi bambini e ragazzi un contesto privo di violenza con valori corretti, e G, essendo la figura maschile di riferimento, in questo caso è stato sempre impeccabilmente eccezionale”.
Altro tema fondamentale che deve essere affrontato è quello relativo all’importanza della figura della donna e al significato che essa ha: “molte volte l’immagine della madre fornita dal padre è distorta, vengono “mostrate” cose non vere e vengono manipolati i figli. La donna merita rispetto, la donna deve essere rispettata”.
Infine, S ha espresso il fatto che ragazzi colpiti da un dolore così profondo e da un trauma cosìunico, li faccia sentire parte di un qualcosa. Condividere “lo stesso evento traumatico li faceva sentire in sintonia, li accomuna. Come li accomuna il fatto di sentirsi soli di fronte al bagagliopesante che devono portarsi dietro. Per loro è come se agli altri non interessasse il loro vissuto, a nessuno importa la loro storia. È questa la solitudine che li accomuna”.
Sabrina racconta l’esperienza del primo affidamento di un orfano speciale, divenuto poi successivamente anche figlio adottivo (Paolo). Ci racconta di quanto siano stati impegnativi,faticosi, distruggenti e commoventi i primi giorni di accoglienza, che erano anche i primi giorni successivi all’uccisione della propria madre. Ricorda come Paolo “trascorre le notti senza dormire. Ogni notte piano piano… e non poi così piano, entra nella mia camera mi tocca il volto, piange ed è in preda al terrore. Mi sveglia dicendomi che ha paura che durante il sonno io mi possa trasformare come la sua mamma… che il mio volto possa diventare vecchio all'improvviso”. Era la paura di un bambino di quasi 8 anni di poter assistere nuovamente a quell’episodio che lo segnò per tutta la vita. “Dorme e sogna, gli incubi lo accompagnano nel buio della sua camera e lui piange, si dispera, ha paura, teme che il signor Bianchi (il mostro-padre) possa arrivare di notte, prendere e portarlo lontano facendogli ancora del male”. L’unica cosa che S ci racconta di poter fare, insieme al marito e agli altri figli e bambini, è quello di rassicurarlo e di tranquillizzarlo. Quelle rassicurazioni che in pochi riescono a dare, se non il calore di una madre e della propria famiglia.
Nelle parole di S si possono riuscire a percepire sentimenti di protezione, tenerezza
e empatia, ma allo stesso tempo rabbia e indignazione per ciò che questi bambini così piccoli sono costretti a vivere, e molte volte anche ad assistere. “Forse sarebbe potuto essere evitato… forse qualcuno è responsabile di non aver voluto vedere bene e quindi intervenire… pcomprendere e voler conoscere ciò che Paolo ha visto, quale ultima scena della madre si portava con sé, abbiamo voluto vedere le foto del cadavere… Impensabile. Inconcepibile. Inaccettabile”.
S racconta anche del sostegno psicologico necessario per questi bambini e ragazzi successivamente all’accaduto, ci racconta di quanto sia indispensabile affrontare subito il trauma subito ed elaborare il lutto, e di come Paolo abbia intrapreso fin da subito un percorso psicologico: “Nel suo percorso incontra anche la dottoressa-psicologa Neri. Con lei ha affrontato i primi momenti e i primi dolori, ha dato un nome a ciò che sapeva, ma non osava dire e dirsi. Ovviamente questo percorso psicologico è stato accompagnato da tutto il lavoro che noi abbiamo fatto con lui a casa”.
Questi orfani speciali appunto non sono esenti da essere vittime di giudizi altrui e discriminazioni. S a tal proposito ci ha raccontato di un episodio avvenuto ai danni di Paolo, quando “durante l’ultimo anno delle elementari P ha dovuto affrontare anche la ferocia e il giudizio di un compagno e la cattiveria degli adulti che hanno parlato attraverso la bocca del figlio e del nipote… Sì, nipote di un nonno che conoscendo il babbo di P ha esordito dicendo che aveva fatto bene ad uccidere una moglie straniera e più giovane di lui, che sicuramente aveva avuto le sueragioni per farlo” oppure quando frequentava la scuola media, P ha dovuto affrontare i pregiudizi di una professoressa nei propri confronti, arrivando a convocare i genitori affidatari in direzione e “allapresenza del preside e di alcune insegnanti ci fanno un quadro di P per come noi non lo conosciamo e io con tutta la forza di una madre che conosce il proprio cucciolo, controbatte e non accetta la loro versione dei fatti. Soprattutto delineano un quadro caratteriale e comportamentale di P che non lo rispecchia… ma non mi credono, anzi mi informano che i genitori sono sempre gli ultimi a conoscere i propri figli e che i figli fuori casa sono altro…”. Il ruolo di S e G in questi casi è quello di un genitore vero e proprio, perché questa coppia è e rappresenta i suoi genitori a tutti gli effetti.
I ragazzi in affidamento a famiglie affidatarie, e in questo caso ad una casa famiglia, possonoessere vere e proprie ancore di salvataggio per questi bambini e ragazzi che
hanno conosciuto e vissuto solamente violenze nelle loro mura di casa. È di fondamentale importanza fornire a questi orfani ambienti dove la violenza non esista e trasmettere loro i giusti valori, soprattutto quando il padre biologico è come un dittatore “un uomo che non ha mai saputo cosa volesse dire amare, l’atto della separazione è nelle loro mani, ma quest’uomo non ha accettato la volontà di un’altra persona, di una donna, della madre di suo figlio. Queste rappresentano la volontà di privare un’altra persona del rispetto e della libertà. Lui detta la sua legge e lo fa per tutti, per tutti decide lui, per la madre e per il figlio”.
Molte volte la reazione di questi ragazzi è quella di discostarsi da ciò che hanno vissuto e dal genitore che li ha messi al mondo. Quello che cercano è un’appartenenza a qualcosa che riconoscono e che sentono come proprio, così Paolo “dopo tutto questo trascorso, prima che divenisse maggiorenne, espresse la propria volontà di essere da noi adottato. Si sentiva parte della nostra famiglia, si sentiva di appartenerci e noi di appartenergli. Grazie ad un grandissimo lavoro di tutte le persone che hanno lavorato per lui e per il suo benessere, P fu ufficialmente adottato nel mese di luglio, prima che diventasse maggiorenne, in un’atmosfera di profonda commozione e rinascita”.
Sabrina racconta, attraverso le prime fasi dell’accoglienza con Filippo e Giorgia, quanto, anche a distanza quasi di un anno dall’accaduto, i due fratelli, Giorgia in particolare mostri ancora profondi disagi a livello comportamentale e psichici: “Entrambi chiusi, entrambi sofferenti, lei risponde a mono sillabe sempre triste, musona, scontrosa. Ha avuto bisogno di tempo, di raccontare tanto anche di quella notte, delle botte, della paura, del padre padrone, di una madre che era assente dacasa e che aveva perso anche lei il senso della famiglia”.
Le conseguenze del femminicidio, come vista in precedenza, durante la rassegna della letteratura, comporti cambiamenti importanti sia subito dopo il trauma che anche nei mesi e anni successivi. Diventa tutto faticoso, anche le cose che vengono considerate di ordinaria monotonia assumono significati diversi, come potrebbe avvenire a livello scolastico “la scuola è un impegno per leiesagerato che la disorienta continuamente”.
Un altro punto centrale e veramente importante è il livello di fiducia che si desertifica sempre più, non si fidano più di nessuno questi ragazzi, poichè a tradire la loro fiducia è stato proprio ilgenitore biologico. Così questi orfani tenderanno a essere
diffidenti con le altre persone, soprattutto nei primi periodi, ma impareranno anche a riscoprirlo quelconcetto, affidandosi a persone che nutrono realmente sentimenti postivi e di amore nei loro confronti. Come si evince dal racconto di S “il ragazzo, poco espansivo e molto introverso, si mantiene sempre alla giusta distanza da me, come se il “lasciarsi andare” con la figura femminile lo potesse in qualche modo allontanare dal ricordo della madre. Segue molto di più mio marito, lo guarda, lo imita, impara tante cose da lui e con lui, nel corso di questi anni, si misurerà per le cose quotidiane anche con piccoli litigi. Io devo aspettare quasi tre anni prima che il ragazzo inizi con me una nuova relazione fatta di fiducia e racconti personali, chiedendo anche consigli per l’amore nutrito nei confronti di una ragazza. Attraverso il suo modo e le sue parole utilizzate per presentarmi alla ragazza, capisco quanto abbia camminato in questi anni, silenziosamente, piano piano e quanto spazio mi abbia fatto nel suo cuore e nella sua vita”.
Non dobbiamo dare per scontato che tutti noi abbiamo gli stessi tempi per compiere gli stessiprogressi, altrimenti potremmo vivere nello scoraggiamento che ciò che stiamo facendo non vada bene o rinunciare. Essere sempre dalla parte loro e sostenerli in ciò che fanno sarà sicuramente un modo che farà sì che gli orfani potranno acquisire consapevolezze e impareranno ad amarsi, concetti che S ci racconta: “noi adulti educatori, lavoriamo tanto su questi punti, rafforziamo la loro autostima, li raccontiamo visti dai nostri occhi (per noi sono eroi sopravvissuti ad una vera epropria guerra), li ammiriamo, li consideriamo molto forti, interessanti e unici, e con il loro permesso, davanti a loro, esprimiamo tutti i nostri pensieri leggendo nei loro occhi una certa fierezza. Sentirsi raccontare da chi ha stima in loro e da chi li ama, fa sì che possano rinascere sotto una nuova luce. Riescono a vedersi per come li vediamo noi e nell’osservarsi da questo nuovo punto di vista, imparano ad amarsi senza colpevolizzarsi”. Ciò che attraverso il racconto di S abbiamo potuto apprendere è il fatto che in tutti questi anni “avere un progetto di vita con loro, con ognuno di loro, permette al bambino di sognare, spingendosi lontano e per tanto tempo, senza temere e/o avere una scadenza di questo tempo”.
7. TESTIMONIANZA FIGLIO PAOLOPaolo, quasi 8 anni, quando il padre, durante una notte, uccise sua madre a colpi di mazza da baseball. Il bambino vide la madre sdraiata sul letto con il volto tumefatto, immersa in un mare di sangue. Rimasto orfano di entrambi i genitori (il padre fu arrestato e messo in carcere), chiese alla famiglia affidataria, di essere adottato, dopo aver sconfitto una malattia del sistema immunitario, scatenatasi conseguentemente al trauma subito. La sua richiesta fu felicemente soddisfatta e adesso P è a tutti gli effetti un figlio della coppia e un fratello per Francesco e Alessandro.
Nel corso di questi anni Paolo è cresciuto sia come ragazzo che come uomo e le difficoltà che ha affrontato e che tuttora affronta lo fa con un’altra prospettiva, attraverso il punto di vista di chi sa che ce l’ha fatta.
P si è raccontato a tutto tondo, descrivendoci il bambino che era, sia a livello di interazioni sociali, definendosi “un bambino abbastanza socievole, sicuramente da piccino parlavo di più, in generale […] con la gente che non conosco non ci parlo molto volentieri, sono diffidente”, questa diffidenza fa sì che P non si crei mai delle aspettative verso gli altri, rimanendo sempre con il pensiero fisso su ciò che di negativo potrebbe accadere “non mi aspetto mai niente da nessuno…penso molto di più alle cose negative che alle cose positive che potrebbero succedere e quindi sono anche più preparato mentalmente al peggio. É come se fossi già predisposto al rifiuto e alla parte negativa, così non mi creo nemmeno troppe aspettative positive”. Altra difficoltà che Paolo ha avuto sia da piccolo che da grande, quindi con cui continua a rapportarsi e che non lo fa stare bene, riguarda la relazione che intrattiene con le ragazze. Ciò che lo spaventa e lo mette a disagio è proprio l’interazione con il genere femminile: “mi rendo conto di non sapere come interagire con loro, mi sento a disagio. Da quando è morta la mia mamma è come se avessi costruito un’immagine della donna con la quale non mi riesce rapportarmi. Mi sento a disagio, è come se avessi paura di entrare in contatto con l’immagine da me creata…”.
P è sempre stato un bambino molto buono di carattere, anche se a livello psicologico e mentale “ero forse… senza forse, ero debole. Qualunque cosa mi dicessero reagivo piangendo o me laprendevo a male… tenevo il broncio e mi rovinavo la giornata”.
Inoltre si è raccontato anche a livello scolastico, non dimenticandosi delle difficoltà riscontrate nello svolgere i compiti dopo la morte della madre: “A livello scolastico son sempre andato abbastanza bene, tranne in terza e in quarta elementare, cioè da quando la mamma è morta. Non facevo più i compiti”.
Gli scogli che questi bambini si ritrovano a dover affrontare, oltre a livello psicologico, sociale e scolastico, riguardano anche quelli a livello fisico. Non sono pochi i bambini che somatizzano i loro disagi e traumi. P infatti racconta che “dopo che è successo l’accaduto invece mi sono ammalato… mi sentivo più stanco… ero fermo perché non potevo fare certe cose, perché a livello fisico non ce la facevo”.
La sua malattia era una malattia che aveva poche cure, nemmeno i medici sapevano come trattarla se non attraverso trasfusioni di plasma e cortisone. Si trattava di una “piastrinopenia”, ovvero P aveva un numero insufficiente di piastrine all’interno del sangue, le quali hanno un’importante funzione circa la coagulazione del sangue.
Questo è stato un periodo significativo per il bambino, in quanto fu vittima di giudizi da parte di altri bambini, affermando che “è stata dura quando prendevo il cortisone come cura per la malattia, ma perché ero gonfio”.
Per quanto riguarda invece il suo ambiente familiare, quando viveva ancora con i genitori biologici, P ci dice che “Il poco tempo che passavo in casa mi ricordo che stavo in camera chiuso a giocare con i modellini, però sentivo litigare i miei molto spesso […] Era diventata quasi la normalità che il babbo alzasse le mani, o comunque la voce, contro la mamma. Era normalità anche che la trattasse male. Per me era talmente quotidiano che era normale, non ci facevo nemmeno caso. Era normale vivere nella violenza […] mi ricordo che lo faceva molto a livello verbale, cedrano tante violenze verbali e psicologiche”. Il suo racconto rimanda inevitabilmente a violenze vissute all’interno delle mura di casa, rivolte in particolar modo nei confronti della madre. Il padre di P era un uomo che voleva comandare e controllare la vita della moglie e quella del figlio, come è possibile osservare nelle parole di P: “Non voleva nemmeno che usassi i vestiti o le cose che mi comprava la mamma. Mi teneva più lui sotto custodia se così possiamo dire, mi vestiva lui, mi gestiva lui, decideva sempre lui per me. Era quasi come se mi volesse manipolarmi, voleva farmi cambiare idea sulla mamma”. La visione dell’immagine che il padre di P voleva trasmettergli era distorta e non veritiera, ai fini di poter avere dalla sua parte il figlio.
Durante l’intervista Paolo ha cercato di raccontarci ciò che di quella notte atroce si ricorda, con lo sguardo rivolto nel vuoto e gli occhi serrati: “era durante la notte, mi svegliai e non mi ricordo se c'era già mio babbo in camera mia oppure no… comunque ho visto mia mamma, che dormiva in una stanza separata dal babbo in salotto… le ho visto la faccia distrutta…”. È questo quello che un bambino di 8 anni ha dovuto assistere, per colpa del padre. È questa l’immagine che lo ha tormentato e che continuerà a farlo. È questo l’ultimo ricordo che, niente di più di un bambino, ha della propria mamma. Essendo così piccolo non è riuscito subito a realizzare cosa stesse succedendo e il fatto che non avrebbe mai più rivisto sua madre, “lì per lì non pensavo potesse morire. Ho visto che stava male, che la situazione era tragica, ma pensavo poi sarebbe stato tutto uguale […] pensavo fosse un calabrone, mi ero fatto l'idea che l'aveva punta un calabrone perché avevamo i calabroni di fronte casa nostra”. Il dolore lo accompagna in tutte le sue giornate, oltre al dolore di non sapere e di non capire cosa sia successo, P stava male a livello fisico, “stavo male dalla mattina alla sera, mal di pancia forte, mi si stringeva lo stomaco e basta, mi ricordo questo… giocavo poco, stavo da solo, non mi ricordo nemmeno cosa facessi tutto il giorno, stavo in casa e basta. Anche se non pensavo alla mamma, non riuscivo a mangiare e stavo male, a prescindere da cosa stessi facendo”.
La svolta nella vita di quell’allora bambino si ha quando il tribunale decide per lui un affidamento giudiziario, e ad accoglierlo è stata una casa famiglia, quella di S e G. Quando Paolo parla di questi due genitori, i suoi genitori, perché quando avrà quasi raggiunto la maggiore età verrà adottato, lo fa sempre con molta tenerezza e compassione: “son stati fondamentali, tipo la figura della mamma ovviamente mi mancava, ed avere trovato Sabrina è stato importantissimo per me, è stato un vero e proprio appoggio, avevo ritrovato una figura femminile. Non mi è maimancato l’affetto da parte sua, la sentivo vicina sempre. Giulio invece mi ha formato come ragazzo e come uomo, ha permesso la mia crescita più a livello personale. Io come punto di riferimento ho lui […] entrambi mi hanno sempre dato tantissimo amore… Con G ho capito come stare al mondo, se vogliamo metterla così, e con S ho potuto riscoprire l’amore materno”.
Oltre all’importanza che assumono i nuovi caregivers e le persone vicine a questi orfani, tanto èdovuto anche ai percorsi terapeutici che essi intraprendono con
psicologi e con persone di supporto. Fondamentali sono gli interventi immediatamente successivi all’evento traumatico e l’assistenza che deve essere loro fornita. Dalle parole di P si può comprendere come ciò sia veritiero: “tutto quello che ho avuto mi è servito, soprattutto la terapia con la mia psicologa. Con lei ho elaborato il lutto per anni, delle volte si chiacchierava di qualsiasi cosa e delle volte si parlava proprio della scena dell’omicidio, attraverso i giochi mi ricordo. […] anche grazie alla S, G e ai ragazzi della casa famiglia, tutti hanno partecipato a darmi questo sostegno. Tutto è servito, qualunque rapporto mi ha fatto bene, aprirmi ed elaborare il dolore ha fatto sì che adesso ne possa parlarne liberamente e in modo aperto”.
Questi orfani speciali, nonostante siano esenti da qualsiasi forma di colpa, nutrono comunque emozioni e sentimenti contrastanti. La più frequente, legata all’uccisione della madre, è quella del senso di colpa. I figli si sentono in colpa e in parte responsabili della morte della propria madre. Paolo, anche lui, ha sperimentato questo sentimento e ci ha raccontato che “mi sono quasi sentito responsabile di avere voluto la mazza da baseball (oggetto attraverso il quale il padre ha ucciso la madre), e se non ci fosse stata in camera mia, magari la mamma sarebbe stata ancora viva”. Il dolore che questi ragazzi vivono è speciale, è unico, P dice che “era un dolore che preferivo tenere io, era meglio che lo sapessi io e pochi altri”.
Continuando con la nostra intervista e nella testimonianza di P, è emerso un altro fattore molto importante e riscontrato anche nel corso della letteratura precedente: il senso di appartenenza. Questi bambini o ragazzi che siano, rimangono orfani, non hanno più nessuno su cui possano contare. I genitori non ci sono più, i parenti poche volte li vogliono o li possono accogliere nelle lorocase e così rimangono soli, in balia di se stessi e nessun altro. Appartenere a qualcuno e a qualcosa è fondamentale per la loro sopravvivenza. P ci racconta come l’adozione e l’appartenenza ad una nuova famiglia sia stato così importante: “L'adozione sicuramente mi ha aiutato a lasciarmi ancora più alle spalle tutto quello che è accaduto, tutta la storia. È stato molto importante per me anche aver cambiato il cognome, un cognome dentro il quale non mi ci ritrovavo, un cognome che non era più il mio. L'adozione è stata la consacrazione dell’attaccamento che nutrivo, e tuttora nutro, nei confronti della mia nuova famiglia e del legame con tutti loro. Sono riuscito a ritrovare un senso di appartenenza a qualcosa e soprattutto a qualcuno”.
Appartenere a qualcuno implica necessariamente anche il non appartenere ad altri, e questi orfanivogliono distinguersi e differenziarsi da quegli “altri” lì. Nelle parole di P è possibile riscontrare la volontà di distinguersi da un padre diverso da lui, dichiarando che “mi sono sempre percepito come distinto e diverso da lui. Col tempo mi è venuta la consapevolezza che comunque siamo persone diverse, forse alcuni atteggiamenti ce li ho simili a loro, ma per me io sono unico, anzi credo che io sia più simile per abitudini, modi di fare e di parlare, alla famiglia di ora più che a quella vecchia”.
Infine, al termine dell’intervista, abbiamo voluto lasciare a P la libertà di poter formulare un proprio commento e la vicinanza a questo fenomeno che deve essere necessariamente combattuto e arrestato: “ci saranno sicuramente altri bambini che in questo momento o in questi giorni subiranno il mio stesso trauma e sicuramente mi sento molto vicino a loro. So che dolore sia, so cosa vuol dire provarlo e viverlo sulla propria pelle […] Penso che sia fondamentale parlare di questo fenomeno, perché pur quanto lontano pensiamo esso sia, è sicuramente molto più vicino a tutti noi. È bene sensibilizzare tutti e fare in modo che non continuino a verificarsi episodi come quello che ho dovuto vivere anche io. Dovremmo riuscire a fare in modo che i casi diminuiscano e credo che attraverso l’informazione e le testimonianze possiamo essere più vicini e a sostegno di chi vive violenze continue nelle proprie vite”.
8. TESTIMONIANZA FILIPPO E GIORGIAFilippo e Giorgia, fratello e sorella rispettivamente di 17 e 19 anni, sono due orfani speciali. Ilpadre, uomo siciliano adesso detenuto in carcere, quattro anni fa, durante una notte decise di sferrare numerose coltellate in tutto il corpo alla madre, uccidendola. Furono i due ragazzi, la mattina seguente, a chiamare i carabinieri e a dare l’allarme, non vedendo la madre e trovando il padre sul letto dopo che aveva tentato il suicidio.
Adesso questi piccoli adulti vivono con Sabrina e Giulio all’interno della casa famiglia, dopo nove mesi di affidamento al nonno paterno.
Proviamo a dare voce, attraverso il loro racconto e la loro storia, al dolore che li accompagna da questi anni e a calarsi nei loro panni cercando di comprendere le conseguenze ingenti che il femminicidio porta con sé.
Filippo e Giorgia sono molto timidi, non parlano molto e difficilmente si concedono a chiacchiere, ma sono accomunati dall’enorme mondo che si nasconde dietro i loro occhi le loro vite. Ricordare con loro gli episodi di violenza vissuti e i loro stati d’animo è commovente, fa stringere il cuore. Giorgia racconta che immediatamente dopo l’uccisione della madre si ricorda che “non mangiavo, avevo smesso di mangiare praticamente per un bel po' di tempo. Anche il dormire, non dormivo mai. Per nove mesi finché non sono arrivata qui (in casa famiglia) non ho mai dormito la notte, dormivo due ore a notte […] A me non sembrava vero quel che è successo, mi sembrava di vivere un sogno, un incubo”. Simili problemi fisici, sempre a seguito del trauma subito, vengono raccontati anche dal fratello Filippo: “dopo il fatto fisicamente son stato male, per un anno avevo sempre acidità di stomaco, non so perché… mangiavo e subito dopo stavo male, andavo in bagno e vomitavo”.
Conseguenze fisiche, psichiche, relazionali e scolastiche sono riscontrate nella maggior parte degli orfani di femminicidio studiati. Anche nei loro casi può essere riscontrata la stessa statistica vista nei capitoli precedenti e attraverso le loro parole è facilmente comprensibile quanto vissuto.Giorgia dice che “A livello scolastico invece… ehm… faceva schifo, cioè facevo schifo. Nel senso già prima non ero chissà come poi dopo, almeno l'ultimo anno alle superiore prima di cambiare scuola, quindi il secondo anno da quando è successo alla fine della scuola, boom… tutte materie sotto... non studiavo”, mentre il fratellino ha avuto più difficoltà sul fronte relazionale: “A livello
sociale per me è stato difficile, soprattutto distaccarsi da tutti gli amici e tutto quello che fino a quel momento era la nostra vita. Quando son venuto qui non è stato per niente facile all’inizio, ho dovuto praticamente riniziare tutto da zero. Una nuova vita, non conoscere nessuno, nulla…”.
La loro storia è sempre stata contornata da violenza, il contesto familiare in cui hanno vissuto fino all’adolescenza era prettamente carico di pesantezza, violenze e maltrattamenti. Giorgia ricorda che “in famiglia c’erano già le violenze, anche prima che avvenisse il fatto […] mio babbo ci ha sempre picchiato fin da piccoli, anche se R, nell'ultimo periodo, l'ha picchiato di più rispetto a me”.I fratelli definiscono l’atmosfera respirata all’interno delle mura di casa come pesante “entravi dentro casa e sentivi proprio tutto addosso tutto molto pesante, stressante…”. Filippo smise di cenare insieme alla famiglia e tornare tardi la sera già quando aveva 12 anni, a causa delle botte subite dal padre “io a cena non c'ero mai, soprattutto a 13 anni, anche a 12. Prima quando cenavamo insieme ai miei genitori litigavo sempre con papà, mi alzava sempre le mani”. Giorgia e Filippo non erano altro che due ragazzini adolescenti che cercavano a modo loro di evadere dal contesto opprimente in cui vivevano e dai maltrattamenti subiti. Connesso a tali violenze, emerge subito il ricordo di quando Giorgia, la mattina seguente al femminicidio commesso dal padre (che ha poi tentato il suicidio), non trova la madre in camera da letto e scatta in lei subito l’allarme “vado di là (in camera della mamma), perché dormivano separati, apro la porta, ma non vedo la mia mamma e lì per lì non mi rendo conto di niente […] ho guardato per terra e poi li ho capito tutto. Sono andatain camera di mio babbo e anche lì era pieno di sangue… aveva provato a tagliarsi le vene”. Sono scene ed episodi che segneranno per sempre i due fratelli. Sono immagini indelebili che non potranno essere cancellate. Sono ricordi dolorosi tutte le volte che riemergono. Nonostante Giorgia avesse compreso la gravità dell’accaduto ci dice che “pensavo che inizialmente la mia mamma fosse andata fuori, fosse uscita… questo però lo credevo fino a quando non avevo visto il sangue […] Però io, lì, non pensavo che fosse morta, pensavo che la portassero all’ospedale… per mesi ho pensato che fosse all’ospedale… sognavo di andare a trovarla all’ospedale…”. Filippo, nonostante abbia visto e vissuto le medesime situazioni della sorella, le vive in altro modo. Filippo vuole subito comprendere la gravità e vuole subito essere consapevole di cosa stia accadendo, ci raccontacosì che “io invece l’ho scoperto guardando il
telegiornale… mi sono messo a guardare il telegiornale e l'ho saputo […] mi sono messo a guardare la tv perché volevo guardare il telegiornale per sapere cosa fosse realmente successo…”
I comportamenti di questi due fratelli sono indice di quanto sia fondamentale e indispensabile parlare con loro, renderli partecipi di ciò che sta succedendo e di come le loro vite si ritroveranno a dover essere sconvolte. Loro vogliono sapere, loro devono sapere, loro è giusto che sappiano.Troppe volte, anche nel loro caso, le persone che si prendono cura nei giorni o mesi successivi all’accaduto preferiscono evitare di parlarne “non ne abbiamo mai parlato di quanto accaduto, solamente all’inizio ma pochissimo… alla fine no non ne abbiamo parlato”. È solamente attraverso l’elaborazione del lutto e del dolore che questi ragazzi hanno la possibilità di cominciare una nuova vita e acquisire consapevolezza.
Nel corso della testimonianza, Filippo e Giorgia hanno espresso anche quanto sia stato importante e utile per loro essere stati affidati a due genitori, e di conseguenza alla loro famiglia: “è stato… come si può dire, è stato tanto e incisivo”.
Giorgia menziona anche la sua psicologa, elogiando il percorso svolto insieme a lei: “ho fatto un percorso con una psicologa. Per i primi 9 mesi, finché ero dal nonno, ci andavo una o due volte asettimana. Ci andavo volentieri perché dopo mi rendevo conto che stavo meglio, mi liberavo, mi sentivo di avere la mente più libera”
Per quanto riguarda i sentimenti provati dai due ragazzi, quello che più è stato enfatizzato esottolineato da entrambi è stato il senso di colpa. Giorgia ci racconta come si è sentita: “io ho avuto tantissimi sensi di colpa, veramente troppi… continuavo a ripetermi che avrei potuto fare qualcosa… avrei potuto evitare che la mia mamma fosse uccisa se mi fossi alzata dal letto… io avevo sentito… però alla fine mi è rimasto tanto senso di colpa per tanto tempo. Mi sentivo in colpa anche per come trattavo la mamma […] perché ci son stata poco, perché potevo fare qualcosa ma non l'ho fatto”. Anche Filippo è stato invaso da questo sentimento e anche lui ha dovuto conviverci per diverso tempo: “anche io ho provato tanto senso di colpa, ma perché non sono mai stato incasa per colpa di quell’altro (il padre) … ci dovevo stare di più e invece non c'ero quasi mai…sentivo sensi di colpa perché non abbiamo mai passato del tempo insieme dopo quegli anni, da quando avevo 10 anni fino ai 14 anni… abbiamo passato troppo poco tempo insieme alla mamma”
Durante la testimonianza è stato affrontato anche la questione dell’affidamento ad una famiglia che non risiedeva nella stessa città degli orfani speciali e il conseguente cambio di vita, abitudini e relazioni. Filippo e Giorgia hanno rivelato che per loro “è stata una cosa positiva perché quando camminavamo in città, ogni passo, ogni volta che uscivamo dalla macchina o prendevamo un gelato, tutti ci guardavano, parlavano. È proprio una cosa fastidiosa. Tutte le persone passavano, ci fissavano e parlavano tra di loro […] mi faceva stare male questa cosa […] è stato un cambiamento che ci ha aiutati molto”. Quindi è stato un cambiamento vissuto positivamente, anche se comunque è risultato molto faticoso ricominciare da zero, senza conoscere nessuno.
Un fattore che i fratelli condividono e di cui loro si sentono caratterizzati, è la mancanza di fiducia che nutrono verso le altre persone. Giorgia dice che per lei “è come se mi sentissi tradita dentro da qualcosa che apparteneva anche a noi, che era anche nostra… […] da quel giorno non riesco a fidarmi molto delle persone, è una cosa difficile da spiegare”. Dalle loro parole possiamo capire quanto sia difficile convivere con sensazioni ed emozioni di questo tipo e quanto si siano generate in loro, in modo automatico, a causa del padre. Lo stesso padre di cui questi figli hannopaura di assomigliargli, lo stesso padre da cui vogliono assolutamente distinguersi. Le parole di filippo sono molto significative: “ho avuto paura di commettere la stessa cosa… all’inizio la vivevo male […] Adesso mi rendo conto che siamo proprio due persone diverse. So di non essere come lui”. Giorgia invece ammette che “la mia paura era quella di trovare dall’altra parte un uomo che potesse essere come mio babbo, iniziare una relazione con qualcuno che poi si rivelasse come lui”. Insomma, quello che entrambi i ragazzi fanno capire è che a modo proprio, relativamente all’appartenenza al proprio sesso, questo padre ha generato paure e difficoltà riguardo la figura maschile. Filippo ci dice che “ho avuto più timori e problemi nel rapportarmi l'aspetto del babbo… […] Parlare così, anche con G, all’inizio era veramente difficile, preferivo parlare con S, inveceadesso va molto molto meglio anche il nostro rapporto. È come se la figura del mio babbo mi avesse fatto avere difficoltà a parlare con altri uomini”.
Le preoccupazioni di Giorgia invece, da ragazza, sono riferite alla figura maschile con la quale si rapporta: “la mia preoccupazione ricadeva sempre sul fatto che magari, dopo una discussione o una litigata non avrei saputo che reazioni o comportamenti aspettarmi dall’altra parte. Un’altra cosache ho notato è che, ancora adesso, ho
difficoltà a relazionarmi con gli uomini grandi, adulti insomma”
Infine, quando siamo giunti al termine con le loro testimonianze, abbiamo lasciato loro spazio per dedicare un pensiero nei confronti del femminicidio e come loro si sentono a riguardo. Filippo ha descritto che “ogni volta che succede è come se sentissi sempre un piccolo vuoto che mi ritorna dentro… nel senso che dal giorno che è successo ho avuto un vuoto, un vuoto che sembra un peso da quanto è grande, e ogni volta che sento qualcosa che mi ricorda quel giorno, o notizie alla radio o alla tv, quel peso ritorna e poi se ne va via. È come se tutte le volte rivivessi lo stesso evento, tutte le volte ci ripenso… mi viene da pensare anche ad altri ragazzi che hanno subito la stessa cosa nostra…”. Mentre Giorgia, la sorella grande, ha fatto cadere i suoi pensieri sul fatto che: “comunque non siamo soli, noi abbiamo avuto la fortuna di trovare questa nuova famiglia e spero che anche altri ragazzi o bambini a cui è successa la nostra stessa cosa, possano essere fortunati quanto noi. Anche se mi ricordo i primi momenti, erano davvero difficili e la solitudine era l’unica cosa che faceva compagnia al dolore… quello che fa anche male è pensare ad altri bambini o ragazzi come noi che possano vivere questo lutto… è un qualcosa che non si può spiegare. Credo che il femminicidio non dovrebbe esistere, non è accettabile che ancora oggi si debba assistere a queste cose”.
Questi sono i pensieri, le emozioni e il vissuto di chi, a causa del proprio padre, si ritrova ingiustamente ad affrontare e a vivere.
9. CONCLUSIONIDalla rassegna della letteratura abbiamo potuto vedere quanto la violenza, e qualsiasi sua forma o tipologia, sia parte della vita di numerosissime persone e famiglie intere. In questo caso ci siamo soffermati ad osservare un fenomeno sempre ad essa connesso, ma che incarna la sua forma più estrema, rivolta verso le donne: il femminicidio. Il femminicidio è un fenomeno che colpisce il mondo intero, che oltre ad uccidere e ad annientare la donna, distrugge anche la vita dei suoi possibili figli, i cosiddetti “orfani speciali”. Abbiamo visto quanto sia importante per questi bambini e ragazzi il periodo immediatamente successivo all’evento traumatico, quanto sia fondamentale parlare ed aprirsi riguardo ciò che è accaduto, evitando di intraprendere la strada dell’indifferenza o evitare di parlarne. Questi orfani speciali devono saper perché sono diventati orfani, devono comprendere, capire ed elaborare quanto successo. Questi bambini rimangono orfani di entrambi i genitori, oltre alla madre che viene uccisa, anche il padre non farà parte della loro vita, in quanto arrestato o anche suicida. Così si ritroveranno a dover essere affidati o ad un’altra famiglia esterna ai fatti e ai legami, o a qualcuno della propria parentela. Nel nostro caso abbiamo potuto intervistare due ragazzi e una ragazza affidati ad una casa famiglia. Abbiamo visto nei loro sguardi, letto nei loro occhi e ascoltato dalle loro parole quanto fosse stato per loro importante trovare un nucleo familiare disposto a dar loro l’amore necessario di cui avevano bisogno. In particolar modo il ragazzo più grande, vittima del femminicidio di sua madre quando aveva solamente 8 anni. Per lui, che alla fine è stato anche adottato, il legame e l’appartenenza alla nuova famiglia, lo hanno salvato.
Tutti i ragazzi hanno condiviso il fatto che dopo l’accaduto sono stati invasi da sentimenti di colpa. Si sono sentiti in colpa per non essere intervenuti, si sono sentiti in colpa per non aver trascorso abbastanza tempo con la propria madre, si sono sentiti in colpa perché si sono sentiti in parte responsabili, di una responsabilità che però può appartenere a tanti, ma sicuramente non a loro. Anche il fatto di essere nati da un uomo che è riuscito a commettere un atto inspiegabile come è l’uccisione della propria compagna o moglie che sia, ha rappresentato e rappresenta per loro un dolore. Avvertono quindi la necessità di liberarsi da questo legame fondato ormai esclusivamente dal sangue comune, sanno di essere diversi e vogliono distinguersi da ciò che non sentono proprio, da ciò che sanno che non appartiene a loro.
Il senso di appartenenza dal quale vogliono fuggire lo ritrovano nelle nuove famiglie, nei nuovi legami con altri caregivers e fratelli che hanno trovato. Sentirsi di appartenere a persone che condividono i veri valori della famiglia, che si rispettano e rispettano le figure genitoriali dientrambi i sessi, sono ancore di salvezza per chi ha sempre vissuto e visto cose diverse.
Il nuovo contesto familiare nel quale saranno immersi i bambini o i ragazzi, privo da qualsiasi forma di violenza, rimarrà sempre un elemento essenziale per la loro crescita. Il lavoro che la nuova famiglia affidataria dovrà fare con questi orfani speciali sarà quello di ricostruire immagini veritiere e consone alle figure genitoriali. Dovranno quindi, sia a livello di coppia che a livello singolo, ricostruire e ristrutturare la visione del padre e della madre, oltre a quello di uomo e di donna. Il padre biologico le ha distrutte entrambe, quindi il lavoro da fare coincide con la dimostrazione, attraverso sì le parole, ma soprattutto attraverso gesti e fatti di cosa vuol dire essere una famiglia e quanto in realtà il sesso maschile e quello femminile siano differenti rispetto a quelli conosciuti fino a quel momento. Nessuno ha il dominio sull’altro, ma entrambi cooperano. Nessuno può permettersi di obbligare o decidere sempre per l’altro, ma entrambi sono liberi di scegliere. La parola e il concetto di violenza, deve essere escluso dal proprio nucleo familiare. Da parte della famiglia affidataria, in particolar modo per la madre, accogliere questi ragazzi è stato meraviglioso e doloroso allo stesso tempo. La grande differenza da lei percepita è dovuta all’età del bambino. Più questi orfani sono piccoli, più il carico emotivo è ingombrante.
L’altra grande differenza tra un bambino in affidamento e l’affidamento di un orfano speciale, deriva da ciò che questi ultimi riescono a evocare e a suscitare, a livello di emozioni, dolore e sentimenti, nella madre affidataria. Il loro vissuto è un vissuto speciale, come speciali sono le emozioni e i dolori che questi piccoli uomini, o piccole donne, si portano addosso e dentro di loro.La madre affidataria ha la percezione e prova senso di colpa relativo al fatto che il “godimento” di questi ragazzi, così speciali, derivi necessariamente dalla perdita della propria madre biologica.
È una sorta di “Io posso godere di questi bambini, la propria madre non più”.
Altra cosa che è emersa, sia dai racconti della madre affidataria, che da quella degli orfani speciali, è il concetto di normalità. La loro volontà è quella di percepirsi e vivere come persone“normali”. La normalità per chi non ha mai avuto la possibilità di poterla
vivere assume le caratteristiche della specialità. Essere normali per loro è come essere speciali. La normalità è semplicemente un privilegio. Gli orfani speciali si sentono unici e speciali nel loro dolore e nelle loro richieste, ma non normali.
In conclusione, quindi si può dire che il percorso con questa tipologia di orfani, pur quanto difficoltoso e faticoso sia, può avere riscontri positivi. Questi ragazzi possono e devono essere aiutati ad emergere dal loro dolore profondo. Sarà necessario l’aiuto di tante persone, a partire da quelle a loro più vicine, fino ad arrivare al contesto societario nel quale siamo immersi. Perché il femminicidio, oltre ad essere un fenomeno che si verifica all’interno delle proprie mura domestiche, è un fenomeno prettamente sociale. Se le persone riescono ad arrivare a compiere tali violenze è colpa anche di questa società misogina e patriarcale in cui viviamo. Tutti dobbiamo sentirci in qualche modo colpevoli, quando ad un bambino viene uccisa la madre per mano del padre. Dobbiamo sentirci in qualche modo responsabili della sua sofferenza e del suo dolore.
È quindi di fondamentale importanza sensibilizzare le persone e combattere il femminicidio, utilizzando anche le testimonianze di chi si è visto distruggere e portare via il proprio mondo, lo stesso che poi gli è “caduto addosso”. È necessario quindi cambiare e sradicare le radici alle quali questo fenomeno è ancorato, affinché possa avvenire una forma di cambiamento.
“Le parole di questi orfani sono più significative di tanti discorsi. Lasciamoli parlare, ma soprattutto cerchiamo e impariamo ad ascoltarli, anche solo in silenzio, accogliendo il loro dolorema dando dignità a loro e alle loro madri, che sono e devono essere per i loro figli e per la società tutta esempio di forza e grandezza, da ricordare per poter andare sempre più nella direzione di estirpare la violenza contro le donne” (Baldry, 2018, p.138).
APPENDICE A
S, cinquantaquattro anni, madre biologica e affidataria di 12 ragazzi, racconta cosa vuol dire essere madre affidataria e adottiva di orfani speciali e dei ragazzi in affidamento.
“Quando accogliamo un bambino e/o minore presso il proprio nucleo familiare, vi è sempre un’attesa, un'emozione e tante domande che devono ricevere risposte future. Siamo molto consapevoli che le informazioni forniteci dal servizio sociale riguardanti il “caso”, non saranno mai del tutto aderenti alla realtà vissuta dal bambino. Solitamente nel corso di un affidamento “normale” rimane la presenza dei genitori, o almeno di una figura genitoriale. Confrontandosi con queste figure e osservando la propria situazione, il bambino o ragazzo in affidamento riesce a capire e ad elaborare il motivo per il quale si trova a dover uscire dal proprio nucleo familiare ed entrare a far parte di un altro. Se il legame venisse completamente troncato, anche se in molti casi è doveroso, il rischio è quello che possa instaurarsi nella mente del figlio, un’idealizzazione sbagliata del genitore. In alcuni casi quello che un bambino potrebbe pensare è che il motivo della sua sofferenza e della sua lontananza dal genitore, sia a causa nostra, diventando così noi i “cattivi” che ci vogliamo prendere il suo possesso. Nel caso degli orfani speciali, per noi genitori, anche se affidatari, il carico emotivo è diverso rispetto agli altri vissuti. In questo caso la forte emozione intensa che riusciamo a provare deriva dalla consapevolezza e dalla certezza del dolore che li accompagna. È il lutto più grande che un bambino possa provare. Questi orfani porteranno con sé un fardello non per colpa loro, ma per colpa del padre. Sarà un fardello molto difficile da elaborare e da accettare. Sarà un fardello che, una volta varcata la porta di casa nostra, avranno sempre in spalla e noi cercheremo di aiutarli in tutti i modi e con tutti i mezzi. Questo peso è già un dato di fatto importante, pesante e ingombrante con il quale dobbiamo fin da subito fare i conti. La tristezza espressa dai loro volti e il dolore profondo che si può facilmente leggere nei loro occhi, trasmettono una sensazione di inadeguatezza e impotenza. Io molte volte mi sento inadeguata e impotente. Non ho mai cercato di fare l’impossibile, non ho mai cercato di prendere il posto delle loro madri, non ho mai cercato di farmi vedere migliore dei loro genitori. Nelle vite di questi ragazzi ci muoviamo, soprattutto all’inizio, in punta di piedi, con grande rispetto, osservando e ascoltando tanto. A
differenza degli altri bambini, i genitori degli orfani speciali non esistono più, sono orfani di entrambi i genitori. Non sempre poi hanno alle spalle una parentela presente, non sempre ci sono zii e/o nonni disponibili ad accompagnare, almeno come possono, questi bambini durante la loro crescita. L’essere orfano e il sentirsi orfano è uno status che porta all’incertezza su tutto.
Il nostro, il mio lavoro è stato sempre proprio questo: creare per loro un punto di riferimento importante, presente, su cui poter contare, cercando di essere in qualche modo una boa in mezzo al mare alla quale potersi aggrappare. La mamma, che è una vittima, non può essere messa in discussione; il padre che è il carnefice non può essere distrutto nella sua totalità. Questi bambini sono il frutto dell’unione di queste due persone e affinché i bambini possano essere salvati, devono essere salvati anche i genitori. I bambini essendo nati da queste persone, soprattutto da un babbo che è riuscito ad uccidere la loro mamma, se venisse annientato, loro si sentirebbero distrutti, perché si sentono comunque di appartenergli, e se distruggi la figura che ti ha messo al mondo, è come se distruggessi anche il figlio. Salvando i genitori, in qualche modo è come se si salvassero anche loro. Per questo motivo il collocamento degli orfani presso un nucleo familiare estraneo alla loro parentela, la quale potrebbe nutrire sentimenti e posizioni di parte, potrebbe risultare un’ottima scelta e un’ottima soluzione di accudimento. Chi accoglie ha l’obbligo di essere preparato, di essere neutrale, di fare tutto il possibile per aiutare questi bambini nell’elaborare il proprio lutto e i propri traumi.
Una distinzione da fare poi è in base anche all’età degli orfani. Quando i ragazzi sono più grandi ci è risultato più semplice o comunque più facile instaurare da subito un dialogo dove loro hanno potuto e sono stati in grado di raccontarsi. La nostra prima esperienza di femminicidio, con Paolo, un bambino di quasi 8 anni, è stata fondamentale. Il periodo dell’adolescenza, se da una parte ci spaventava, dall’altra ci ha aiutato. A livello di richieste, tutti i bambini hanno più o meno gli stessi bisogni ed esigenze; ogni trauma e ogni esperienza sono tra loro unici. Ogni bambino ha bisogno di essere trattato singolarmente, in modo esclusivo. Hanno bisogno di sentirsi di appartenere a qualcuno, di essere parte di qualcosa, di essere speciali ed esclusivi. Allo stesso tempo questecaratteristiche possono essere ritrovate nel concetto di normalità. La normalità è specialità per chi dinormale non ha mai avuto niente. Avere un babbo e una
mamma, anche se è normale, è una cosa esclusiva. Essere amati, essere accettati, essere voluti, sono tutte cose apparentemente normali, ma che non tutti hanno potuto vivere o tuttora non stanno vivendo.
La grande differenza tra orfani speciali e ragazzi, che possono non essere riconducibili a tale categoria, è la percezione e ciò che viene suscitato in noi operatori e noi genitori. Ciò che ho provato in prima persona è stata la paura di non essere capace, la risonanza che un caso del genere potrebbe portare con sé, la posizione esposta che siamo tenuti a prendere. In più a questo posso aggiungere che sono stata spaventata dalle possibili ripercussioni di un dolore così particolare nei confronti degli altri figli, la paura che il disagio travolgesse e coinvolgesse eccessivamente i bambini della casa. Nel corso dei mesi, da quando sono entrati a far parte della nostra famiglia iprimi orfani speciali, io e mio marito abbiamo avvertito subito il bisogno di parlare e confrontacicon altri operatori e psicologi. Condividere era come rigenerarsi, rafforzarsi e ci aiutava a ritrovare le energie necessarie per continuare a fare quello che avevamo deciso di cominciare.
Un’altra emozione, molto intensa e profonda, che sono arrivata a provare attraverso l’affidamento degli orfani speciali, soprattutto con il primo bambino (allora aveva solamente 7 anni), è quello del senso di colpa. Era un senso di colpa dovuto al fatto che io era come se avessi potuto “beneficiare” del bambino poiché la madre non poteva più; io potevo e lei no. Il dolore degli orfani speciali è un dolore che porta con sé molto arricchimento e tuttora continua a farlo. Siamo stati arricchiti per il fatto di poterci misurare a livello di sentimenti, nel pensare di poter fare un percorso insieme a questi bambini. Ci hanno reso orgogliosi dei traguardi che hanno raggiunto e delle conquiste che sono riusciti a fare. Vedere che ce l’hanno fatta quando sembrava impensabile, èuna delle sensazioni che continuano ad essere vive dentro di me.
Inoltre, abbiamo dovuto affrontare anche la rivalorizzazione delle figure genitoriali, sia quella maschile che quella femminile. Dal punto di vista dell’uomo, quindi in questo caso di mio marito, il lavoro che ha dovuto fare lui è stato molto impegnativo. Era importante per questi ragazzi mostrare loro, attraverso azioni concrete, esperienze e praticità, che esiste altro oltre al mondo che fino a quel momento hanno vissuto. La violenza non è associata alla forza, ma è sinonimo di debolezza e insicurezza. Amare una donna non vuol dire picchiarla o usare violenza, amare vuol dire libertà,protezione
e rispetto. Era fondamentale dare a questi bambini e ragazzi un contesto privo di violenza con valori corretti, e G, essendo la figura maschile di riferimento, in questo caso è stato sempre impeccabilmente eccezionale. Abbiamo dovuto inoltre affrontare anche il tema relativo all’importanza della figura della donna e al significato che essa ha. Molte volte l’immagine della madre fornita dal padre è distorta, vengono “mostrate” cose non vere e vengono manipolati i figli. La donna merita rispetto, la donna deve essere rispettata.
Infine, questi ragazzi hanno una sensibilità diversa, soprattutto anche tra coloro che condividono lo stesso lutto. Quando R, G e R si incontrarono per la prima volta, a detta loro, è come se si fossero riconosciuti. Condividere lo stesso evento traumatico li faceva sentire in sintonia, li accomuna. Come li accomuna il fatto di sentirsi soli di fronte al bagaglio pesante che devono portarsi dietro. Per loro è come se agli altri non interessasse il loro vissuto, a nessuno importa la loro storia. È questa la solitudine che li accomuna”.
Sabrina racconta l’esperienza del primo affidamento di un orfano speciale, divenuto poi successivamente anche figlio adottivo. Ascoltiamo i sentimenti e le emozioni che l’hanno travolta, ascoltiamo il dolore di un bambino di soli 7 anni che ha assistito all’uccisone della propria madre, per mano del padre.
“03 agosto 2005, una telefonata inaspettata…
Squilla il mio cellulare e dall'altro capo del telefono è Valeria Verdi, assistente sociale del nostro comune di residenza. Mi chiede se avessi letto i giornali, se avevo già sentito la notizia drammatica che era in prima pagina sulla Nazione. Io non avevo avuto ancora l'occasione di leggere niente e quindi sono all'oscuro di tutto, Giulio pure. Si parla di una giovane donna (32 anni) di nazionalità rumena, che durante la notte è stata uccisa dal marito più vecchio di lei di circa 31 anni (lui 63 anni), italiano, nel sonno che con una mazza da baseball decide di porre fine alla sua vita. Valeria ci assicura che fino a quel momento il bambino aveva vissuto più o meno una situazione quasi del tutto normale (scopriremo solo dopo che non è stato proprio questa la vita di Paolo, che e che in realtà di normale aveva visto ben poco) e ci chiede di decidere in pochissimo tempo, il tempo giustoper parlarne tra di noi e niente più. Io e Giulio eravamo in macchina, ne
abbiamo parlato, abbiamo commentato qualcosa ad alta voce che aveva il senso del niente e del tutto, le nostre paure, le nostre perplessità, il mettersi nei panni di un bimbo così distrutto da un dolore terribile. Sì, ci è stato detto che lui non aveva assistito a niente, che il padre ha fatto quel che ha fatto, ma “tranquilli, il babbo ha detto che il bambino non ha visto nulla”, è questa la rassicurazione importante del servizio sociale. Noi eravamo perplessi, ci vedevamo già con un bambino in frantumi, distrutto dal dolore, angosciato dalle paure e poi la nostra fantasia vagava inesorabilmente. Era la prima volta che ci capitava di dover affrontare una situazione così importante, ma già ci stavamo chiedendo se saremmo stati in grado di comprendere ed aiutare. Chiamiamo anche Silvano, presidente della nostra associazione, per un consiglio, un confronto. Chiediamo un suo parere, volevamo sapere se secondo lui avevamo le capacità necessarie. Facciamo bene se diciamo di accoglierlo? Saremo sufficientemente pronti? Ovviamente lui, che è un uomo dalle mille esperienze, ci dice: “e me lo chiedi? Se questi casi non li prendiamo noi, chi può occuparsene? chi?” Quindi, dopo il conforto ricevuto anche da un parere esterno, chiamo nuovamente Valeria, non sono trascorse neppure 2 ore e decidiamo di iniziare questa nuova avventura. Sì, prendiamo noi il bambino, fissiamo l'inserimento per il 5 agosto… il 5 Paolo sarebbe entrato in punta di piedi in casa nostra e nella nostra vita.
5 agosto 2005… Paolo arriva da noi.
La mattina del 5 agosto, io e Alessandro andiamo in motorino incontro alla famiglia Rossi amici dei suoi genitori, che ci aspetta all'uscita del casello autostradale di Calenzano. Ci scambiamo qualche parola, qualche sorriso, e faccio loro strada per condurli verso casa nostra. Piccolo di età, una grande tenerezza e spaurito, ma forte della sua innocenza. Parla con Alessandro, con Francesco, va a vedere gli animali, viene portato in camera, nella sua camera e per qualche giorno farà ricerca, collezione e raccolta di tutte le piume che troverà in giro nel nostro terreno. I signori Rossi si trattengono con noi a parlare un po’ e poi salutano e se ne vanno dietro una forte emozione da partedi tutti noi adulti che conoscevamo bene la verità e che forse in fondo in fondo un po’ tutti ci riteniamo responsabili, o quantomeno coinvolti da questo dolore che pensiamo e intravediamo in quel piccolo cuore di quel piccolo bambino-uomo. Sappiamo già che accusa mal di pancia da quella notte orribile, che non dorme, che in casa dei Rossi non trovava pace.
Con noi inizia piano piano un percorso...
Fa tenerezza, è spaurito, dolce, fragile e con lo sguardo che cerca ovunque, nel vuoto, nei nostri volti un cenno di sentimento, di attenzione e altro. Alessandro lo introduce nel meccanismo di casa, gli presenta i nostri animali, il nostro ambiente e per Paolo sarà un “tocca sana”, un “balsamo” per tanti dolori… Trascorre le notti senza dormire. Ogni notte piano piano… e non poi così piano, entra nella mia camera mi tocca il volto, piange ed è in preda al terrore. Mi sveglia dicendomi che ha paura che durante il sonno io mi possa trasformare come la sua mamma… che il mio volto possa diventare vecchio all'improvviso. Non osa neppure pensare che un gesto così brutale, così atroce si possa ripetere, ma questa è la sua paura, un'altra mamma, un'altra donna, un altro babbo, un altro uomo… la storia potrebbe ripetersi e quindi come si può scacciare questa paura? Due sconosciuti che non aveva mai visto fino ad oggi, che non osa pensare, che non osa credere diversi da quello che è stato il suo conoscere di bimbo, di fanciullo. Dorme e sogna, gli incubi lo accompagnano nel buio della sua camera e lui piange, si dispera, ha paura, teme che il signor Bianchi (il mostro-padre) possa arrivare di notte, prendere e portarlo lontano facendogli ancora del male. La mattina riparliamo tutti insieme di questi incubi, lo consoliamo, gli diciamo di non temere. Lui racconta che Francesco e Giulio, a turno, scacciano e battono in un confronto quest’uomo-bestia… e lui si rasserena e si tranquillizza, tanto ci siamo noi, noi che gli facciamo da scudo. Un giorno più angosciato del solito ci racconta un altro sogno… “stanotte ho sognato che il babbo si presentava alla porta… diventava acqua, passava sotto la porta e si ricomponeva in casa… ed io ero terrorizzato e quindi mi sono svegliato…” noi quindi lo rassicurammo dicendogli che non avrebbe dovuto avere paura, perché avremmo preso il cencio, lo avremmo asciugato e lo avremmo buttato via lontano da noi. Il giorno vive, cresce e impara a conoscerci e a conoscersi, e come tutti i bambini va a scuola e cerca di vivere una normalità, chiedendo il diritto ad essere bambino.
Per quanto riguarda l’episodio, Paolo, quella notte è stato la seconda vittima, anche se non è stato ucciso fisicamente, è stato ucciso psicologicamente, di fatto la seconda vittima c’è stata ed aveva quasi 8 anni… La scena in quella casa è stata terribile per un bambino piccolo che amava la sua famiglia. Giulio pochi giorni dopo entra in quella casa a prendere delle cose che P richiedeva; peluche, qualche gioco e le foto di famiglia… La casa era ancora come era stata lasciata quellanotte, il sangue ovunque:
sulle pareti, per terra, nel letto… l’odore nauseante e tutto ciò che si respirava in quella casa era morte. Giulio ne è rimasto sconvolto. Nessuno lo ha voluto accompagnare all’interno dell’appartamento, né le forze dell’ordine e neppure l’assistente sociale, tutti sono rimasti sul pianerottolo. La morte fa paura, la rabbia, la violenza e il senso di colpa paralizzano. Giulio invece vive il dolore per un bambino che ha dovuto assistere a tale scempio… forse sarebbe potuto essere evitato… forse qualcuno è responsabile di non aver voluto vedere bene e quindi intervenire… Successivamente per comprendere e voler conoscere ciò che Paolo ha visto, quale ultima scena dellamadre si portava con sé, abbiamo voluto vedere le foto del cadavere… Impensabile. Inconcepibile. Inaccettabile. Un bambino, il nostro bambino dovrà fare i conti con quella scena per tanto tempo, dentro di sé quel ricordo… quell’ultimo ricordo che non lo farà dormire per un anno intero e per i 2 anni successivi la malattia lo accompagnerà nel suo quotidiano…
Paolo non ha potuto accompagnare la madre al cimitero, è stata portata in Romania e lì seppellita, non c’è tomba sulla quale il suo bambino la possa piangere. I grandi che dovrebbero tutelare i piccoli e gli indifesi, come per tutta la vita di questo bambino, hanno messo la parola fine in un modo indegno… non è stato pensato, non è stato condiviso con lui niente, neppure un addio, che avrebbe dato delle risposte importanti al cuore di una creatura nel presente e forse nel suo domani. Per aiutare Paolo in questo, abbiamo creato poi qui da noi, nel nostro terreno, un luogo con una croce, dove il bambino se voleva e quando voleva, poteva portare dei fiori alla madre e pregare per lei e con lei.
Vita quotidiana…e la malattia di Paolo
Durante il primo Natale, dopo quattro mesi dal suo arrivo, trovo in giro per casa bigliettini scritti da lui… li trovo facilmente perché non li nasconde, in cuor suo lui vuole che io sappia, che io veda come si sente, cosa pensa e quanto sta male per la mancanza della sua mamma. In uno c'è scritto: “Gesù ti prego fai che la mia mamma faccia come te, falla risorgere o altrimenti aiutami a dimenticarla”. In me si scatenò un pianto a dirotto. In me si aggrovigliò un dolore immenso che si somma a quello di P, a quello della madre che non può godere di suo figlio. La storia di P tocca tutti noi, me, Giulio, i nostri figli biologici e tutti i bambini che abbiamo in quel momento in affidamento. P dopo un anno di insonnia e di incubi e di dolore immenso, decide di ammalarsi. Siper noi decide lui (ovviamente in modo del tutto inconscio) perché non
poteva più andare avanti così… non poteva più stare sveglio tutte le notti e rivivere quanto di più doloroso possa esserci… non poteva più sopportare la visione, l'idea e il dolore che gli impediva di andare avanti nella sua vita. Si ammala e viene ricoverato in ospedale... Tornando da scuola notiamo che P ha dei capillari rotti nel viso, lo vediamo stanco, strano, assente. Arrivati a casa si mette il pigiama perché lo invitiamo ad andare a letto e invece ci mostra degli ematomi enormi che lui si trova sulle gambe, erano presenti ovunque: schiena, fondo schiena, dietro alle gambe, sulla pancia… da lì comprendiamo che c'è qualcosa di importante che non funziona. Venne così ricoverato in ospedale per piastrinopenia, ci rimane tre giorni e poi dimesso con appuntamenti giornalieri in day hospital… verrà sottoposto a trasfusioni di immunoglobuline. I primi mesi gli appuntamenti sono fitti, poi nel tempo, piano piano si diradano da tutti i giorni, a ogni tre o quattro, poi una volta a settimana e così via… Siamo spaventati, preoccupati, non riescono a dirci molto su questa malattia e non ci sono cure, solo tanto troppo cortisone che lo farà gonfiare… A sette mesi dalla comparsa della malattia gli vengono fatti ulteriori accertamenti, fino al prelievo del midollo osseo per scagionare la possibilità della leucemia… Tutti gli esami sembrano andare bene, almeno per quanto riguardano le malattie conosciute… per la piastrinopenia invece non c'è nulla, e neppure si comprendere cosa la scateni e il perché. Viene conclamata cronica dopo i sette mesi e rimarrà nella vita di P e nella nostra per circa due anni. Non è facile, è difficile convivere con una malattia senza cura, con la paura di non riuscire a guarire, con la negazione per P di poter fare qualunque sport, perché ogni trauma potrebbe essere pericoloso per la sua salute. Allo stesso tempo devo dire che questa malattia ha creato tra noi e P un amore senza confini, ha creato intimità, ha creato un legame affettivo importante. P è stato meraviglioso, si è totalmente affidato, ha lasciato a noi il totale compito di accudirlo, curarlo e amarlo senza opporsi, senza obiezioni di nessun genere. Dal primo giorno del ricovero in ospedale, P ha ricominciato a dormire tutta la notte, non si sveglia più, non ha più gli incubi, il suo terrore passa in secondo piano, il suo dolore per la perdita della mamma e per aver visto il padre autore di un gesto così terribile finiscono in secondo piano. Adesso c'è questa salute che non è più salute, e P, non può pensare ad altro. Si impegna a stare meglio, si impegna a voler guarire, tutti facciamo il tifo per lui, ogni volta che fa gli esami del sangue speriamo in un'impennata delle piastrine, ma per poter esultare di gioia occorre aspettare due anni… Quelgiorno,
il giorno della guarigione conclamata, torniamo a casa dichiarando a tutti che P è guarito, che le piastrine sono ormai ad un valore normale… il Mayer lo ha dichiarato guarito. In quell'occasione davanti a degli amici Giulio lo presenta come “il nostro guarito” e lui risponde molto innocentemente: “ed ecco i miei guaritori” … e ancora oggi, quando lo racconto a voce alta, mi sale un groppo alla gola e le lacrime iniziano a scendere a fiumi…
P è stato un bambino buono, pacioccone, affettuoso e bisognoso di tanto amore, infinito amore. E' stata per noi una grande grazia poterlo avere nella nostra famiglia. Ancora oggi, ogni tanto tra la vergogna e il timore, gli dico che mi dispiace che sia qui con noi, per quel motivo così terribile, ma per noi è stata una gioia infinita, è stato un dono. Noi con lui abbiamo ritrovato la voglia di fareaffidamento (da più grande anche P pronuncerà più o meno le solite parole, il solito concetto). Lui ne è soddisfatto, è contento delle dichiarazioni d'amore e di affetto che da parte nostra riceve. Nel suo percorso incontra anche la dottoressa-psicologa Neri. Con lei ha affrontato i primi momenti e i primi dolori, ha dato un nome a ciò che sapeva, ma non osava dire e dirsi. Ovviamente questo percorso psicologico è stato accompagnato da tutto il lavoro che noi abbiamo fatto con lui a casa. Con piacere, dolore e amore affrontiamo con P ogni momento della nostra e della sua vita. Tutto quello che dal suo viso traspare, che dai suoi occhi si intravede, sono parte di lui, sono parte di noi. Con la dottoressa-psicologa Neri prosegue il percorso per circa 4 anni.
Scuola…elementari e medie
Passano gli anni delle elementari, dove dobbiamo (soprattutto il primo anno) contenere anche le ansie dei genitori dei compagni di P. I genitori non riescono e non sanno (così ci dicono) come affrontare con i propri figli il dramma di P, chiedono a noi… ma oggi con il lume di una ragione diversa penso anche che in loro vi fosse soprattutto tanta curiosità, erano loro i diretti interessati più che avere un interesse vero per i propri figli… Si fa tutto per la tranquillità di un figlio, si è fatto tutto quel che doveva essere fatto per fare in modo che P non si sentisse troppo guardato e giudicato, ma in quinta elementare, dietro richiesta proprio del bambino, abbiamo deciso di cambiare scuola perché lì era diventato tutto troppo stretto e giudicante. Durante l’ultimo anno delle elementari P ha dovuto affrontare anche la ferocia e il giudizio di un compagno e la cattiveria degli adulti chehanno parlato attraverso la bocca del figlio e
del nipote… Sì, nipote di un nonno che conoscendo il babbo di P ha esordito dicendo che aveva fatto bene ad uccidere una moglie straniera e più giovane di lui, che sicuramente aveva avuto le sue ragioni per farlo. Siamo ovviamente intervenuti affrontando con la famiglia in questione quanto era stato affermato dal figlio, che si è vergognata e scusata, addossando la responsabilità di tale giudizio ad un nonno anziano. Passano anche le medie, con le distrazioni di P, con l'atteggiamento di chi vive con la testa tra le nuvole e che viene frainteso nei propri modi di fare. In seconda media alcuni bambini danno fuoco in bagno a della carta igienica. P che passa di lì trova l'accendino e lo mette in tasca dei pantaloni, e come al solito con il suo solito modo di fare infantile e soprattutto ingenuo, lo mostra ai compagni di classe. Il preside entra in ogni classe e chiede ai ragazzi chi sia stato e chi abbia l'accendino in tasca… i compagni di P lo indicano. Paolo ingenuamente lo mostra e non riesce a sostenere altro. Da lì a poco ci convocano in direzione e alla presenza del preside e di alcune insegnanti ci fanno un quadro di P per come noi non lo conosciamo e io con tutta la forza di una madre che conosce il proprio cucciolo, controbatte e non accetta la loro versione dei fatti. Soprattutto delineano un quadro caratteriale e comportamentale di P che non lo rispecchia… ma non mi credono, anzi mi informano che i genitori sono sempre gli ultimi a conoscere i propri figli e che i figli fuori casa sono altro… In terza media l'insegnante che più lo accusava e lo credeva un mezzo furbetto calcolatore, durante un primo colloquio mi chiede scusa e mi dichiara che la ragione era la mia. P, a detta sua, è semplicemente meraviglioso, se ne era innamorata per la bontà e l'intelligenza di questo nostro figlio. Io ho pianto. Ho pianto stupidamente durante il colloquio con la professoressa. L'ho ringraziata per l'umiltà dimostratami e per la grande gioia che mi aveva restituito nel comprendere chi P fosse veramente. Grazie prof…
Tecnici decidono e pretendono….
In tutti questi anni trascorsi ci siamo sempre stati, P c'è sempre, lui ci cerca sempre tanto, noi loaccogliamo sempre, è nostro, di noi famiglia. Il babbo biologico dal carcere chiede di vederlo, P è ancora alle elementari e noi non vogliamo, non crediamo sia una cosa positiva per il bambino. P non vuole incontrarlo e quindi ci muoviamo insieme al suo tutore e alla psicologa per proteggerlo e per rispettare la sua volontà. Il giudice di allora per non prendere decisioni in prima persona chiede una perizia psicologica alla “Stella Maris”, dove il bambino sarebbe dovuto essere ricoverato 15 giorni.Quindi per
non lasciarlo in quell’ambiente, chiediamo di poterlo accompagnare tutti i giorni dalla mattina alla sera senza ricovero e ci viene accordato… Non ci piace l'ambiente, ne rimaniamo sconvolti… Giulio mi chiama per telefono quasi sconvolto per ciò che vede, per ciò che sente. P sembra non rendersi conto di niente, va a colloquio con i vari medici, disegna, scrive e viene osservato un po’ da solo, un po’ in compagnia di altri bambini. P prende le distanze da ciò che lo disturba, da ciò che è brutto, è particolare, sembra non capire o non voglia capire. Conclusa l'osservazione dopo circa 15 giorni, viene stabilito che il bambino non può incontrare il padre biologico perché ha subito un grave shock ed è per questo motivo che viene negata al padre la possibilità di incontrare il figlio.Tiriamo un grande sospiro di sollievo perché temevamo per P, il giudice accetta la perizia e il pericolo, almeno quel pericolo, è scampato… Avremmo fatto di tutto per tutelare P e la sua salute psichica e fisica, nessuno lo poteva obbligare…
Io osservo tanto P, sempre, leggo le sue espressioni del volto, la pelle che cambia, gli occhi che guardano fissi, gli occhi sgranati… cerco di comprendere le cose che non dice, ma che potrebbe pensare, temere e desiderare senza più poterle avere. Nel nostro vivere ogni tanto facciamo qualche accenno alla vita precedente, alle cose che faceva con la madre, con il padre, le cose buone (poche tutti insieme), le cose negate e quelle terribilmente tristi che lo confondevano e spaventavano tanto. P va molto d’accordo anche con Francesco e Alessandro, si assomigliano fisicamente, il volto in qualche modo ricorda anche quello degli altri miei figli… se non diciamo chi è nato da noi e chi no, nessuno li sa distinguere, sono fratelli nel cuore e nell’anima da sempre, da subito. Con Alessandro è più facile, è dolce e disponibile, e Paolo lo cerca tanto, si cercano tanto. Tra di loro corre solamente un anno di differenza… insieme sono di una dolcezza che scalda il cuore. Con Francesco il rapporto è tra fratello minore e fratello maggiore. Francesco è forte, deciso, protettivo e sicuro di sé… Paolo si appoggia a lui, si fa sostenere quando serve, lo ammira, guarda le sue destrezze e marachelle. Sono stati superati gli anni del timore che il babbo biologico in qualche modo si potesse fare avanti con qualche richiesta, e il condividere per due volte all’anno le giornate con la nonna materna. Sì, perché P aveva una nonna materna: Lucia. Lucia è una donna anziana, malata, che piange ancora tanto la figlia morta e che nutre disprezzo (comprensibile) per il suo carnefice… Lucia viene due volte all’anno dalla Romania, non parla italiano, ci capiamo tra gesti e qualcheparola in qua e là, ma tutto è sempre
molto vago e mai certo. Le volte che viene a trovarlo fa un lungo viaggio in autobus per vedere il nipote, ma lui non sembra apprezzarlo più di tanto. La rispetta, sicuramente le vuole anche bene, ma non è la sua famiglia. Forse lo è stata di riflesso quando la madre era viva, ma non è più la suafamiglia, non rappresenta per lui il presente, ne è il ricordo. Col passare del tempo anche i racconti di Lucia si fanno più dolorosi, brutali, non conosciuti da P e sicuramente neanche da parte nostra… Racconta di sua figlia già sposata in Romania da giovane, con un altro uomo, violento. Questo la picchiava e lei ebbe il coraggio di lasciare il paese e venire poi in Italia. Ci racconta di quanto non abbiano voluto vedere le violenze di un uomo brutale come il signor Bianchi, come tutto doveva essere fatto poi alla fine con i tempi giusti… la separazione… la casa alla mamma con il bambino… la nonna che doveva venire qui ad aiutarla e il padre che nonostante tutto tiene il figlio per la maggior parte del tempo, visto che ormai era un uomo in pensione. Ma i tempi e i modi non sono stati quelli giusti, anche se la legge li aveva ben dettati: casa alla madre con il minore, il padre chevede il minore per maggior tempo, il padre che lascia la casa i primi di settembre… l’atto della separazione è nelle loro mani, ma quest’uomo non ha accettato la volontà di un’altra persona, di una donna, della madre di suo figlio. Queste rappresentano la volontà di privare un’altra persona del rispetto e della libertà. Questo non è altro che un uomo che non ha mai saputo cosa volesse dire amare. Lui detta la sua legge e lo fa per tutti, per tutti decide lui, per la madre e per il figlio. Ho sempre cercato di tutelare P in tutto quello che era nelle mie corde, anche dai racconti di Lucia, troppo forti anche per me, di una figlia-madre raccontata in un modo così poco protettivo per se stessa e per la sua creatura… Una donna che non ha saputo vedere il pericolo per la propria vita e per quella di suo figlio.
Dopo tutto questo trascorso, Paolo, prima che divenisse maggiorenne, espresse la propria volontà di essere da noi adottato. Si sentiva parte della nostra famiglia, si sentiva di appartenerci e noi diappartenergli. Grazie ad un grandissimo lavoro di tutte le persone che hanno lavorato per lui e per il suo benessere, P fu ufficialmente adottato nel mese di luglio, prima che diventasse maggiorenne, in un’atmosfera di profonda commozione e rinascita”.
Sabrina racconta come ha vissuto le prime fasi dell’accoglienza con Filippo e Giorgia, e come tuttora la loro relazione stia proseguendo.
“Due fratelli maschio e femmina di 13 anni e 15 anni quando avvenne il femminicidio. Entrambi chiusi, entrambi sofferenti, lei risponde a mono sillabe sempre triste, musona, scontrosa. Ha avuto bisogno di tempo, di raccontare tanto anche di quella notte, delle botte, della paura, del padre padrone, di una madre che era assente da casa e che aveva perso anche lei il senso della famiglia. La ragazza chiede aiuto, va per poco più di un anno da una psicologa, si fa aiutare, accetta anche un piccolo aiuto farmacologico. La scuola è un impegno per lei esagerato che la disorienta continuamente, ci prova, ci riesce, una tappa importante per una persona che ha sempre avuto poca autostima. Con noi genitori affidatari instaura un buon rapporto, sembra che stia imparando a fidarsi, si confida anche sul suo orientamento sessuale, trovando in noi e nei ragazzi presenti in casa,persone disponibili ad accoglierla per come è e per ciò che sente. Il ragazzo invece, poco espansivo e molto introverso, si mantiene sempre alla giusta distanza da me, come se il “lasciarsi andare” conla figura femminile lo potesse in qualche modo allontanare dal ricordo della madre. Segue molto di più mio marito, lo guarda, lo imita, impara tante cose da lui e con lui, nel corso di questi anni, si misurerà per le cose quotidiane anche con piccoli litigi. Io devo aspettare quasi tre anni prima che il ragazzo inizi con me una nuova relazione fatta di fiducia e racconti personali, chiedendo anche consigli per l’amore nutrito nei confronti di una ragazza. Attraverso il suo modo e le sue parole utilizzate per presentarmi alla ragazza, capisco quanto abbia camminato in questi anni, silenziosamente, piano piano e quanto spazio mi abbia fatto nel suo cuore e nella sua vita. A volte non riusciamo a vedere immediatamente i progressi di questi ragazzi. A volte abbiamo paura a sperare che questo avvenga. Quindi dopo un po’ di tempo, anche il ragazzo inizia a raccontare della loro famiglia, di cosa non andava in casa, delle compagnie sbagliate che frequentavano, di come fossero soli, di come questo padre per lui non rappresenti più nulla. Se la ragazza in qualche modo ogni tanto racconta anche qualcosa di positivo del padre, il ragazzo non lo fa mai. Dal ragazzo è emerso che continua a sentirsi in colpa per non aver aiutato la madre quella notte, loro che erano in casa, di notte nella loro camera. Noi adulti educatori, lavoriamo tanto su questi punti, rafforziamo la loro autostima, li raccontiamo visti dai nostri occhi (per noi sono eroi sopravvissuti ad una vera e propria guerra), li ammiriamo, li consideriamo molto forti, interessanti e unici, e con il loro permesso, davanti a loro, esprimiamo tutti i nostri pensieri leggendo nei loro occhi una certafierezza. Sentirsi
raccontare da chi ha stima in loro e da chi li ama, fa sì che possano rinascere sotto una nuova luce. Riescono a vedersi per come li vediamo noi e nell’osservarsi da questo nuovo punto di vista, imparano ad amarsi senza colpevolizzarsi.
Ciò che abbiamo potuto appurare in tutti questi anni è che l’avere una progettualità di vita con loro, con ognuno di loro, permette al bambino di sognare, spingendosi lontano e per tanto tempo, senza temere e/o avere una scadenza di questo tempo”.
APPENDICE BPaolo, quasi 8 anni, quando il padre, durante una notte, uccise sua madre a colpi di mazza da baseball. Il bambino vide la madre sdraiata sul letto con il volto tumefatto, immersa in un mare di sangue. Rimasto orfano di entrambi i genitori (il padre fu arrestato e messo in carcere), chiese alla famiglia affidataria di essere adottato, dopo aver sconfitto una malattia del sistema immunitario, scatenatasi conseguentemente al trauma subito. La sua richiesta fu felicemente soddisfatta e adesso P è a tutti gli effetti un figlio della coppia e un fratello per Francesco e Alessandro.
Diamo voce al dolore e ai ricordi di quel bambino di 8 anni, che adesso ne ha quasi 24.
Come stai in questo momento e come sei stato conseguentemente all’omicidio, tenendo conto dei domini di funzionamento psicologico, sociale, fisico e accademico?
P: “allora… penso di essere sempre stato un bambino abbastanza socievole, sicuramente dapiccino parlavo di più, in generale. Con gli amici parlo anche ora sempre tanto, però con la gente che non conosco non ci parlo molto volentieri, sono diffidente. Quando la mamma è stata uccisa avevo 8 anni, e a livello psicologico ero forse… senza forse, ero debole. Qualunque cosa mi dicessero reagivo piangendo o me la prendevo a male… tenevo il broncio e mi rovinavo la giornata, sia prima che dopo quanto è successo. A livello scolastico son sempre andato abbastanza bene, tranne in terza e in quarta elementare, cioè da quando la mamma è morta. Non facevo più i compiti”.
A livello fisico invece? Differenze fra prima, dopo e tutt'ora?
P: “Prima manco mi rendevo conto, ero un bambino, correvo sempre, credo stessi bene… dopo che è successo l’accaduto invece mi sono ammalato… mi sentivo più stanco… ero fermo perché non potevo fare certe cose, perché a livello fisico non ce la facevo. E ora… ora sto bene. Mi sento anche abbastanza stabile psicologicamente, sono tranquillo, anche confrontandomi con altre personemi sento bene, niente da nascondere, sicuro di me più o meno.
Hai avuto dei periodi che son stati peggiori di altri?
P: “è stata dura quando prendevo il cortisone come cura per la malattia, ma perché ero gonfio.Poi quando andavo alle scuole medie, sia a livello fisico che psicologico, è
stata dura. Poi da dopo quello che è accaduto mi sento molto più diffidente nei confronti delle altre persone, e non mi aspetto mai niente da nessuno… penso molto di più alle cose negative che alle cose positive che potrebbero succedere e quindi sono anche più preparato mentalmente al peggio. Questo probabilmente credo che sia dovuto all’omicidio. É come se fossi già predisposto al rifiuto e alla parte negativa, così non mi creo nemmeno troppe aspettative positive”.
In famiglia, prima che avvenisse l’omicidio, erano presenti delle violenze o fattori di stress?
P: “allora… io in casa mi sembra non ci stessi tanto, non trascorrevo molto tempo lì. Il poco tempo che passavo in casa mi ricordo che stavo in camera chiuso a giocare con i modellini, però sentivo litigare i miei molto spesso. A me, mio babbo, non mi ha mai picchiato… non mi ricordo nemmeno se ho assistito quando mia mamma veniva picchiata, ormai ho rimosso quasi tutto. So per certo che succedeva… mi ricordo che lo faceva molto a livello verbale, cedrano tante violenze verbali e psicologiche. Non voleva nemmeno che usassi i vestiti o le cose che mi comprava la mamma. Mi teneva più lui sotto custodia se così possiamo dire, mi vestiva lui, mi gestiva lui, decideva sempre lui per me. Era quasi come se mi volesse manipolarmi, voleva farmi cambiare idea sulla mamma. Io mi ricordo ancora bene che dissi a un'amica di mio babbo che era quasi meglio lei come mamma rispetto alla mia, però era certo che non era vero, io stavo bene con lei. Quando mi portava a lavoro per esempio mi divertivo. Era come se mi volesse allontanare volontariamente dalla mamma e inculcarmi una sua immagine totalmente diversa da come realmente era”.
In che misura sei stato esposto all’omicidio?
P: “mmm… allora, non direttamente, ma subito dopo. Era durante la notte, mi svegliai e non mi ricordo se c'era già mio babbo in camera mia oppure no… comunque ho visto mia mamma, che dormiva in una stanza separata dal babbo in salotto… le ho visto la faccia distrutta… al buio fortunatamente tale immagine sia adesso meno vivida. Quindi sono stato esposto direttamente, ma non nel compimento dell’omicidio”.
Quindi l'hai scoperto te o ti è stato detto della morte della mamma?
P: “lì per lì non pensavo potesse morire. Ho visto che stava male, che la situazione era tragica, ma pensavo poi sarebbe stato tutto uguale. Mio babbo mi ha portato via subito dopo, quindi non honeanche visto poi com'è andata a finire ed essendo stato
portato in un'altra famiglia (amici del padre, in cui ci è stato per circa una decina di giorni) cercavano di tirarmi su il morale deviavano sempre il discorso. Non hanno mai parlato direttamente dell’accaduto.
Ti eri reso conto quindi della gravità della situazione?
P: “sì e no, non completamente… io pensavo fosse un calabrone, mi ero fatto l'idea che l'aveva punta un calabrone perché avevamo i calabroni di fronte casa nostra.
Quanto sono stati caotici i giorni immediatamente successivi all'omicidio per il bambino?
P: “in realtà non ho visto nessuno. Le forze dell'ordine credo di non averle mai viste, almeno all'inizio, anche se c'era un poliziotto che in realtà, disse che mi aveva conosciuto tramite questa storia, ma io non me la ricordo… quindi non sono sicuro di avere avuto rapporti con lui. È stato caotico il trascorrere le giornate, stavo male dalla mattina alla sera, mal di pancia forte, mi si stringeva lo stomaco e basta, mi ricordo questo… giocavo poco, stavo da solo, non mi ricordo nemmeno cosa facessi tutto il giorno, stavo in casa e basta. Anche se non pensavo alla mamma, non riuscivo a mangiare e stavo male, a prescindere da cosa stessi facendo”.
Come stanno e che importanza hanno avuto per te i nuovi caregivers, che sono poi diventati anche i tuoi genitori adottivi?
P: “eh… son stati fondamentali, tipo la figura della mamma ovviamente mi mancava, ed avere trovato Sabrina è stato importantissimo per me, è stato un vero e proprio appoggio, avevo ritrovato una figura femminile. Non mi è mai mancato l’affetto da parte sua, la sentivo vicina sempre, anche quando mi svegliavo la notte e andavo da lei… andavo sempre da lei… mi sentivo a mio agio conlei. Giulio invece mi ha formato come ragazzo e come uomo, ha permesso la mia crescita più a livello personale. Io come punto di riferimento ho lui, anche se per la parte affettiva gran parte l'ha fatto S… anche da parte di G ne ho sempre ricevuto tantissimo, entrambi mi hanno sempre dato tantissimo amore… Con G ho capito come stare al mondo, se vogliamo metterla così, e con S ho potuto riscoprire l’amore materno”.
Come hai vissuto il fatto che avresti dovuto instaurare un nuovo rapporto con una madre nuova che non era la tua?
P: “è venuto da sé, non che io l'abbia cercato, però era boh… forse quello di cui avevo bisogno,quindi è venuto da sé… poi forse son stati tutti molto bravi e aperti
nell’accogliermi, anche i fratelli e le sorelle, per cui non ho avuto neanche troppe difficoltà a prendere quello di cui necessitavo. Sono stati tutti molto altruisti nei miei confronti.
C'è stato qualche conflitto tra parenti in relazione all'omicidio e/o la tua situazione?
P: “io di parenti che mi ricordo c'era solamente la nonna, ovvero la mamma della mamma. Credo che sia stata male, ma non penso abbia avuto qualche conflitto, con me no sicuramente e da parte di mio babbo non c'erano parenti, non ho mai conosciuto nessuno”
C’è mai stata una qualsiasi forma di contatto tra te e tuo padre?
P: “mi ricordo che gli scrissi una lettera, ma sinceramente non mi ricordo neanche il perché… mi ricordo un giorno mi sedetti alla scrivania e ho scritto varie cose che mi tenevo dentro da tempo. Ricordo che volevo chiedergli soprattutto il motivo per cui l'ha fatto… ma non gliel’ho mai voluto spedire. Non volevo avere più contatti con lui. Da parte sua invece non ho mai ricevuto niente, forse mi ha cercato tramite amici suoi, però non ho mai avuto contatti, neanche dei nostri conoscenti ovicini della casa dove abitavo prima”.
Quale assistenza per la salute mentale ti è stata fornita prima, dopo e tuttora (e quali sono stati i risultati)?
P: “tutto quello che ho avuto mi è servito, soprattutto la terapia con la mia psicologa. Con lei ho elaborato il lutto per anni, delle volte si chiacchierava di qualsiasi cosa e delle volte si parlava proprio della scena dell’omicidio, attraverso i giochi mi ricordo. Si parlava molto dettagliatamente, e posso dire che mi sia servito… anche il riuscire a parlare è stato un passo avanti, anche grazie alla S, G e ai ragazzi della casa famiglia, tutti hanno partecipato a darmi questo sostegno. Tutto è servito, qualunque rapporto mi ha fatto bene, aprirmi ed elaborare il dolore ha fatto sì che adesso ne possa parlarne liberamente e in modo aperto.
Ti ha mai dato noia o è stato per te un problema il fatto che gli altri potessero sapere di quanto fosse accaduto all’interno della tua famiglia?
P: “un problema non lo è mai stato, però mi scocciava far loro sapere le mie cose, soprattutto perché mi dispiaceva raccontare una storia brutta e loro, di conseguenza, sarebbero potuti starmale. Era un dolore che preferivo tenere io, era meglio che lo
sapessi io e pochi altri.
Che sensazioni ed emozioni hai provato conseguentemente all’accaduto?
P: “sensi di colpa no, anche rimpianti no, rabbia forse l'ho avuta quando ero più piccino… anzi forse ad essere sincero un senso di colpa ce l’ho avuto… mi sono quasi sentito responsabile di avere voluto la mazza da baseball (oggetto attraverso il quale il padre ha ucciso la madre), e se non ci fosse stata in camera mia, magari la mamma sarebbe stata ancora viva. Per quanto riguarda invece le emozioni che ho nutrito nei confronti del babbo, all’inizio era quasi un odio, poi dopo, quando frequentavo la prima e la seconda superiore, era come se il mio babbo non fosse mai esistito. Ero indifferente a lui e a qualunque cosa gli potesse capitare… il che penso sia un bene”
Come hai vissuto l'adozione e come stai in questo momento?
P: “ora credo di stare bene, quasi in equilibrio con me stesso, quasi perché devo crescere ancora in molto, ho i miei difetti da migliorare… però credo sia del tutto normale. L'adozione sicuramente mi ha aiutato a lasciarmi ancora più alle spalle tutto quello che è accaduto, tutta la storia. È stato molto importante per me anche aver cambiato il cognome, un cognome dentro il quale non mi ci ritrovavo, un cognome che non era più il mio. L'adozione è stata la consacrazione dell’attaccamento che nutrivo, e tuttora nutro, nei confronti della mia nuova famiglia e del legame con tutti loro. Sono riuscito a ritrovare un senso di appartenenza a qualcosa e soprattutto a qualcuno”.
Hai mai avuto il timore o la paura di poter seguire le orme di tuo padre?
P: “ci ho pensato… pensare ci ho pensato più volte, però mi son sempre tranquillizzato da solo perché io sono un'altra persona, non ho niente a che fare in realtà con mio babbo e con mia mamma su quell’aspetto. Inoltre, non sono mai stato né un bambino né un ragazzo violento, quindi fortunatamente ho ancor meno probabilità di fare la sua fine (si riferisce al padre). Mi sono sempre percepito come distinto e diverso da lui. Col tempo mi è venuta la consapevolezza che comunque siamo persone diverse, forse alcuni atteggiamenti ce li ho simili a loro, ma per me io sono unico, anzi credo che io sia più simile per abitudini, modi di fare e di parlare, alla famiglia di ora più che a quella vecchia”.
Come ti senti nei confronti del femminicidio inteso come fenomeno?
P: “ci saranno sicuramente altri bambini che in questo momento o in questi giorni subiranno ilmio stesso trauma e sicuramente mi sento molto vicino a loro. So che
dolore sia, so cosa vuol dire provarlo e viverlo sulla propria pelle… non so dire se è meglio che succeda quando si è più piccoli o quando siamo più grandi… certo è il fatto che quando siamo più piccini non abbiamo i mezzi per elaborare il dolore, quindi è sicuramente più difficile, però devo dire che a me, nel male e nel dolore, alla fine è andata bene… Penso che sia fondamentale parlare di questo fenomeno, perché pur quanto lontano pensiamo esso sia, è sicuramente molto più vicino a tutti noi. È bene sensibilizzare tutti e fare in modo che non continuino a verificarsi episodi come quello che ho dovuto vivere anche io. Dovremmo riuscire a fare in modo che i casi diminuiscano e credo che attraverso l’informazione e le testimonianze possiamo essere più vicini e a sostegno di chi vive violenze continue nelle proprie vite”
Ti saresti mai aspettato che tuo padre potesse commettere un fatto così grande e così violento?
P: “mi verrebbe da dire di no… però ripensandoci adesso e vedere come vivevo, probabilmente direi di si. Era diventata quasi la normalità che il babbo alzasse le mani, o comunque la voce, contro la mamma. Era normalità anche che la trattasse male. Per me era talmente quotidiano che era normale, non ci facevo nemmeno caso. Era normale vivere nella violenza. Quindi direi che con gli occhi di prima non me lo sarei aspettato, ma con gli occhi e la maturità di adesso invece sì”.
Vuoi dire qualcos’altro?
P: “sì… avrei due cose da aggiungere… la prima riguarda il rapporto che ho avuto e ho instaurato con le ragazze, ma soprattutto con il genere femminile, da dopo l’accaduto. Mi rendo conto di non sapere come interagire con loro, mi sento a disagio. Da quando è morta la mia mamma è come se avessi costruito un’immagine della donna con la quale non mi riesce rapportarmi. Mi sento a disagio, è come se avessi paura di entrare in contatto con l’immagine da me creata…
La seconda cosa invece è un pensiero che ho fatto e riguarda il fatto che se tornassi indietro e dovesse succedere lo stesso episodio, mi andrebbe anche bene viverlo e accettarlo… non perché nonmi interessasse della mia mamma, ma per tutta l'evoluzione che è successa dopo… perché ho avuto la fortuna di trovare questa mia nuova famiglia, ho potuto crescere e trovarmi accudito da una mamma unica, un babbo meraviglioso e dei fratelli stupendi”.
APPENDICE CFilippo e Giorgia, fratello e sorella rispettivamente di 17 e 19 anni, sono due orfani speciali. Il padre, uomo siciliano adesso detenuto in carcere, quattro anni fa, durante una notte decise di sferrare numerose coltellate in tutto il corpo alla madre, uccidendola. Furono i due ragazzi, la mattina seguente, a chiamare i carabinieri e a dare l’allarme, non vedendo la madre e trovando il padre sul letto dopo che aveva tentato il suicidio.
Adesso questi piccoli adulti vivono con Sabrina e Giulio all’interno della casa famiglia, dopo nove mesi di affidamento al nonno paterno.
Proviamo a dare voce, attraverso il loro racconto e la loro storia, al dolore che li accompagna da questi anni e a calarsi nei loro panni cercando di comprendere le conseguenze ingenti che il femminicidio porta con sé.
Come state attualmente, tenendo conto dei domini di funzionamento psicologico, sociale, fisico e accademico?
G: “Io mi ricordo non mangiavo, avevo smesso di mangiare praticamente per un bel po' di tempo. Anche il dormire, non dormivo mai. Per nove mesi finché non sono arrivata qui (in casa famiglia) non ho mai dormito la notte, dormivo due ore a notte… qualche volta quattro… massimo quattro/cinque ore. A me non sembrava vero quel che è successo, mi sembrava di vivere un sogno, un incubo. Per un bel po’ di tempo l'ho sempre detto. Poi ora invece no, sto realizzando ancora. Non è comunque semplice ecco. Mi sento tuttora di stare elaborando la scomparsa della mamma. A livello scolastico invece… ehm… faceva schifo, cioè facevo schifo. Nel senso già prima non erochissà come poi dopo, almeno l'ultimo anno alle superiore prima di cambiare scuola, quindi il secondo anno da quando è successo alla fine della scuola, boom… tutte materie sotto... non studiavo. Da quando sono arrivata qui invece meglio. Non è stato per niente facile, ci ho messo del tempo, ma alla fine sono riuscita a studiare e a diplomarmi bene”
F: “Io dopo il fatto fisicamente son stato male, per un anno avevo sempre acidità di stomaco, non so perché… mangiavo e subito dopo stavo male, andavo in bagno e vomitavo. A livello sociale per me è stato difficile, soprattutto distaccarsi da tutti gli amici e tutto quello che fino a quel momentoera la nostra vita. Quando son venuto qui
non è stato per niente facile all’inizio, ho dovuto praticamente riniziare tutto da zero. Una nuova vita, non conoscere nessuno, nulla…
A scuola invece normale, come sempre, andavo abbastanza bene… cioè andavo bene…”
Qual è la storia familiare, in particolare per quanto riguarda le precedenti violenze e fattori di stress?
G: “In famiglia c’erano già le violenze, prima che avvenisse il fatto. Mi ricordo un evento… ce l'ho ancora stampato qui in testa. Ero all'asilo, tornai a casa e tipo non so se papà o mamma avevano litigato o io avevo fatto qualcosa, ma ero piccina. Avevo uno zainetto delle “Winx” e mio babbo me lo strappò, poi mi prese da qui (indicandosi la maglia tirata all’insù tra il petto e la gola), mi alzò e boom: mi sbatacchiò sul letto, ma forte. Comunque, mio babbo ci ha sempre picchiato fin da piccoli, anche se F, nell'ultimo periodo, l'ha picchiato di più rispetto a me”
F: “nulla quando ha iniziato a alzare le mani... vabbè c'era sempre un'aria pesa in casa quindi io a 10 anni ho iniziato a uscire da solo, tornavo tardi la sera alle 23, poi nulla stavo sempre lontano da casa, evitavo di tornare perché c'era un'aria pesa”
G: “si, cioè, proprio entravi dentro casa e sentivi proprio tutto addosso tutto molto pesante, stressante…”
F: “io a cena non c'ero mai, soprattutto a 13 anni, anche a 12. Prima quando cenavamo insieme ai miei genitori litigavo sempre con papà, mi alzava sempre le mani, praticamente tutte le volte che tornavo da scuola, dalle medie, ero alle medie… Quindi c’è stato un periodo che tornavo da scuola a pranzo, mangiavo e poi uscivo… tornavo alle 2 di notte a casa per evitare di vederlo, quindi cenavo qualche volta alle 2 o sennò non cenavo proprio…”
In che misura siete stati esposti all’omicidio?
G: “ahh allora io… io mi ricordo… sì me lo ricordo ancora… Stavo dormendo e sentivo dei rumori, tipo ahh ahh (cerca di riprodurre l’ansimare, dovuto allo strangolamento), così, però non capivo, perché ero mezza addormentata. A un certo punto ho sentito un rumore, come se una bottiglia di plastica fosse caduta per terra… boom… e mi è venuta in mente subito la mamma, subito. Non sapevo cosa fare, se alzarmi o rimanere sdraiata, poi ho detto: “no vabbè”, dovevo anche andare in bagno, ma ho lasciato perdere. Tanto stavo anche registrando… non so perché, maquella sera
si decise di registrare quello che si dicevano nella notte mamma e papà, e abbiamo registrato tutto… Quindi ho detto: "vabbè non mi alzo sento domani mattina la registrazione”.
F: “Io non ho sentito nulla… vabbè poi la mattina G si è svegliata e doveva...
G: “Si poi io mi son svegliata e dovevo prendere dei soldi che aveva mia mamma per comprare delle scarpe. Vado di là (in camera della mamma), perché dormivano separati, apro la porta, ma non vedo la mia mamma e lì per lì non mi rendo conto di niente. Poi butto l'occhio per terra e vedo il mio quaderno di grammatica e non capivo cosa ci facesse lì. Sono andata a prenderlo e c'erano tante goccioline di sangue… ho guardato per terra e poi li ho capito tutto. Sono andata poi in camera di mio babbo e anche lì era pieno di sangue… aveva provato a tagliarsi le vene”.
Come siete stati informati dell’accaduto?
G: “Io pensavo che inizialmente la mia mamma fosse andata fuori, fosse uscita… questo però lo credevo fino a quando non avevo visto il sangue… fortunatamente non l’abbiamo vista dopo che papà l’ha uccisa. Vivendo quella situazione mi è venuto di chiamare subito i carabinieri, l’ambulanza… quando sono arrivati, i carabinieri ci hanno spostato in cucina e mentre eravamo tutti lì, a un certo punto, è arrivata una guardia… Quelli dell'ambulanza quando sono entrati in casa sono andati ad assistere il mio babbo che si era tagliato le vene. Ad un certo punto, anche i carabinieri non trovavano la mamma e dicevano tipo: “non sappiamo dov’è la madre” … quelli dell'ambulanza quindi rispondono che l’avevano trovata loro e che però i bambini era meglio se non la vedessero… Però io, lì, non pensavo che fosse morta, pensavo che la portassero all’ospedale… per mesi ho pensato che fosse all’ospedale… sognavo di andare a trovarla all’ospedale… poi sono venuta a scoprire che era morta tramite un messaggio che mi ha mandato la mamma di una mia vecchia compagna di calcio… mi disse : “mi dispiace per quello che è successo, ti faccio le mie condoglianze, vorrei prendere il tuo dolore, tutto il tuo dolore ma non posso farlo, fammi sapere quando ci sarà il funerale”. Dopo questo messaggio non l’ho mai più vista e nemmeno sentita…”
F: “io invece l’ho scoperto guardando il telegiornale… mi sono messo a guardare il telegiornale e l'ho saputo. Siamo andati a dormire dal nonno, dopo che i carabinieri lo hanno chiamato e ci hanno accompagnati fino a casa sua. Non è venuto a prenderci lui perché i carabinieri avevano paura chesi potesse fare un incidente e ci hanno voluto
portare loro… siamo rimasti a pranzo lì, dopo pranzo lei è uscita (G), io invece mi sono messo a guardare la tv perché volevo guardare il telegiornale per sapere cosa fosse realmente successo…”
G: “ecco io la tv… mmm… i social… questa roba così non li ho proprio considerati… dopo parecchio tempo sono andata a vedere che cosa avevo su Instagram… avevo più di 500 messaggi e avevo paura di leggerli. Facevo finta di non aver capito, che non mi interessasse…”
Il nonno come si è comportato nel periodo che siete stati da lui?
G: “poverino come si doveva comportare, è anziano, non sapeva come comportarsi…”
F: “esatto, non ne abbiamo mai parlato di quanto accaduto, solamente all’inizio ma pochissimo… alla fine no non ne abbiamo parlato”
G: “all'inizio quando io stavo male, cercavo di non farmi mai vedere che stavo male, perché sennò lui mi chiedeva come stessi e dovevo per forza fare finta di stare bene. In realtà ero nervosa, rispondevo male a tutti, non dormivo, lui si arrabbiava se durante il sabato e la domenica mi svegliavo verso le 11:30/12:00. Mi diceva che dovevo dormire la sera, ma io non ce la facevo, non riuscivo proprio a dormire… quindi facevo finta di stare bene per non far preoccupare lui, però in realtà stavo male”
Quanto sono stati caotici i giorni immediatamente successivi all'omicidio?
G: il giorno successivo all’accaduto siamo andati in tribunale accompagnati e scortati dal capitano dei carabinieri del nostro paese. Eravamo seguiti da tanti poliziotti e carabinieri vestiti in borghese, con macchine nere. Sempre scortati siamo entrati dentro il tribunale e abbiamo parlato con il PM. Hanno fatto prima entrare me. Sono entrata lì, con il capitano dei carabinieri e per un'ora e mezzo/ un'ora e un quarto, ho spiegato tutto quello che avevo visto e tutto ciò che riguardava la nostra vita precedente, prima dell’omicidio… insomma tutti i problemi. Non è stato semplice… non è stato semplice essere buttati così li dentro il giorno subito dopo all’omicidio… non conoscevamo
F: “il giorno dell’udienza, qualche mese dopo, ci hanno fatto testimoniare nuovamente, a loro importava soprattutto che confermassimo quello che avevamo detto il giorno dopo l’omicidio… le stesse cose pari pari, che non era una cosa inventata insomma”
G: “ci hanno fatto delle domande anche da giù (loro si trovano in una stanza sopra
l’aula della sentenza) e però non è stato semplice nemmeno quello. Praticamente dovevamo, cioè almeno io, testimoniare contro il babbo”
Quanto è stato differente essere stati affidati al nonno in precedenza e poi essere affidati a due genitori in casa famiglia?
G: “è diverso”
F: “un nonno non ti può dare una stessa educazione che ti dà come si può dire… che ti danno due genitori… ovviamente… mmm… non riusciva a darci le attenzioni, le cure e quello di cui aveva bisogno in quel momento. Vabbè anche un babbo e una mamma non lo facevano, quindi…”
G: “ma più che altro non si rendeva conto che alcune cose non ce le poteva dire in quel momento. Non ha saputo prenderci nel dire le cose, non aveva empatia. Non è che lo facesse con cattiveria, però non ci pensava, ma ancora adesso lui ci dice delle cose… ci ha detto delle cose… che in realtà non ce le puoi dire ancora. Dovrebbe tutelarci tuttora sotto un certo aspetto”.
Invece a proposito dei nuovi caregivers?
F: “è stato… come si può dire, è stato tanto e incisivo”
G: “la prima volta che abbiamo conosciuto S, lei era con la psicologa Anna. Non conoscevamo nessuna delle due. Da quel momento è stata sempre presente, anche quando ancora non sapevamo di andare poi ad abitare insieme a lei e alla sua famiglia. È stata davvero importante per noi, sia lei che G, e lo sono tuttora”
C'è stato o c’è ancora qualche conflitto tra parenti in relazione all'omicidio e/o la situazione del bambino?
F: “i parenti della mamma sono scomparsi tutti, nessuno si è più fatto vedere. Il nonno era morto quando noi eravamo piccoli, è rimasta la nonna, cioè la mamma della mamma, ma anche di lei non sappiamo niente… non sappiamo nemmeno se è ancora viva o se è morta”
Quale assistenza per la salute mentale vi è stata fornita finora (e quali sono stati i risultati)?
F: “io son stato tipo un paio di volte dallo psicologo, ma non mi è piaciuto e non ci andavo volentieri… anche ora non ci andrei… c’è, ci andrei, ma non ce la faccio ad aprirmi in questo modo con un'altra persona. Ce la faccio a parlare con un mio amico, ma con uno psicologo così no, non mi riesce”
G: “io invece ho fatto un percorso con una psicologa. Per i primi 9 mesi, finché ero dal nonno, ci andavo una o due volte a settimana. Ci andavo volentieri perché dopo mi rendevo conto che stavo meglio, mi liberavo, mi sentivo di avere la mente più libera”
Quali sentimenti o emozioni vi hanno invaso dopo che tutto ciò è avvenuto?
G: “io ho avuto tantissimi sensi di colpa, veramente troppi… continuavo a ripetermi che avrei potuto fare qualcosa… avrei potuto evitare che la mia mamma fosse uccisa se mi fossi alzata dal letto… io avevo sentito… però alla fine mi è rimasto tanto senso di colpa per tanto tempo. Misentivo in colpa anche per come trattavo la mamma, perché in casa la trattavo male… negli ultimi tempi era diverso con lei il rapporto… però si sensi di colpa perché la trattavo di merda, perché ci son stata poco, perché potevo fare qualcosa ma non l'ho fatto”
F: “anche io ho provato tanto senso di colpa, ma perché non sono mai stato in casa per colpa di quell’altro (il padre) … ci dovevo stare di più e invece non c'ero quasi mai… sentivo sensi di colpa perché non abbiamo mai passato del tempo insieme dopo quegli anni, da quando avevo dieci anni fino ai 14 anni… abbiamo passato troppo poco tempo insieme alla mamma”
Invece che considerazione avete del babbo e di quello che è accaduto? G: “per me è una merda e rimane una merda “
F: “anche per me, è sempre stato una merda”
R e G: “quello che ha fatto non ha giustificazioni”
Come avete vissuto il fatto di cambiare città, relazioni e abitudini?
G: “è stata una cosa positiva perché quando camminavamo in città, ogni passo, ogni volta che uscivamo dalla macchina o prendevamo un gelato, tutti ci guardavano, parlavano. È proprio una cosa fastidiosa. Tutte le persone passavano, ci fissavano e parlavano tra di loro. Ora me ne frego di più, ma prima mi faceva stare male questa cosa… ora so perché guardano e la vivo diversamente. Comunque sì… è stato un cambiamento che ci ha aiutati molto. Cambiare mi ha aiutato anche con il fatto che a sette minuti da casa del nonno c'era il carcere, dove c'era papa… anche quello per me era una fonte di sofferenza e disagio”
F: “per me è stato faticoso ricominciare, senza nessuno che conosci, farsi una vita nuova, anche ora è un po' difficile. Non riesco ad aprirmi facilmente e quindi instaurare nuove amicizie non è stato semplice all’inizio…”
G: “poi senti la mancanza degli amici perché comunque almeno quelli che frequentavo io, la Martina... anche loro ci son sempre stati, fin da prima che succedesse questo, fino ad adesso… ci sono ancora quindi c'è sempre questo legame, mi piacerebbe vederle più spesso, anche se mi rendo conto che non è facile”
Com'è stato il fatto che il babbo ha ucciso la mamma e come è stato instaurare un nuovo legame con una madre che non è la vostra, ma che assume appunto il ruolo e il punto di riferimento materno?
F: “all' inizio devi prendere confidenza, quindi, è un po' difficile… soprattutto iniziare a fidarsi di nuovo di una persona che fino a quel momento non avevi mai visto”
G: “anche io l’ho vissuta simile a F, all’inizio ero diffidente e facevo fatica, adesso invece bene. Anche se comunque da quel giorno, non riesco a fidarmi molto delle persone, è una cosa difficile da spiegare… è come se mi sentissi tradita dentro da qualcosa che apparteneva anche a noi, che era anche nostra…”
F: “io all'inizio do sempre poca fiducia agli altri, sono un ragazzo che appunto non si apre molto, infatti non ho molti amici e sono sempre gli stessi…”
Hai mai avuto il timore o la paura di poter seguire le orme del babbo?
F: “ad essere sincero sì, mi è passata per la mente questa cosa… ho avuto paura di commettere la stessa cosa… all’inizio la vivevo male, poi quando sono arrivato nella casa famiglia sono stato meglio, non ho più avuto questi pensieri. Adesso mi rendo conto che siamo proprio due persone diverse. So di non essere come lui”.
Avete mai avuto paura o timore di poter rivivere una relazione come quella dei tuoi genitori?
F: “mm io no sinceramente”
G: “io invece sì… la mia paura era quella di trovare dall’altra parte un uomo che potesse essere come mio babbo, iniziare una relazione con qualcuno che poi si rivelasse come lui”.
Com'è stato approcciarsi ai ragazzi o alle ragazze dopo che si è verificato questo episodio?
F: “mah per me… è rimasto uguale più o meno. Ho avuto più timori e problemi nel rapportarmi l'aspetto del babbo… ecco questo sì, più che relazionarmi con ragazzi e ragazze. Parlare così, anche con G, all’inizio era veramente difficile, preferivo parlare con S, invece adesso va molto moltomeglio anche il nostro rapporto. È come se la
figura del mio babbo mi avesse fatto avere difficoltà a parlare con altri uomini”.
G: “anche io ero abbastanza tranquilla, non avevo tanti timori… la mia preoccupazione ricadeva sempre sul fatto che magari, dopo una discussione o una litigata non avrei saputo che reazioni o comportamenti aspettarmi dall’altra parte. Un’altra cosa che ho notato è che, ancora adesso, ho difficoltà a relazionarmi con gli uomini grandi, adulti insomma… mi ricordo ad esempio una volta che andai a fare ripetizioni da un ragazzo grande a casa sua, eravamo solamente io e lui, e da quando arrivai, fino a che non andai via, non sono riuscita a dire niente… non parlavo. Mentre col genere femminile sono tranquilla”.
Come vi sentite nei confronti del femminicidio inteso come fenomeno?
F: “ogni volta che succede è come se sentissi sempre un piccolo vuoto che mi ritorna dentro… nel senso che dal giorno che è successo ho avuto un vuoto, un vuoto che sembra un peso da quanto è grande, e ogni volta che sento qualcosa che mi ricorda quel giorno, o notizie alla radio o alla tv, quel peso ritorna e poi se ne va via. È come se tutte le volte rivivessi lo stesso evento, tutte le volte ci ripenso… mi viene da pensare anche ad altri ragazzi che hanno subito la stessa cosa nostra…
È come se esistesse un legame tra noi che abbiamo vissuto più o meno tutti lo stesso trauma.
Penso soprattutto a quei bambini più piccoli di me che hanno vissuto la perdita della loro mamma, sarà sicuramente più difficile affrontarla. Per me essere stato già autonomo mi ha aiutato”.
G: “quello che mi viene da pensare è che comunque non siamo soli, noi abbiamo avuto la fortuna di trovare questa nuova famiglia e spero che anche altri ragazzi o bambini a cui è successa la nostra stessa cosa, possano essere fortunati quanto noi. Anche se mi ricordo i primi momenti, erano davvero difficili e la solitudine era l’unica cosa che faceva compagnia al dolore… quello che fa anche male è pensare ad altri bambini o ragazzi come noi che possano vivere questo lutto… è un qualcosa che non si può spiegare. Credo che il femminicidio non dovrebbe esistere, non è accettabile che ancora oggi si debba assistere a queste cose”.
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RINGRAZIAMENTI
Vorrei ringraziare tutti coloro che hanno speso il loro tempo per aiutarmi nella stesura di questo elaborato.
Ringrazio la mia relatrice Barbara Giangrasso per la disponibilità mostrata nei miei confronti, per la sua gentilezza e costante presenza, ma soprattutto la ringrazio per aver fin da subito sposato questo argomento a me molto caro.
Ringrazio tutta la mia famiglia, sia per il sostegno che mi hanno sempre dato, sia per essersi concessi a interviste, aprendosi e smascherando i propri dolori.
Grazie anche a mia mamma, immensa donna, che si batte attivamente contro il femminicidio e contro la violenza.
Se due anni fa, dopo non essermi iscritto al test della magistrale, qualcuno fosse venuto da me e mi avesse detto: “non ti preoccupare, ce la farai ugualmente”, forse non ci avrei creduto. Mi ricordo i giorni trascorsi tra Milano e Firenze, tra le chiamate alla segreteria dell’università e quella alla Ile, tra lo sconforto del pianto e la positività di continuare a credere che sarebbe potuto andare bene.
Sono iniziati così questi ultimi due anni di università. Sono stati molto particolari, con gli esami svolti seduto davanti ad un computer e l’impossibilità di poter uscire. Sicuramente questo periodo mi ha concesso la possibilità di rivalutare il concetto di normalità e quotidianità che tutti noi, tutti i giorni, diamo per scontato. Siamo dovuti arrivare ad essere chiusi in casa per comprendere e ridare valore alla libertà che tutti i giorni abbiamo la possibilità di vivere. Quella libertà che risiedeva costantemente al bancone di Beppe, di fronte alla Bea che scekerava drink a fiumi.
Sembra incredibile come tutte le volte che penso o che mi viene chiesto della mia università, mi scorrono davanti agli occhi le immagini di quelle folli serate trascorse insieme, abbracciati davanti ad un bar che se non fosse stato per noi, se non fosse stato per tutti quegli sguardi, non avrebbe suscitato in me nessun interesse.
Ma tutte le volte, sia che ci passi davanti in macchina fisicamente che mentalmente, vedo Gabri, Berni e Massi con il drink in mano che si tuffano in discorsi profondi con un tasso alcolemico da non invidiare. Riesco a vedere la Fede mentre consuma sigarette insieme alla Caro e alla Dienni, sempre avvinghiata a Paiona, e viceversa. Nel frattempo, dalla via giungono Simo, la Vio e Albe, che con la sua camminata strana pure in mezzo a chi sa chi l’avrei riconosciuto… intanto la Serena non sa da chi andare a parlare, così nel dubbio intrattiene giusto quelle 4-5 conversazioni, mentre Luchino incanta, con le sue esperienze di mondo, tante damigelle assuefatte dalla sua bellezza. Gli occhi con cui sto guardando queste indelebili scene, non sono soli, sono accompagnati da quelli della Vale e dal cuore che non potrà che rimanere lì, oltre che in torretta, in piazza Alberti.
Questi ricordi che sanno di long island, risate e grida credo che non potranno mai essere cancellati, credo che vivranno sempre in me e risiederanno sempre nel groppo in gola che tutte le volte mi si crea…
Quindi non posso dirvi altro se non Grazie!
È grazie a tutte quelle serate trascorse in macchina in castellina, a bere birre e a fumare, che mi hanno fatto credere all’importanza dell’amicizia. Sono i pranzi e le cene a casa mia, che mi hanno permesso di comprendere la presenza. Sono le vigilie di Natale da Chicco che mi hanno fatto vivere la spensieratezza. Le nostre altalenanti abitudini costantemente immutevoli che ci caratterizzano e fanno sì che noi siamo e resteremo semplicemente noi, il team Lenci. Siete voi che avete tirato fuori parte della migliore parte di me, voi che siete ormai da tanto, parte di me.
Grazie a te, che anche quando non abbiamo potuto vederci, ci siamo sentiti e percepiti come appartenenti alla stessa famiglia.
Alla vale, che è riuscita a farmi aprire gli occhi riguardo tanti argomenti ed è riuscita a far sì che potessi condividere e credere fermamente in altri. Grazie a te che in questi anni di magistrale mi hai trasmesso la voglia, il desiderio e la forza di andare avanti e portare a termine tutto ciò che iniziassi. Grazie per aver preso la macchina alle 11 la sera, quando a mezzanotte scattava il lockdown e nessuno sapeva quanto sarebbe potuto durare. Grazie perché attraverso la tua tenacia e la tua determinazione riesco a ritrovarmi e a respirare. Grazie perché nei miei momenti più bui, tristi e difficili, anche senza saperlo, ci sei sempre stata. Grazie perché ogni volta mi guardi con quegli occhi che sprigionano amore e mi permetti di rinnovarlo e riscroprirlo ogni giorno, sempre di più.
Poi ci sono loro, la mia famiglia, quella biologica e quella acquisita, sorretti dalla Ile e Gerry, sempre presenti e sempre attenti ai bisogni di tutti. Non ho mai conosciuto persone che si spendessero per gli altri tanto quanto voi. Voi siete il mio esempio, e dovreste essere l’esempio per tanti. Chissà se sarò mai capace di fare solamente un briciolo di tutto quello che siete stati capaci di costruire voi due, da soli, in mezzo a migliaia di persone accecate dalla sordità dell’indifferenza.
A Jechi che attraverso le sue esperienze e mille lavori riesce a battere la strada dietro di sè, lasciandomi la possibilità di capire quale sia quella che devo percorrere io.
A Riccardo, Roger e Gioia, che attraverso la loro testimonianza hanno reso possibile la realizzazione di questa tesi e la voglia di comprendere e sentire la propria sofferenza.
A tutti i ragazzi e ragazze della casa, che a modo loro, rendono unico questo posto e questa famiglia.
Grazie anche ai miei nonni, gli unici nonni da me sentiti tali. Anche se distanti e vissuti poco, siete e resterete per sempre il nonno e la nonna migliori di tutti. Ogni chiamata non renderà mai giustizia al bene che nutro nei vostri confronti. Le vostre rughe e i vostri dolori sono i segni di chi il lavoro, l’onestà e l’umiltà hanno rappresentato i saldi principi e valori in cui credere.
Grazie a te che ci sei stato. Grazie per le serate trascorse insieme. Grazie per il vino bevuto e per quello versato. Grazie per i giorni trascorsi insieme consecutivamente tra grigliate e drink alle 11 di mattina. Grazie a te che mi hai dato l’opportunità di conoscerti e mi hai permesso di entrare nella tua intimità. Grazie a te, che con un tuo sorriso mi hai illuminato, con una tua parola sorretto e con uno sguardo salvato.
Grazie a te, che oggi, in uno dei momenti più importanti della mia vita, sei qui, accanto a me.
Credo che nella vita nulla avvenga a caso e che tutto ciò che quotidianamente facciamo abbia un senso. Qualsiasi incontro ha un suo perché. Ognuno di noi ha un compito. Ognuno di noi ha la propria missione. La speranza è quella di riuscire a capire quale sia la nostra e avere il coraggio e la determinazione nel portarla a termine.
Grazie a tutti, vi voglio bene! Andrew
Che cosa c'è Di più celeste Di un cielo che
Ha vinto mille tempeste
A.O.
Corso di Laurea Magistrale in Psicologia Clinica e della Salute e
Neuropsicologia
Curriculum in PsicologiaClinica e della Salute
Il femminicidio e i suoi orfani: testimonianze di chi rimane e di chi se ne prende cura
Femicide and its orphans: testimoniesof survivors and their foster parents
Relatore
Prof. Barbara Giangrasso Candidato
Andrea Simonetta
Anno Accademico 2020/2021
A mio babbo e mia mamma,
per la vita spesa all’insegna degli altri e
attivi oppositori contro la violenza
Ad Anna, la cui
devozione e speranza
non saranno mai perdute
INDICE
ABSTRACT....................................................................................................................... VII
INTRODUZIONE............................................................................................................. IX
1. EXCURSUS SULLA CONCEZIONE DI VIOLENZA E FENOMENI AD ESSA COLLEGATI 1
1.1Nozione di genere e sesso........................................................................................ 1
1.2 Nozione di violenza................................................................................................. 3
1.3Violenza contro le donne......................................................................................... 5
1.3.1 Violenza domestica e assistita, nelle relazioni di intimità e di genere........... 5
1.4Concetto di violenza di genere e convenzione di Istanbul...................................... 9
1.5 La violenza interpersonale trasmessa dai media..................................................... 15
1.6 La colpevolizzazione della vittima (victim blaming).............................................. 16
1.7 Vittime: concettualizzazione e ripoliticizzazione della vittima, e processi di vittimizzazione 23
1.8La costruzione del “mostro” e la deumanizzazione................................................. 23
1.9 Statistiche sulla violenza: uno sguardo ai numeri della violenza............................ 28
2.IL FEMMINICIDIO E GLI ORFANI SPECIALI..................................................... 32
2.1Definizionietimologichedeiterminifemicidio,femmicidioe
Considerazioni sul concetto di genere........................................................................... 32
2.2 Definizione di femminicidio e origini..................................................................... 32
2.2.1I numeri del femminicidio............................................................................. 35
2.3Le conseguenze dei traumi e il dolore di chi rimane............................................... 40
2.4Orfani speciali: chi sono e perché sono detti “speciali”.......................................... 41
2.4.1I numeri degli orfani speciali........................................................................ 46
2.4.2Il collocamento degli orfani speciali............................................................. 47
2.5 Percezioni del caregiver sull'adattamento dei bambini........................................... 49
3.FOCUS SULL’AFFIDAMENTO................................................................................. 53
3.1 Cosa è l’affidamento e come funziona.................................................................... 53
3.2 Tipologie di affido e valutazione di efficacia.......................................................... 54
3.3 Statistiche................................................................................................................ 56
3.4 Quando un affido può definirsi concluso con successo?......................................... 57
3.5 Come affrontare/risolvere l’incongruenza tra la durata dell’affido prevista dalla legge e lacomplessità che la realtà dell’affidopresenta?....................................................................................................... 59
4. PRESENTAZIONE CASA FAMIGLIA...................................................................... 61
4.1 Famiglia e casa famiglia.......................................................................................... 61
4.2 Progettazione della casa famiglia............................................................................ 63
4.2.1 Requisiti generali............................................................................................ 63
4.2.2 Requisiti strutturali e impiantistici................................................................. 64
4.2.3 Gli attori della casa famiglia.......................................................................... 67
5.METODO....................................................................................................................... 68
5.1 Partecipanti.............................................................................................................. 68
5.2 Contesto................................................................................................................... 69
5.3Raccolta dati............................................................................................................ 69
5.4Strumenti................................................................................................................. 69
5.5 Obiettivo.................................................................................................................. 69
6.TESTIMONIANZA MADRE....................................................................................... 71
7.TESTIMONIANZA FIGLIO PAOLO........................................................................ 78
8.TESTIMONIANZA FILIPPO E GIORGIA............................................................... 83
9.CONCLUSIONI............................................................................................................. 88
APPENDICE A.................................................................................................................. 91
APPENDICE B.................................................................................................................. 105
APPENDICE C................................................................................................................. 111
BIBLIOGRAFIA............................................................................................................... 119
RINGRAZIAMENTI......................................................................................................... 130
ABSTRACTIl presente studio si presta ad indagare cosa sia la violenza e quali siano le tipologie più diffuse, approfondendo il concetto di violenza di genere. Quest’ultima forma di violenza si trova alla base del fenomeno, molto diffuso, del femminicidio, inteso come l’uccisione di una donna per motivi unicamente di genere. Verranno evidenziate le conseguenze e i disagi che tale fenomeno porta con sé, mostrando come affondi le proprie radici nella società patriarcale e misogina che la caratterizza. Il femminicidio, nei casi in cui siano presenti dei figli, genera inevitabilmente degli orfani: gli “orfani speciali”, definiti così perché il loro vissuto, i loro bisogni e il loro dolore è speciale. Sono figli che oltre a ritrovarsi orfani della madre perché uccisa dal padre, rimarranno orfani anche di quest’ultimo, che sarà in carcere o suicida. A tal proposito, questo elaborato indaga anche la loro sistemazione conseguentemente all’evento traumatico, facendo così luce sulla possibilità di essere accolti da famiglie affidatarie e case famiglia (come in questo caso). È stato quindi possibile, attraverso interviste non strutturate e semi strutturate, ascoltare tre orfani speciali, dando voce alle loro storie, oltre a conoscere il punto di vista della madre riguardo ciò che voglia dire accudire questi ragazzi e le possibili differenze derivanti dal loro affidamento, rispetto a coloro che non condividono lo stesso vissuto.
Questo elaborato si impegna a sensibilizzare le persone con l’intento di contribuire a combattere il fenomeno del femminicidio, dando voce e importanza agli orfani speciali e a chi se ne prende cura.
ABSTRACTThis study lends itself to investigate, through a bibliographic review, what violence is and what are its most common types, examining in depth the concept of gender-based violence. Gender-based violence underlies the widespread phenomenon of femicide, intended as the killing of a woman for reasons purely attributable to gender. The present study will highlight the consequences and inconveniences that this phenomenon drags itself, showing how its roots are firmly anchored to the patriarchal and misogynistic society that characterizes such phenomenon. Femicide, in cases where children are involved, inevitably lead to orphans: the so-called "special orphans", because ofthe
peculiarity of their life experience, needs and pain. In addition to being someone whose mother has been killed by their father, these children will also lose their father who will either be in prison or will have committed suicide. In this regard, this paper also investigates their new accommodation after the traumatic event has happened, shedding light on the possibility of being welcomed byfoster families and foster homes (as in this case). Through unstructured and semi-structured interviews, it was therefore possible to listen to three special orphans, giving voice to their stories, as well as to know the mother's point of view regarding what it means to take care of these children.It was also investigated the possible existing differences caused by the foster care in orphans who suffered from femicide compared to those who do not share the same experience.
The aim of this paper is to raise awareness among people, giving a contribution to the fight against femicide, giving voice and importance to special orphans and who take care them.
INTRODUZIONEFemminicidio. Quante volte abbiamo sentito questo termine? Quante volte lo abbiamo letto sui giornali o nei titoli a scorrimento in televisione? Ma sappiamo realmente cosa esso voglia dire e cosa sia? Abbiamo idea delle conseguenze che esso può portare? Chi pensa a chi rimane? Chi pensa ai cosiddetti “figli del femminicidio”, o meglio “orfani speciali”?
Facciamo un passo indietro. Ci riferiamo al femminicidio tutte le volte che una “donna subisca violenza fisica o psicologica, economica, sociale o religiosa, in famiglia e fuori, quando, cioè, non riesce ad esercitare “i diritti fondamentali dell’uomo”, perché donna, ovvero in ragione del suo genere o anche a causa dell'abuso di potere volto cioè ad ottenere il totale annullamento del femminile” (Spinelli, 2008). Viene utilizzato questo termine per spiegare l’omicidio doloso o preterintenzionale caratterizzato dalla specificità che ad essere uccisa è sempre una donna per motivi unicamente di genere. Il femminicidio rappresenta la massima espressione della violenza di genere, ovvero tutte quelle manifestazioni fondate sull’odio che derivano dal genere di appartenenza e dalle discriminazioni sessiste, rivolte contro determinate persone. La donna viene uccisa in quanto donna, rimandando ad una tipologia di violenza che affonda le proprie radici nella società patriarcale e misogina in cui siamo immersi.
Questa forma di espressione del controllo maschile su quello femminile, attraverso condotte basate sulla diseguaglianza di genere (Baldry, 2016), causa più di 171 vittime (esclusivamente donne) ogni anno solamente in Italia. Ogni 72 ore una donna viene uccisa dal proprio marito, convivente, fidanzato attuale o ex (Eures, 2015).
Sono numeri folli. Sono numeri che non possono essere né giustificati, né accettati.
Ma che fine fanno i figli a cui le loro madri vengono uccise? Chi sono questi bambini/e e ragazzi/e? Con chi vanno a vivere dopo che la loro madre è stata uccisa?
I figli del femminicidio rappresentano un dramma mondiale, e pur quanto non se ne parli, alcune stime indicano come questi orfani, ogni anno, siano più di 55.000 (Alisic, Krishna, Groot, & Frederick, 2015).
Anna Costanza Baldry coniò il termine “orfani speciali” per indicare tutti quei bambini, adolescenti, giovani adulti o già adulti rimasti orfani della propria madre a causa del padre. Vengono considerati tali anche coloro che il proprio padre o la propria madre sono stati uccisi da personecon cui questi erano legati affettivamente (Baldry,
2018). Vengono definiti “speciali” perché i loro bisogni, il loro vissuto, la loro condizione psicosociale e ciò che hanno subito è speciale e unico.
Questi bambini, oltre a rimanere orfani della propria madre, rimangono orfani anche del padre, il quale o si trova in carcere oppure si è suicidato. Quindi essi necessitano di una nuova sistemazione, di una nuova casa e di iniziare a vivere una nuova vita. Molte volte possono essere dati in custodia a parenti stretti del nucleo familiare, come ad esempio a nonni o zii. Altre volte questi orfani possono essere affidati a famiglie esterne alle loro parentele ed esterne a qualsiasi fatto o legame connesso al femminicidio. Una di queste possibili scelte e soluzioni riguarda l’affidamento alle case famiglia.
Nel nostro caso abbiamo avuto la possibilità di poter intervistare, attraverso interviste semi strutturate e non strutturate, un ragazzo (che quando avvenne il femminicidio aveva 8 anni) e un fratello e una sorella (rispettivamente 17 e 19 anni), vittime di questo brutale fenomeno. Oltre ad avere raccolto la testimonianza degli “orfani speciali”, il nostro interesse volgeva anche a riguardo di cosa voglia dire prendersi cura di questi ragazzi e come un caregiver entri in relazione con il loro dolore e cosa essi possano trasmettergli. Così una quarta testimonianza che abbiamo avuto la possibilità di raccogliere è quella della madre affidataria e di come lei ha percepito il loroaffidamento e cosa in lei è stato suscitato. Ci interessava approfondire inoltre, anche le possibili differenze che ci sarebbero potute essere tra un affidamento di un orfano speciale rispetto ad un altro/a ragazzo/a in affidamento.
Il nostro obiettivo è dunque quello di verificare, attraverso le testimonianze raccolte, e se possibile incrementare, il materiale presente nella letteratura consultata e ciò che la psicologa, psicoterapeuta e criminologa Anna Costanza Baldry ha scritto e ciò per cui si è sempre battuta in prima persona, valutando così l’esperienza soggettiva dei genitori affidatari e degli orfani speciali in una situazione di femminicidio.
L’elaborato sarà composto da alcuni capitoli iniziali riguardanti la rassegna della letteratura, cercando di approfondire il fenomeno del femminicidio e quello degli “orfani speciali” attraverso il contesto della società e le influenze che da essa derivano, percorrendo un excursus anche riguardo a tutte le possibili forme di violenza che si potrebbero presentare, sia all’interno del nucleo familiare, sia esternamente. Successivamente, saranno riportate le interviste fatte alle persone sopra indicate, tutte appartenenti ad una casa famiglia.
Ciò che per noi ha un valore molto importante è sensibilizzare le persone nei confronti di questo fenomeno non troppo discusso e le cui conseguenze sono enormemente poco esplorate. È importante che tutti noi ci sentiamo parte dei dolori altrui, soprattutto quando il dolore arriva a colpire bambini indifesi. Allo stesso modo riteniamo che sia fondamentale denunciare le violenze consumate, ma solamente sentendosi sostenuti e protetti si può incrementare questo comportamento non facile, quando a maltrattare e a uccidere sono proprio i partner intimi.
La nostra speranza è quella, oltre di illustrare lo scempio vissuto da tante persone e famiglie, di riuscire a poter dare un piccolo nostro contributo per un tema così per noi sensibile e vicino.
1. EXCURSUS SULLA CONCEZIONE DI VIOLENZA E FENOMENI AD ESSA COLLEGATI1.1 Nozione di genere e sessoRiguardo ai termini “genere” e “sesso” è fondamentale sottolineare i rispettivi significati e le differenze che li contraddistinguono, come viene evidenziato dalle diverse teorie femministe. L’approccio che ha avuto un maggiore sviluppo ed una diffusione più ampia, è quello che si è sviluppato circa dagli anni 60 del secolo scorso, affermando che il “sesso” rimandi ad un concetto biologico, per mezzo del quale è possibile differenziare maschi e femmine in relazione a caratteristiche fisiche e biologiche come potrebbero essere gli organi sessuali, i cromosomi, gli ormoni (Mikkola, 2012).
Il termine “genere” invece riveste un concetto culturale, sociale e storico, utilizzato sempre per distinguere e differenziare i maschi dalle femmine, non sulla precedente base, ma per mezzo di caratteristiche sociali, le quali non sono fisse, ma mutano sia nello spazio che nel tempo. Esso indica le aspettative, la posizione, i ruoli sociali, ma anche le tendenze, gli atteggiamenti, le attitudini, i gusti che vengono socialmente associati all’uno o all’altro sesso (o, meglio, all’apparire come appartenenti all’uno o all’altro sesso).
Questa distinzione è stata fortemente voluta e conseguentemente attuata proprio con il fine di separare, distinguendo e riconoscendo, tutto ciò che potesse essere attribuito al biologico, inteso come naturale e immutevole, da ciò che appartiene alla sfera della socialità, da sempre caratterizzata invece per la sua mutevolezza e dinamicità (Stoller, 1968). Inoltre questa differenziazione permette di contrastare alcune forme di determinismo biologico (Scott, 1986; Mikkola, 2012).
La definizione di “genere”, nonostante rimandi ad un concetto prettamente sociale (“a social category imposed on a sexed body”) (Scott, 1986), suscita ancora non pochi problemi, non essendo riconosciuta come universalmente condivisa per quanto riguarda i modi di acquisizione, apprendimento e imposizione di ciascun genere e l’appartenenza ad esso.
Come abbiamo detto il genere rimanda al concetto di ruolo, alle aspettative, agli atteggiamenti suciò che è considerato o meno appropriato, divenendo così parte attiva
per le persone, interiorizzandoli e inglobandoli nella propria psiche. “A tal proposito sono emerse tesi che affermano come il genere possa essere costitutivo della personalità, non appartenente esclusivamente ad un singolo individuo, ma comune ad un’intera classe di persone, ovvero tutti coloro che appartengono al medesimo sesso” (Mackinnon, 1989, p.113). Quindi il genere, caratterizzato da convenzionalità e mutevolezza, assume così un ruolo identitario, non essendo stato scelto in maniera autonoma. Il fatto che l’appartenenza a un genere sia un fattore identitario non implica necessariamente che l’esistenza di una distinzione tra i generi e/o che le caratteristiche che distinguono un genere dall’altro, siano elementi valutati positivamente.
“Tutto ciò ha, inoltre, l’effetto di creare nuovi stereotipi di genere, che, come tutte le categorie identitarie, hanno una funzione non meramente descrittiva, ma anche normativa: tracciano i confini di ciò che deve essere un’identità femminile di genere, con la conseguenza di escludere chi non soddisfa i parametri individuati” (Mackinnon, 1989, p.113). Questi stereotipi di genere sono identificati come definizioni culturali rigide sui ruoli di uomini e donne sia nella sfera pubblica che in quella privata. Nello specifico indicano cosa dovremmo aspettarci da un maschio e da una femmina e quali comportamenti ed emozioni potremmo considerare appropriati, accettabili odesiderabili per l’uno e per l’altra. Così, gli stereotipi di genere derivano dall’illusione che i generi siano dettati da una naturale divisione.
I percorsi di vita delle persone e le loro relazioni interpersonali possono essere condizionate dalle norme culturali presenti nelle società, che fanno riferimento a ciò che deve essere maschile e ciò che deve essere femminile, rinchiudendo così gli individui entro confini delineati che li conducono a scoraggiare e reprimere le proprie potenzialità, sia per il sesso maschile che per quello femminile. Un esempio di facile comprensione potrebbe riguardare tutto ciò che appartiene al dominio maschile o femminile circa i talenti, gli hobby e le intenzioni lavorative. Così la volontà e il desiderio da parte di uno dei sessi di mettere in pratica ciò che socialmente appartiene all’altro potrebbe essere arrestata. Ciò potrebbe essere riscontrato, ad esempio, nel piacere di svolgere lavori fisicamente pesanti o praticare sport quali il calcio per le donne, oppure fare lavori che si dedicano alla cura o professioni generalmente considerate femminili per gli uomini (Butler, 1991).
“Ammettere che non esista un’unica identità di genere ha però delle conseguenze
drammatiche per il pensiero e le politiche femministe: rinunciare al genere femminile come categoria unificata significa rinunciare alla categoria ‘donna’ e ad una lotta politica control’oppressione delle donne, di tutte le donne” (Stoljar, 1995; Young, 1997; Alcoff, 2006). A tal proposito non rimarrebbe che una duplice scelta riguardo a come il genere può essere concepito: o come una caratteristica reale, oppure lasciare perdere il concetto di “donna”. È attraverso l’educazione alla convivenza sociale che viene costruito il concetto di genere inteso come processodi formazione del concetto di essere uomini o di essere donne. Le persone divengono a stretto contatto con questi modelli, in modo più o meno rigido e libero, quotidianamente trasmessi dalla società in cui viviamo. Attraverso il “genere” è possibile vedere quanto questi modelli siano una costruzione sociale, rendendoli pensabili e quindi necessariamente criticabili. Questi modelli sonotalmente radicati e potenti che vengono considerati naturali e costituiscono le mappe mentali che guidano le scelte degli individui, arrivando a dare forma anche ai pensieri (Poggi, 2017). Anche il sesso è stato visto in parte, da alcune autrici, come una forma di costrutto sociale. Questo dipenderebbe dal fatto che le differenze, oggettivamente osservabili nelle persone, vengono percepite, attribuite e ricostruite in un determinato modo anziché in un altro. Ciò deriverebbe, appunto, da fattori socialmente determinati (Laqueur, 1990).
Quello che quindi rimane è la difficoltà di riuscire a comprendere e distinguere quali caratteristiche dipendano da fattori biologici e quali invece siano dovuti a condizionamenti sociali.
1.2 Nozione di violenzaQuando parliamo di violenza, la connotazione emotiva che essa assume è sempre negativa, associata a ciò che viene inteso come violento. È solamente quando le viene data un’interpretazione diversa, associandola ad altri aggettivi come ad esempio legittima, necessaria, giustificata… che potrebbe acquisire anche un significato meno negativo. Queste varie connotazioni derivano dal potere di alcuni gruppi sociali ed economici che riescono ad imporre la propria visione e prospettiva sul proprio pensiero di cosa sia la violenza. Quindi il valore e il significato di violenza, ritenere che determinati comportamenti siano valutati come tali e altri invece no, dipendono dalla connotazioneche ne viene diffusa all’interno della propria società, dalla morale e dai
valori (Poggi, 2017).
La nozione di violenza può essere suddivisa in tre tipologie, dalla più ampia alla più ristretta. Quella più allargata fa riferimento alla definizione di violenza come tutto ciò “che danneggia fisicamente e/o psicologicamente e/o economicamente gli altri (con il problema non semplice di stabilire che cosa sia un ‘danno’)” (Pilcher & Whelehan, 2004, p.173). Rientrano in questa prima categoria anche gli atti violenti intesi come violenza economica e violenza psicologica. La prima fa riferimento a tutto ciò che riguarda le risorse a cui una persona può attingere, come cibo, soldi,mezzi di trasporto e tempo. La seconda invece riguarda le offese, le umiliazioni (violenza emotiva) che la vittima subisce; inoltre la violenza può manifestarsi anche sotto forma di isolamento o attraverso la manipolazione dei bambini, cercando in tal modo di controllare e minacciare il/la partner (Ganley, 1998).
Una seconda nozione, più ristretta, è quella che descrive la violenza come caratterizzata dalla manifestazione della forza fisica, ovvero con la messa in pratica della minima percossa. Essa esclude le generalizzazioni che “a priori tutto ciò che comporti danni fisici, psichici o economici” venga considerata violenza. Questa sembra la nozione adottata anche in Italia: al riguardo, èvero che il reato rubricato come
«violenza privata» (art. 610 c.p.) comprende anche la minaccia (finalizzata a costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa), ma il testo la contrappone espressamente alla violenza, come distinta modalità di realizzazione dello stesso illecito («Chiunque con violenza o minaccia […]») (Hatty, 2000).
Infine, la terza nozione di violenza è una nozione discreta che amplia quella precedenteaggiungendole l’esternalizzazione delle minacce e le violenze verbali, se caratterizzate da danni potenziali riguardo circa la sfera psicologica, economica e fisica. Se pensiamo alla violenza e algenere, attraverso la letteratura femminista, è facilmente riconoscibile come questi due fattorivadano di pari passo. Il concetto di violenza si dice appunto gendered (genderizzato), inquanto essa risulta diversa a secondo del sesso a cui si riferisce e dell’autore che la mette inatto (quest’ultimo è fortemente associato alla mascolinità) (Breines, Connell, & Eide, 2000).Spesso sono appunto gli uomini a mettere in pratica comportamenti violenti a discapito delle donne,e la questione importante da capire e analizzare è se questa violenza sia associata al
genere, conducendoci così ad una violenza di genere (Poggi, 2017).
1.3 Violenza contro le donneSono ormai presenti numerose definizioni ed espressioni per chiamare e per riferirsi alle varie tipologie di violenza consumate dagli uomini nei confronti delle donne. Questa tipologia di violenza può essere suddivisa in altre categorie, ognuna che si focalizza su di un particolare contesto e su problemi specifici, permettendo di cogliere gli aspetti più profondi (Bonura & Pirrone, 2016):
- violenza domestica e violenza assistita
- violenza nelle relazioni di intimità
- violenza di genere
1.3.1 violenza domestica e assistita, nelle relazioni di intimità e di genereLa definizione di violenza domestica utilizzata nel testo di legge è la seguente: “si intendono per violenza domestica uno o più atti, gravi ovvero non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo famigliare o tra persone legate, attualmente o indipendentemente dal fatto che l’autore di tali fatti condi-vida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima” (Bonura & Pirrone, 2016). Questa tipologia di violenza considera i numerosi abusi subiti da parte delle donne entro le mura di casa propria, il luogo che dovrebbe essere, più di ogni altro, considerato sicuro e protettivo. All’interno di questa definizione, è presente e ne fa parte anche l’abuso di tipo sessuale o di mezzi di correzione nei confronti di minori o fra minori.
Inoltre è considerata violenza domestica anche la violenza che viene perpetrata da coloro che non vivono e risiedono nella stessa residenza, ma condividono comunque un legame affettivo. Essa è strettamente correlata ad un’altra forma di violenza: quella assistita, e sono entrambe, purtroppo, molto diffuse nell’intero globo (Bonura & Pirrone, 2016). La violenza domestica, nonostante sia un fenomeno apparentemente invisibile, comporta conseguenze tutt’altro che da sottovalutare. Un bambino che è cresciuto all’interno di questo contesto potrebbe avere le proprie funzioni genitoriali e relazionali già compromesse. Quindi la violenza domestica non può che non avere conseguenzedistruttive su tutti coloro che la subiscono (Luperti & Pedrocco Biancardi,
2005; Save the Children, 2018).
Inoltre “l'esposizione dell'infanzia alla violenza sotto forma di abuso fisico, sessuale o emotivo, abbandono o l'essere testimoni di violenza in casa ha un effetto significativo sul benessere dei bambini. L'esposizione infantile alla violenza è un fattore di rischio per una serie di comportamenti e disturbi a rischio (ad es. fumo, obesità, comportamenti sessuali ad alto rischio e depressione) che sono, a loro volta, correlati causalmente ad altri importanti problemi di salute pubblica come il cancro, malattie cardiache, malattie sessualmente trasmissibili e suicidio” (Mecacci & Bramante 2013). Lo stupore nasce dal fatto che è ancora diffusa l’idea sbagliata secondo la quale un uomo che picchia la compagna possa essere comunque un buon genitore, o, almeno, un padre sufficientemente idoneo, per il “semplice” motivo che il padre picchia la mamma, ma non i bambini (Long, 2020).
Risulta quindi fondamentale la messa in pratica di interventi precoci atti a ridurre l’esposizione dei bambini a qualsiasi forma di violenza, riducendo conseguentemente anche la loro probabilità di mettere in atto nel futuro comportamenti violenti.
Violenza assistita:
Per “violenza assistita” intendiamo quella forma di violenza che riguarda i bambini quandoassistono ad episodi di maltrattamento da parte di un genitore ai danni dell’altro. Con il termine “assistere” non ci riferiamo esclusivamente a quando il bambino si ritrova direttamente coinvolto nella situazione, osservando e vedendo ciò che accade, ma anche a tutte quelle volte che riesce a percepire cosa stia accadendo, comprendendo l’atmosfera e interpretando i sentimenti e le emozioni dei genitori. Non è necessaria la partecipazione diretta e la presenza fisica agli scontri, da parte dei bambini, per affermare che essi sono vittime di violenza assistita. Per delineare il maltrattamento è sufficiente l’ascolto o semplicemente la conoscenza acquisita tramite gli effetti fisici (come i segni sul corpo) o psicologici (avere paura) (Bonura & Pirrone, 2016).
La definizione oggi più conosciuta di “violenza assistita” si deve al Coordinamento Italiano Servizi Maltrattamento all’Infanzia che, per primo in Italia, ha portato l’attenzione su questa forma di maltrattamento minorile, definendola come «l’esperire da parte della/del bambina/o e adolescente qualsiasi forma di maltrattamento compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale,psicologica, sessuale, economica e atti
persecutori (c.d. stalking) su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative, adulte o minorenni» (Cismai, 2017). Il riconoscimento di queste due forme di violenza e di abuso risulta essere un problema di non poco conto, comportando numerose problematiche sia all’interno delle famiglie, sia da parte dei servizi che si occupano della cura dei minori. Questi ultimi hanno un ruolo molto importante per la salvaguardia dei bambini, ma non sempre il sostegno, il riconoscimento di ciò che sta accadendo e delle richieste di aiuto (più o meno velate che siano), risultano essere veloci, tempestive ed efficaci. Dalla violenza deve poi essere tenuto distinto il “conflitto”. Quest’ultimo consiste infatti in un «dissidio anche grave, (...) tra due persone, ma caratterizzato da una sostanziale parità tra le parti, anche se, nel caso sia coniugale o familiare, può creare un clima violento e comunque inquietante», mentre la violenza domestica «presuppone invece una relazione fortemente sbilanciata e caratterizzata da sopraffazione, dominio evittimizzazione di una parte sull’altra» (Long, 2020, p.66).
La maggior parte delle dinamiche che si verificano si incentrano sul genitore maschio che utilizza la violenza nei confronti della donna, raggiungendo il caso più estremo di violenza assistita, ovvero l’uccisione della donna. I bambini rimasti orfani della madre, a causa del padre, subiscono conseguenze devastanti e irrimediabili per l’intera loro esistenza. Come la violenza domestica, anche quella assistita non pone limiti circa né la stessa residenza dell’aggressore con la vittima, névincoli di familiarità, genere o età. L’aggressore può essere chiunque.
Nella definizione di violenza assistita si parla anche di “figure di riferimento” o “altre figure affettivamente significative” e “adulte o minorenni”, andando così a comprendere oltre a genitori, familiari, fratellini o sorelline, anche animali domestici e da allevamento nel caso in cui il minore abbia instaurato insieme ad essi una relazione di affetto (Cismai, 2017). La violenza assistita rappresenta la seconda forma di maltrattamento più diffusa nel nostro paese: sui circa 100.000 minorenni in carico ai servizi sociali per maltrattamento, il 19% ha subito violenza assistita (Cismai, 2017). Save The Children, tuttavia, stima che nell’arco temporale 2009-2014 ben 427.000 minori abbiano vissuto la violenza tra le mura domestiche nei confronti delle loro mamme, nella quasi totalità dei casi compiute per mano del partner (Save The Children, 2018).
Per quanto riguarda la risposta giuridica relativa alla violenza assistita, oggi, l’ordinamento italiano la condanna come forma di maltrattamento sui minori. La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (c.d. Convenzione di Istanbul, aperta alla firma l’11 maggio del 2011 e ratificatadall’Italia con la legge n. 77/2013) afferma che
«i bambini sono vittime di violenza domestica anche in quanto testimoni di violenze all’interno della famiglia» (Long, 2020). In attuazione di tale documento internazionale, il decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, ha introdotto quale circostanza aggravante comune, per i delitti contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché per i maltrattamenti in famiglia, l’aver commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto (art. 61, co. 1, n. 11-quin- quies, c.p.). La legge 11 gennaio 2018, n. 4 ha introdotto una protezione particolare agli orfani difemminicidio che, come già detto, costituiscono un gruppo con necessità specifiche all’interno dei minori, vittime di violenza assistita. Infine, la legge 19 luglio 2019, n. 69 («Tutela delle vittime diviolenza domestica e di genere», il c.d. “Codice Rosso”) ha poi, tra l’altro, modificato l’art. 572 c.p. (reato di maltrattamenti) affermando che «il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo “si considera persona offesa dal reato”» (Long, 2020).
Violenza nelle relazioni di intimità
per quanto riguarda invece la nozione di “violenza nelle relazioni di intimità”, essa fa riferimento alla violenza che si verifica all’interno delle relazioni di coppia. I maltrattamenti possono essere rivolti verso le donne (rappresentano il sesso maggiormente colpito), gli uomini o persone dello stesso sesso. Il nome, inoltre, deriva dall’espressione anglosassone “Intimate partner violence”. Oggi viene preferita l’espressione “Domestic violence” per intendere questa tipologia di violenza, perpetrata in particolare modo da partner o ex partner (Bonura & Pirrone, 2016).
Violenza di genere:
Infine, la terza tipologia di violenza elencata precedentemente riguarda la violenza di genere, la quale offre un’inquadratura più ampia rispetto alle precedenti (Bloom, 2008).
1.4 Concetto di violenza di genere e convenzione di IstanbulEssa descrive la violenza come tutte quelle manifestazioni fondate sull’odio che derivano dal genere di appartenenza e dalle discriminazioni sessiste, rivolte contro determinate persone. Queste tipologie di discriminazioni hanno vari destinatari anche tra loro differenti, spaziando dalla violenza maschile contro il genere femminile.
In primis, come avevamo già detto precedentemente, la violenza è gendered, nel senso che è sempre di genere, almeno a livello implicito. I comportamenti violenti, considerati tali sia a livello sociale che a livello giuridico, sono strettamente legati al genere di appartenenza, associati in particolare modo al sesso maschile (Poggi, 2017). Questa visione molto ampia di violenza di genere, considerandola come tale ogni qualvolta si verifichi una forma di violenza, permette di essere utilizzata a fini preventivi, combattendo le radici sociale sulle quali la violenza di genere si poggia. Dobbiamo riuscire comunque ad avere una capacità discriminatoria tra le varie tipologie di violenze,non considerandole tutte di genere, altrimenti essa non esisterebbe più come categoria concettuale autonoma (Ciccone, 2015).
In seconda battuta, quando pensiamo alla violenza di genere, essa può essere considerata come la violenza che “il genere è”. Questa teoria è molto meno diffusa rispetto alle altre e rimanda al concetto di genere come qualcosa di imposto e che non viene scelto. La violenza in questo secondo pensiero coincide con quella di tipo psicologico, intendendola come suggestione, persuasione e manipolazione, avente conseguenze ugualmente dannose e costrittive (Poggi, 2017).
Un terzo significato attribuito alla violenza di genere fa riferimento al considerare e utilizzare azioni violenti al fine di voler imporre il rispetto delle caratteristiche del proprio genere, soddisfacendo così le aspettative socialmente costruite a riguardo. Ciò potrebbe essere riassunto con: “la violenza contro chi non si conforma al genere che spetta al suo sesso”. Rientrano in questa considerazione di violenza di genere tutte quelle manifestazioni di violenza, ad esempio, nei confronti delle persone transessuali, i disonori ritenuti tali dalla famiglia, i bambini e le bambine che si comportano o hanno preferenze come quelle del sesso opposto (Poggi, 2017). Questa accezione di violenza di genere è implicitamente richiamata anche dalla Convenzione di Istanbul, allorché, all’art. 42, prevede l’obbligo di escludere che possano valere come scusa per giustificare gli atti diviolenza la cultura, gli usi e costumi, la religione, le tradizioni o il cosiddetto
onore, statuendo che non sono adducibili «le accuse secondo le quali la vittima avrebbe trasgredito norme o costumi culturali, religiosi, sociali o tradizionali riguardanti un comportamento appropriato» (Poggi, 2017).
Infine, possiamo trovare un’ultima interpretazione riguardante il concetto di violenza di genere, la più comune e diffusa in letteratura. Fortemente connessa alla prima interpretazione sopra citata, la violenza di genere viene identificata come quella violenza volutamente indirizzata contro una persona, appartenente ad un determinato genere, proprio perché appartiene a quel genere. Solitamente questa tipologia di violenza viene consumata da uomini nei confronti delle donne, ricalcando così il fatto che essa sia una violenza genderizzata. Quindi i due concetti potrebbero risultare differenti solamente nel caso in cui non si consideri la violenza esclusivamente diretta contro qualcuno che appartenga ad un dato genere (Poggi, 2017).
La violenza basata sul genere può essere stimata attraverso l’utilizzo della frequenza statistica, ovvero vengono stimate il numero indicativo di vittime appartenenti ad un determinato genere che subiscono comportamenti classificabili all’interno di tali tipi di violenza. In tal caso potrebbero essere presenti sufficienti ragioni per sostenere che si tratti di violenze basate sul genere. Nel caso in cui il numero delle vittime non indichi nessuna specifica variazione importante tra i due sessi, quindi la percentuale delle vittime maschili e femminili siano più o meno equivalenti, il genere delle vittime risulterà irrilevante. Se invece la percentuale delle vittime appartenenti ad uno dei due sessi risulterà in misura molto maggiore rispetto all’altra, ciò significa che il genere di appartenenza risulterà un fattore molto importante e sarà ritenuto fondamentale (Poggi, 2017). Quindi, utilizzando altre parole, non si considera violenza di genere quella violenza esercitata contro una donna se essa risulta essere una vittima casuale o se sia indifferente il fatto che sia donna. Però se la totalità o la maggior parte delle vittime di tali violenze risultano essere donne, allora non è possibile parlare di vittime casuali.
Questa breve illustrazione del metodo statistico mostra quanto esso non sia soddisfacente nella stima delle violenze subite, risultando forse sufficiente, ma sicuramente non necessario. Il criterio della frequenza statistica necessita o di una sostituzione con altri metodi, o quanto meno una integrazione, identificando nel criterio della subordinazione la possibile soluzione.
Quest’ultimo è un criterio utilizzato per identificare le violenze fondate sul genere,
sia in maniera autonoma, sia insieme al primo metodo discusso. In base a tale criterio, “un atto di violenza è basato sul genere quando è la manifestazione, ed è funzionale al mantenimento, di una struttura sociale caratterizzata dalla subordinazione/oppressione/dominio di chi appartiene ad un dato genere. Frequentemente l’asimmetria del rapporto fra i generi prende la forma dei sentimenti ritenuti “normali” all’interno di un rapporto intimo o di prossimità” (Poggi, 2017).
La donna, quando si trova in una condizione più svantaggiata rispetto a quella dell’uomo, “concederebbe” al partner di sesso maschile la “condizione culturale” di “possederla”, divenendo così colui in grado di controllore ogni cambiamento nella vita della donna, divenendone il referente e fruitore unico. Queste dinamiche fondate sul possesso maschile, abbinate alla debolezza e alla fragilità femminile, sono condivise e pensate da molti. Attraverso esse gli uomini nutrono orrende false convinzioni di essere autorizzati ad esercitare la violenza e il possesso nei confronti delle donne, fatto che si verifica anche quando queste ultime sono ritenute “troppo indipendenti” dall’uomo. Tutto questo potrebbe sicuramente anche coincidere con il fatto che la maggior parte delle violenze subite dalle donne, per mano del proprio partner, si consumino all’interno della propria famiglia (Donadi, 2015).
La violenza di genere è a tutti gli effetti un problema pubblico e di violazione dei diritti umani di tutti i cittadini o cittadine che la subiscono. In particolar modo la violenza contro le donne è un fenomeno enormemente diffuso in tutti i paesi, fondato su modelli culturali che generanomaltrattamenti e strettamente connesso con la violenza di genere e da poco incluso nella Convenzione di Istanbul. Questo documento è stato adottato dal consiglio d’Europa il 7 aprile 2011, avente come scopo la prevenzione e la lotta contro tali tipologie di violenza.
La Convenzione di Istanbul
La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, nota come Convenzione di Istanbul, approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011 (La Convenzione è stata aperta allafirma l’11 maggio 2011 a Istanbul, sottoscritta da 44 Paesi e ratificata da 22, tra cui l’Italia con la legge 27 giugno 2013, n. 77, entrata in vigore l’1 agosto 2014), “si pone, quali obiettiviprincipali, quelli di promuovere la
parità tra i sessi e combattere le discriminazioni verso le donne, mediante la prevenzione, la persecuzione e l’eliminazione di ogni forma di violenza contro le donne e di violenza domestica, e la predisposizione di misure di assistenza a favore delle vittime di tali violenze. A tal scopo, la Convenzione impone agli Stati contraenti una serie di obblighi normativi di adeguamento del diritto interno, nonché di obblighi informativi e obblighi latu sensu politici e finanziari, prevedendo altresì un meccanismo di controllo sull’attuazione di tali obblighi, che ruota attorno all’attività del GREVIO” (Parolari, 2014, p.859). Più nel dettaglio, la Convenzione di Istanbul all’art. 1 pone gli obiettivi di «a. proteggere le donne da ogni forma di violenza e prevenire, perseguire ed eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica; b. contribuire ad eliminare ogni forma di discriminazione contro le donne e promuovere la concreta parità tra i sessi, ivi compreso rafforzando l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne; c. predisporre un quadro globale, politiche e misure di protezione e di assistenza a favore di tutte le vittime di violenza contro le donne e di violenza domestica; d. promuovere la cooperazione internazionale al fine di eliminare laviolenza tra le donne e la violenza domestica; e. sostenere e assistere le organizzazioni e autorità incaricate dell’applicazione della legge in modo che possano collaborare efficacemente, al fine di adottare un approccio integrato per l’eliminazione della violenza contro le donne e la violenza domestica» (Parolari, 2014, p.859).
Grazie a questa Convenzione è stato possibile riconoscere, come fattori scatenanti della violenza contro le donne, le radici sociali e il carattere transculturale ad essa associata. È stata allargata la visione e la concezione di tale violenza intesa non più solamente come verificabile all’interno della propria vita privata, ma bensì è stata indicata come un problema di natura politica e delle societàcontemporanee. La violenza di genere e quella privata hanno ormai assunto criticità a livello strutturale e sono profondamente radicate sulla disuguaglianza sociale ancora esistente fra uomini edonne in termini di potere, opportunità, rappresentazione simbolica e politica (Parolari, 2014, p.869).
La Convenzione di Istanbul, all’art. 3 lett. a), definisce ‘violenza nei confronti delle donne’ «unaviolazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni osofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o
economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che nella vita privata». In particolare, si precisa che l’espressione ‘violenza contro le donne basata sul genere’ designa, ex art. 3, lett. d), «qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato». Originale, nel senso che compare per la prima volta in un trattato internazionale (Parolari, 2014, p.868), è invece la ridefinizione di ‘genere’ come riferito a «a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini» (art. 3, lett. c).
Ebbene, dal combinato disposto degli articoli sopra citati, si evince che, ai sensi della Convenzione di Istanbul, per ‘violenza nei confronti delle donne’ devono intendersi gli atti di violenza fondati sul genere (art. 3, lett. a), i quali consistono in quegli atti di violenza che colpiscono le donne in misura sproporzionata o che sono diretti contro una donna in quanto tale (art.3, lett. d) – ossia, parrebbe di capire, contro una donna in forza dei ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini (art. 3, lett. c) (Poggi, 2017). Allo stesso tempo che viene utilizzata la violenza, vengono compromessi o vanificati tutti quei diritti e quelle libertà comunemente condivise e sostenute dai principi generali dei diritti internazionali o dalle convenzioni sui diritti umani. Le donne così molte volte si sentono e si vedono sottrarre:
- il diritto alla vita,
- il diritto a non essere sottoposto a tortura ne a pena o trattamenti crudeli, inumani o degradanti,
- il diritto alla libertà e alla sicurezza della propria persona,
- il diritto a una pari protezione da parte della legge,
- il diritto alla parità nella famiglia, il diritto al più alto livello possibile di salute fisica e mentale,
- il diritto a condizioni di lavoro giuste favorevoli.
ed evidenziare quanto questo fosse oggetto di mercificazione, ridotto a mero oggetto, con le telecamere che erano solite ad inquadrare determinati parti del corpo con “riprese che andavano dal basso verso l’alto” (Bandelli & Porcelli, 2016).
L’oggettivizzazione femminile del proprio corpo porta con sé conseguenze non di poco conto. Si arriva a dare molta più importanza, di quanto in realtà ne abbia, alle proprie forme, al proprio peso, preoccupandosi in modo eccessivo dell’aspetto esterno, che assorbe ingenti energie mentali. Ciò conduce le donne ad esperienze emozionali negative rivolte verso se stesse ed una riduzione della capacità di individuare i propri stati interni e di interpretarli in modo corretto. Il risultato finale è un’alta correlazione con disturbi alimentari, depressivi, abbassamento del livello di autostima, riduzione della partecipazione alla vita sociale, ecc. La violenza contro le donne è una questione innanzitutto maschile. Essa ricopre problematiche riguardanti il modo in cui la differenza tra le relazioni di genere è percepita. L’educazione quindi ad una mascolinità che non sia restrittiva, ma che riesca a convivere pacificamente con tutti quegli aspetti considerati femminili, come la mitezza e la cura, diventa una priorità per questa società. Si necessità di una mascolinità che non siaesclusivamente basata sulla competizione per raggiungere e per non sentire persa quella virilità che sfocia in violenza (Merli, 2015).
Sono state date alcune spiegazioni relative a questa virilità maschile. La prima, esistenzialista, afferma che la violenza maschile è, piuttosto, “il danno collaterale di una certa concezione della virilità basata, almeno a partire dai greci, con Eracle, sulla figura dell'eroe guerriero, un modello di virilità costruita attraverso una serie di narrazioni di gesta di violente conquiste territoriali, sessuali” (Merli, 2015).
Secondo la psicoanalista Hirigoyen (2006), invece essa deriva dall’aver appreso, fin da piccoli, che il genere maschile è quello forte, potente e con più valore, imparando, contrariamente, che il sesso femminile è tutto quello che non è maschile. In tal modo i maschi tengono lontano da se stessi quelle caratteristiche imparate come appartenenti all’altro sesso, risultando conseguentemente diffidenti verso le donne, sentendosi più potenti di esse. È come se gli uomini rigettassero quelle parti di sé rifiutate perché sentite come minacciose, attraverso la negazione e l’eliminazione progressiva. Questo accadrebbe per il fatto che queste caratteristiche rimosse sarebbero associate solamente alle donne o a uomini che deviano dai classici standard della virilità trasmessi culturalmente (Hirigoyen, 2006).
Affinché si possa riuscire a produrre un maggior benessere sociale, è sicuramente necessaria una prevenzione, intesa come educare, fin dalla prima età, i bambini a rispettare le differenze e le qualità appartenenti ai diversi sessi. Inoltre questo potrebbe essere anche inteso come un debito etico di cui le società si fanno carico, per ogni singola donna che ha conosciuto ed è entrata, purtroppo, in contatto con la violenza di genere (Bonura & Pirrone, 2016).
1.5 La violenza interpersonale trasmessa dai mediaProviamo a vedere anche come le donne vengono rappresentate dai media, come viene descritta la violenza nelle relazioni intime e come questi (i media) uniti all’industria culturale co-costituiscono i concetti di genere e di violenza. I media contribuiscono alla riproduzione di determinati modelli di genere e alla presentazione di vari stereotipi. Sul versante visuale associano ed affiancano spesso l’eroticizzazione della violenza alla sua anestetizzazione, una forma di normalizzazione attraverso la rimozione del dolore dal regime di visibilità: «La massima espressionedella femminilità è saper accettare la violenza, gli abusi e persino la morte rimanendo sexy ed eleganti» (Bassetti, 2020).
Una prima costruzione culturale potrebbe essere quella relativa all’amore romantico, rimandando al concetto di amore cavalleresco dell’800 (Goffman, 1977). Questo concetto rimanda all’ideale secondo il quale l’uomo cortese, protettivo e attivo nel corteggiare la donna, è contrapposto a quest’ultima descritta come passiva, fragile e bisognosa di aiuto. In sostanza era l’uomo che si faceva attrarre dalle donne, le quali invece avevano il compito di attrarre. Era quindi l’uomo che sceglieva e decideva a chi concedere la propria protezione, in modo tale che le donne si sarebbero dovute “comportare bene”, cioè aderendo alle norme di genere. Esse erano descritte come coloroche non nutrivano di una propria autonomia e concedevano il potere in mano agli uomini (Giomi & Magaraggia, 2017). I miti dell’amore romantico fanno sì che la violenza venga figurata come “manifestazione della passione amorosa”, mentre la sopportazione e l’accettazione della violenzasubita “come testimonianza di devozione”. Giomi (2017) afferma che nonostante la figura del gentiluomo borghese nasce in opposizione a quella del proletario violento – «uomini ‘buoni’ che ripudiano la loro innata predilezione per la violenza e uomini ‘cattivi’ che la assecondano», è anchevero
che l’ideale romantico garantisca un’eccezione: tutti gli uomini possono essere violenti laddove ciò origini dalla passione. Alla naturalizzata violenza maschile nella società, è affiancata dunque la sua romanticizzazione (Giomi & Magaraggia, 2017).
Questo purtroppo ancora oggi fa sì che venga subito un condizionamento culturale, il quale conduce molte persone a ritenere le violenze sferrate contro il sesso femminile come un “semplice” motivo di gelosia o passione. Ciò de responsabilizza colui che maltratta, arrivando a credere alla sua volontà di non volere far del male, nonostante magari sia da diversi mesi che picchia, maltratta o aggredisce la partner o ex partner poi uccisa. La violenza non può essere giustificata né con l’amore né con la passione. Ricordiamoci o pensiamo che la maggior parte delle volte, per ogni donna e per ogni madre che viene uccisa, può esserci la presenza di un figlio. Il bambino con che idea dell’amore crescerebbe se nel nome di esso è giustificato uccidere? Oltre ad aver perso la madre, deve vedersi convincere in maniera esplicita o larvata che quello che è accaduto è stato giusto e meritato (Giomi & Magaraggia, 2017).
- La colpevolizzazione della vittima (victim blaming)
Il termine “vittima” deriva da victima, sostantivo latino che indicava il fenomeno religiosodell’offerta sacrificale di un essere vivente, un animale o una persona umana.
Data la ricchezza etimologica, i significati a cui il termine rimanda sono molteplici: la vittima è, quindi, «non soltanto quella che è stata scelta e consacrata, ma anche allo stesso tempo la più preziosa, quella che viene colpita, quella che viene offerta agli dei per ‘appagarli’, ovvero per calmarli» (Kolakowski & Prescendi, 2011, p.24). La parola, inizialmente legata ad un concetto prettamente religioso, ha poi assunto un’accezione più profana, rimandando al concetto di colui al quale viene inflitta una pena o un’ingiustizia, e per tale motivo ne derivano varie sofferenze (Piras, 2021).
La vittima nella società contemporanea è caratterizzata da una duplice faccia della medaglia: da una parte essa viene protetta dalle istituzioni deputate a difenderla legislativamente, e dall’altra invece strumentalizzata dai mass media. Questi ultimi si appigliano e fanno leva sulle emozioni, enfatizzando empatia e compassione rappresentano la sofferenza, la estetizzano, la spettacolarizzano e la rendono un mero bene transitorio di consumo per lettori e spettatori (Piras, 2021). In tal modo, la vittima è costretta a ricoprire un altro ruolo, che viene percepito come controverso e disturbante,uscendo dal proprio anonimato, incarnando il “nuovo eroe” della società:
«posta sotto i riflettori dei media, [la vittima] si ritrova in prima pagina, come i campioni sportivi o le stelle del cinema. All’improvviso celebre, esce dalla massa per via della sua disgrazia, brillando di tutta la sua innocenza» (Eliacheff & Soulez Larivière, 2008, p.18; Benbassa, 2009). È attorno alla vittima che si sviluppa la politica della compassione, o la “politica della pietà” come la definisce Hannah Arendt (Arendt, 2006). La vittima dopo aver subito violenze e ingiustizie, richiede aiuto attraverso un pubblico riconoscimento, smascherando la propria condizione e riconoscendole un’azione ripartiva. In questo modo il problema che si presenta non sarà più solamente di carattere personale, ma diventerà di dominio sociale. Ciò fa sì che le persone hanno il dovere di schierarsi,dopo che la vittimizzazione (processo di “costruzione sociale” delle vittime), ha creato delle aspettative.
Succede spesso anche che la vittima possa perdere in parte o tutti i vantaggi, compresa anche la protezione, nel caso in cui essa non ricalchi le caratteristiche del classico modello della vittima ideale per la società. Si può giungere addirittura fino a conferirle la colpa o a farla divenire oggetto di riprovazione. Tutto questo per ciò che di sbagliato viene socialmente e culturalmente tramandato, o ridotto a ingiusti stereotipi. Attraverso questi contesti culturali e comunitari si giustificanoancora comportamenti
inaccettabili e azioni violente (Christie, 2004). Deve essere assolutamente rivalutata questa concezione, dato che oltre alle conseguenze dirette sui figli, sul proprio genitore o le persone a loro vicine, comporta anche un ingente costo sanitario e sociale sia per le vittime che per la società. L'indagine “Quanto costa il silenzio”, realizzata da Intervita ONLUS nel 2013, ha permesso di stimare in quasi 17 miliardi di euro il costo economico della violenza contro le donne in Italia, di cui: 460,4 milioni di euro per i costi sanitari (pronto soccorso, cure specialistiche, ospedalizzazione, ecc.); 44,5 milioni di euro per i farmaci; 421,3 milioni di euro per i costi giudiziari; 289,9 milioni di euro per l'assistenza legale; 158,7 milioni di euro per l'assistenza psicologica; 154,6 milioni di euro per i servizi sociali; 7,8 milioni di euro per l'attività dei centri antiviolenza. Il costo stimato per la mancata produttività è di 604,1 milioni di euro. Il danno sociale ed esistenziale è stato quantificato in 14,3 miliardi di euro (Intervita Onlus, 2013). Nel rispetto delle proprie vittime e per la creazione di contesti comunitari liberi dalla violenza, sono necessari leggi, norme e valori che la contrastino attivamente e fermamente, asserendola come illegittima e irresponsabile (D’Agostini, 2016).
Miranda Fricker identifica la colpevolizzazione della vittima con un altro fenomeno da lei chiamato “Ingiustizia epistemica”. Quest’ultima forma di ingiustizia la suddivide a sua volta in altre due forme: l’ingiustizia testimoniale e l’ingiustizia ermeneutica (Fricker, 2007). La prima fa riferimento all’identità di una persona, dove a causa dei pregiudizi e degli stereotipi ad essa associati, minano la sua credibilità non ritenendo attendibile e affidabile la propria testimonianza. La seconda ingiustizia invece riguarda quelle persone che nonostante subiscano tali esperienzeviolente, non riescono a dargli il giusto significato e quindi non denunciano. Questa mancanza dipende dalla propria cultura di riferimento e deriva dal fatto che tali individui non ne abbiano una piena consapevolezza. Un esempio calzante per entrambi i tipi di ingiustizia è facilmente riscontrabile in due scene tratte dal film The Help, diretto da Tate Taylor, del 2011 e ambientato negli Stati Uniti nel 1963. Aibileen Clark era una delle donne di servizio protagoniste del film che,afroamericana, viene accusata in modo ingiusto di aver rubato tre posate di argento dalla casa in cui presta il proprio servizio. Aibileen cerca di difendersi da questa falsa accusa, fornendo una giustificazione più che plausibile, ma, nonostante ciò, la padrona di casa, una donna con la pelle bianca, decide ugualmente di licenziarla. Questo è ciò che potrebbe accadere quando si trattadi ingiustizia
testimoniale (Piras, 2021). Mentre ciò che si potrebbe dire a proposito dell’ingiustizia ermeneutica, è riscontrabile con Minny Jackson, un’altra donna di servizio anche lei afroamericana. Ella si ritrova invece vittima di abusi e violenze subite da parte del marito, ma non avendo una chiara e giusta percezione di ciò che subisce, non lo denuncia, non giungendo così a vivere una vita migliore. La sua incapacità di comprensione deriva dalla convinzione che sia naturale dover sopportare le violenze da parte delle donne (Fricker, 2007).
È presente un’asimmetria tra le ingiustizie a livello strutturale del potere sistemico, e questi esempi ne sono una dimostrazione. Questo è dimostrato dal fatto che, se anche all’interno della stessa società, alcune persone detengono maggiore credibilità di altre, indipendentemente da quanto succede, ma semplicemente in relazione ad una determinata identità (Fricker, 2007). Molte volte queste tipologie di ingiustizie hanno un’importanza cruciale durante la fase investigativa, nella copertura mediatica e nella ricezione della notizia o dell’evento da parte dell’opinione pubblica, chesi forma già dei pregiudizi e stereotipi negativi indipendentemente dall’accaduto («negative identity- prejudicial stereotypes»). Questi ultimi sono vivamente presenti anche per ciò che riguarda la violenza di genere, che insieme ad una distorsione epistemica si trovano profondamente radicati nella società a carattere prettamente patriarcale entro la quale viviamo. Un problema ulteriore si ha quando questi giudizi e pregiudizi si trovano in presenza di processi penali, limitando così l’imparzialità del giudizio. La soluzione secondo Fricker sarebbe quella di sviluppare una virtù epistemica chiamata: “giustizia testimoniale”. Attraverso di essa le persone che si trovano a dover giudicare lo faranno in modo imparziale, riconoscendo e correggendo i propri pregiudizi relativi all’identità di chi rende testimonianza (Fricker, 2007).
Questa ingiustizia testimoniale rimanda anche ad un altro fenomeno molto grave e purtroppo diffuso: il concetto della cosiddetta “cultura dello stupro” (Brownmiller, 1976; Manne, 2018, Harding, 2015). In questa espressione vengono convogliati tutti quei miti diffusi ampiamente nelle società o teorie implicite che giustificano o tollerano lo stupro (o la violenza di genere in generale). Solitamente sono teorie che possono essere riscontrate tra gli autori e colpevoli di tali violenze, in pratiche culturali o in persone arretrare a livello mentale. (Polaschek & Gannon, 2004). Secondo la giudice Paola Di Nicola, la violenza sessuale «è l’unico delitto che, in tutto il mondo, ha come
principale sospettata la vittima» (Di Nicola, 2018, p.111); ciò dipende dal fatto che pregiudizi e stereotipi riguardo alla violenza di genere sono «condivisi dal contesto sociale e culturale» e «passano attraverso le domande e le risposte della vicenda, senza che nessuno se ne accorga» (Di Nicola, 2018, p.111). Le donne o ragazze vittime di violenza di genere è come se partissero già svantaggiate fin dal processo iniziale. Quando denunciano le violenze subite, dovranno affrontare oltre ai problemi psichici e fisici conseguenti al trauma, anche i vari pregiudizi generalizzati relativi alla scarsa credibilità che nutrono nei suoi confronti. Questo è uno dei motivi per i quale numerose donne decidono di non sporgere neppure denuncia, accompagnate dalla mancanza di fiducia nutrita nei confronti del sistema giudiziario (Piras, 2021).
Molte volte le donne che non ricalcano il prototipo di vittima ideale vengono guardate con diffidenza e si trovano a doversi giustificare per ogni loro comportamento. Deviando cosìl’attenzione dalla persona che compie la violenza, alla vittima, rischiando di nutrire diffidenza nei suoi confronti, ma mostrando comprensione per l’imputato (Di Nicola, 2018). Un esempio di come ciò potrebbe accadere ce lo riporta P. D. James all’interno del suo romanzo “Una certa giustizia”, attraverso un’illustrazione dell’immagine di una vittima emersa durante un processo. James descrive sia come la vittima viene percepita dai giurati a livello psico-sociale, sia le riflessioni che l’avvocato della difesa, Venetia Aldridge, fa tra sé e sé: «sapeva di avere già in partenza un grande vantaggio: la vittima non suscitava un’istintiva simpatia. Mostrate a una giuria le foto del cadavere violentato di un bimbo, fragile come un uccellino, e un’atavica voce interiore sussurrerà inevitabilmente: “Qualcuno deve pagare”. Ma quelle crude fotografie della vittima suscitavano più disgusto che pietà. La sua reputazione era stata totalmente distrutta. [...] Rita O’Keefe era stata un’ubriacona dicinquantacinque anni, di aspetto sgradevole e d’indole litigiosa, con una voglia insaziabile di gin e di sesso. Quattro dei giurati erano giovani, due di loro avevano da poco superato l’età minima richiesta. E i giovani non sono mai indulgenti con la vecchiaia e la bruttezza. Le loro silenziose vociinteriori sussurravano un messaggio molto diverso: “Ha avuto quello che meritava”» (James, 1999).
Oltre ad atteggiamenti che cercano di colpevolizzare la vittima, possono subentrare ulteriori meccanismi come lo screditamento e la ridicolizzazione della vittima, e la minimizzazionedell’episodio di violenza. Queste dinamiche vengono utilizzate in
articolare modo dagli avvocati difensori dell’imputato, rafforzando gli squilibri di potere esistenti nella società. Gli effetti che derivano da queste dinamiche possono essere espressi direttamente, influenzando i processi, oppure in modo indiretto, facendo sì che le donne non espongano denuncia contro le violenze subite (Di Nicola, 2018).
Come Venetia Aldridge sa benissimo, la tendenza a colpevolizzare la vittima è «solo un frammento di una configurazione più ampia, un intero “linguaggio” o un modo di pensare»; «lo spostamento di responsabilità implicito [...] non è solo una mossa argomentativa, è anche uno stile di discorso e una visione della realtà corrispondente a un ben preciso atteggiamento intellettuale» (James, 1999). Viene spesso usata anche l’espressione “asked for it idiom”, soprattutto dalle attiviste femministe, per riferirsi e denunciare la violenza di genere e i casi di stupro. In particolare, con questa locuzione verbale, denunciano “la mentalità colpevolizzante e misogina” che fa sempre più parte dell’opinione pubblica. (Harding, 2015). Considerando questo punto di vista, si parla spesso di violenza intesa come una comunicazione imperfetta (miscommunication). Viene definita come “un’improvvisa se non irresponsabile manifestazione di consenso, o di qualcosa che è stato frainteso e interpretato come consenso”. Questa percezione delle cose fa sì che l’accusato, colui che offende la vittima (offender), avrebbe agito non con la volontà di recare danno, ma sulla base di un equivoco. Ne consegue una de responsabilizzazione, da parte dell’accusato, della propria colpa fondata così su una frettolosa e superficiale incapacità di aver male interpretato il consenso della vittima. Kate Manne chiama questo genere di letture himpathy o androfilia, vale a dire
«l’immagine speculare, spesso sottovalutata, della misoginia». Inoltre l’atteggiamento che viene mostrato verso gli autori di tali crimini, sempre secondo la studiosa, sono caratterizzati da simpatie che non dovrebbero meritarsi (Manne, 2018). Un caso recente successo negli Stati Uniti, a Hollywood, mostra come l’opinione pubblica e i media attribuissero molta più credibilità ai presunti stupratori, rispetto alle vittime, in quanto essi non ricalcavano lo stereotipo del mostro stupratore, ma anzi era caratterizzati da qualità gradite come uomini di successo, brillanti, belli e ricchi. Anche in questo caso si può parlare di ingiustizia testimoniale, non rivolta verso la vittima, ma verso l’aggressore, riguardanti l’identità dello stupratore-tipo (Manne, 2018).
Manne è fermamente convinta che sia necessario riconoscere la misoginia presente nelle società(banalità della misoginia) e modificare l’idea socialmente formatesi dello
“stupratore-mostro”. Come già sostenuto anche da Hannah Arendt, non sempre una persona che si macchia di questi crimini deve necessariamente ricoprire l’immagine stereotipizzata a lei riservata. Il “mostro” potrebbe apparire tranquillamente anche come “una persona ordinaria, o anche insulsa” (Manne, 2018). L’himpathy può condurre le persone verso la ricerca di giustificazioni riguardo comportamenti e attitudini che fanno parte della violenza di genere (Piras, 2021).
La psicologia sociale ha studiato anche un altro fenomeno molto diffuso: il disimpegno morale, attraverso l’utilizzo della colpevolizzazione della vittima (Bandura, 2016). In questo meccanismo il fautore della violenza, affinché non venga distrutta la propria autostima, si libera scindendosi dai sentimenti di autocondanna, attraverso otto diversi dispositivi cognitivi socialmente appresi e costruiti (giustificazione morale, etichettamento eufemistico, confronto vantaggioso, dislocazione della responsabilità, diffusione della responsabilità, distorsione delle conseguenze, disumanizzazione della vittima, colpevolizzazione della vittima). Tutti questi meccanismi vengonoattuati con lo scopo di sentirsi persone migliori, in modo tale che riescano a convivere con la propria crudeltà e giustificare quanto accaduto. Esistono tuttavia diversi miti (rape myths), luoghi comuni e false credenze rispetto agli atti violenti che vengono messi in atto contro le donne. Un primo esempio riguardante questi casi è la falsa convinzione che se il sesso avviene entro una coppia non si tratta mai di stupro; oppure l’idea fasulla secondo cui le donne mentirebbero circa la loro voglia di fare sesso; fino ad arrivare al mito dell’incontentabilità del desiderio maschile (Bandura, 2016). Se l’atteggiamento di colpevolizzazione, diffuso tra le persone vicine alla vittima, tra i familiari o gli amici, fino alla presenza anche negli ambienti più prossimi o in tribunale, la vittima potrebbero subire questi eventi e viverli come una seconda vittimizzazione (o revittimizzazione) (Moor, 2007). Le conseguenze che potrebbe subire sono sia a livello psicologico che fisico, con conseguente perdita di autostima conseguente all’ingiustizia epistemica. Potrebbe provare un persistente senso di vergogna per l’accaduto e sviluppare un disturbo da stress post-traumatico, associati ad una auto-svalutazione o ad una auto- colpevolizzazione (Cavarero, 2007).
Quindi possiamo dire che se questi miti vengono utilizzati dai fautori delle violenze con lo scopo di cercare di salvarsi la propria reputazione e la propria identità, hanno delle conseguenzeenormemente critiche per coloro che subiscono le violenze. Queste
ultime possono essere emarginate dalla propria società e relegate in una posizione isolata traingiustizie testimoniali e auto-colpevolizzazione, negando loro anche il diritto di ottenere giustizia. In particolar modo questo può avere un maggior impatto su tutte quelle vittime potenziali che non vengono considerate come vittime ideali, ovvero tutte quelle persone che non si conformano ai modelli di femminilità mainstream (Piras, 2021).
1.7 Vittime: concettualizzazione e ripoliticizzazione della vittima, e processi di vittimizzazioneIris Marion Young sostiene che l’oppressione, caratterizzata da molteplici processi sociali, abbia almeno cinque dimensioni o facce distinte: sfruttamento, marginalizzazione, mancanza di potere, imperialismo culturale e violenza (Stringer, 2014). I gruppi di donne o di potenziali vittime, esposte a violenza epistemica, colpevolizzazione della vittima e violenza di genere, sono esposte in modo sincrono a queste cinque facce dell’oppressione. Pierre Bourdieu l’ha chiamata “violenza simbolica”, la quale trova la propria funzione non solamente attraverso la violenza fisica, ma anche attraverso “una serie di habitus”, vale a dire schemi mentali e comportamentali, «matrici delle percezioni, dei pensieri e delle azioni di tutti i membri della società, come trascendentali storici che, in quanto universalmente condivisi, si impongono a ogni agente come trascendenti» (Bourdieu, 2017).
Nonostante si possano sensibilizzare le persone riguardo alla presenza di tali problemi, esso non sarà sufficiente finché non saranno trovati e attuati rimedi strutturali con il fine di sviluppare una forma di giustizia epistemica. Questa giustizia dovrebbe concedere una credibilità egualitaria a tutte le persone, prescindendo da gruppi sociali ai quali appartengono. Le vittime devono sentirsi protette e non ulteriormente accusate, devono poter avere a disposizione una serie di servizi completi, utili e a lungo termine, integrando aiuti medici, legali e sociali nel caso in cui la vittima ne avesse bisogno (Anderson, 2012).
1.8 La costruzione del “mostro” e la deumanizzazioneRitornando un attimo al discorso della narrazione mediatica, i femminicidi (di cui ne parleremosuccessivamente), termine con cui si identifica l’uccisione o la sparizione di
una donna a causa del suo genere di appartenenza, del suo essere donna, per motivi di odio, disprezzo, piacere o senso del possesso, è relegata in genere alla cronaca nera e a un modo morboso di riportare le notizie. I sistemi mediatici, quando si tratta di queste tipologie di delitti, incentrano la propria attenzione sulla “morbosità e la spettacolarizzazione del dolore”, enfatizzando informazioni che potrebbero essere racchiuse all’interno della “pornografia del dolore”: “una sorta di grottesca e bulimica euforia consumistica, dove si ostenta il dolore, dove la sofferenza è un indegno e miserabile spettacolo” (Calabrese, 2020).
Viene attribuito troppo spesso molta importanza alle presunte ragioni dell’assassino, al fatto che avesse agito per gelosia, che non avesse sopportato la perdita, che abbia tentato di mediare la situazione e al momento della negazione fosse scattato il “raptus”. La narrazione mediatica concentra l’attenzione sui dettagli macabri e colpevolizza le vittime. Nonostante tutto il frastuonoche genera l’accaduto, non si approfondisce mai la violenza maschile contro le donne, preferendo sempre rimanere ad un livello superficiale. I racconti fanno sempre riferimento al fatto che la vittima “se l’è cercata”, oppure che la loro idiozia non le avesse fatte allontanare. Quello che molte volte non viene detto è che ciò succede proprio quando le vittime se ne stanno andando, succede quando decidono di interrompere la relazione o hanno deciso di denunciare, nel caso non l’avessero già fatto. Gli assassini hanno deumanizzato le donne e le persone che hanno subito le violenze, e lo stesso trattamento di deumanizzazione, anche se in modo diverso, è rivolto da parte dell’opinione pubblica verso questi individui visti come mostri. Questa deumanizzazione è utilizzata dall’opinione pubblica per instaurare un distanziamento emotivo in grado di poter tenere al sicuro le proprie coscienze. “Noi non c’entriamo niente e possiamo goderci lo spettacolo in TV sprofondati nelle nostre comode poltrone” (Calabrese, 2020).
Il concetto di deumanizzazione, introdotto da Chiara Volpato, riguarda la negazione dell’umanità dell’altro – individuo o gruppo – che introduce un’asimmetria tra chi gode le tipiche qualità umane e chi ne è privato, o considerato carente (Volpato, 2016). Questo termine si riferisce alla sottrazione della propria umanità e alla svalutazione della persona offesa, riuscendo ad essere flessibile e adattabile ad ogni contesto culturale. La deumanizzazione si trova alla base di discriminazioni, violenze e massacri. Deumanizzare vuol dire “avere un’idea, implicita o esplicita, delle qualità chevengono
negate, avere quindi un’idea dell’umano e dell’essenza che gli si attribuisce” (Volpato, 2016). Attraverso la deumanizzazione, le persone vengono private delle due caratteristiche principali che rendono gli uomini tali:
- l’identità: intendiamo tutte quelle caratteristiche che rendono una persona autonoma, indipendente, capace di agire, di prendere scelte e avere dei diritti;
Privare le persone di queste due componenti fondamentali per la propria vita, le rende trattabili come oggetti o usate come mezzo per scopi altrui. Non vengono più considerati come umani, ma come oggetti subumani (Calabrese, 2020).
La violenza di genere, che vede il suo apice nel conseguimento del femminicidio, vede nei fattori culturali una sostanziosa base per il proprio compimento. Già dall’uso che i media fanno delle immagini stereotipiche del corpo femminile utilizzate per fini commerciali, è possibile individuare quanto siano presenti problemi culturali. Il corpo della donna viene meramente mercificato, conducendo ad una visione completamente distorta del sesso femminile, ridotto solamente ad un corpo, non alla persona che sta davanti a noi. Chiara Volpato ci ricorda come “il diniego sia una parte costituiva dell’atrocità: prima si uccidono le persone, poi si uccide o si cerca di uccidere la memoria di quanto accaduto” (Volpato, 2016). Compagni, mariti e uomini che uccidono proclamando di averlo fatto per amore, sono e resteranno solamente degli assassini.
Per quanto riguarda le possibili difese che le vittime potrebbero mettere in atto, una delle più estreme è quella dell’identificazione con l’aggressore. In questo caso la vittima, costretta dal dominio percepito del potere evidente e incontrollato del compagno, si sottomette alla volontà dell’aggressore. La paura che la vittima percepisce è talmente elevata, che le impedisce di mettere in atto né una difesa né una reazione di rifiuto, preferendo rinunciare a sé e alle proprie libertà, in cambio della sopravvivenza. La vittima riesce a percepire ciò che l’aggressore sente da una parte e ciò che l’aggressore vuole che la vittima senta dall’altra. In questo modo la vittima riesce ad anticipare le azioni future e imminenti, riducendone la gravità della portata e aumentando le probabilità di sopravvivenza (Ferenczi, 1932). Il processo quindi alla base di questo meccanismo di difesa è quello della dissociazione. La vittima svuota la propria mente per far entrare lapercezione dell’aggressore, in modo tale che le
esperienze che successivamente vivrà saranno percepite attraverso uno stato oniroide. Ciò fa sì che l’esperienza di maltrattamento, di abuso e di violenza sia come se venisse vista dall’esterno, simile ad uno stato crepuscolare onirico meno accentuato. La conclusione di questo evento traumatico è la negazione, perché attraverso l’innesco di queste difese, la vittima arriva fino alla negazione della realtà (Calabrese, 2020). Il distanziamento dalle violenze e i tentativi di dimenticare ciò che viene subito, hanno lo scopo di mantenere buoni rapporti con gli aggressori e il cercare di assicurarsi lapropria sopravvivenza. Molte volte succede anche che la vittima si senta innocente e colpevole al tempo stesso, finendo per perdere fiducia nelle proprie percezioni e avendo un offuscamento della realtà.
Quando la violenza non sfocia in gesti che provochino l’uccisione della donna, le conseguenze che questi comportano sono comunque importanti e gravi, come ad esempio il disturbo da stress post traumatico. Le vittime possono manifestare inoltre anche due particolari tipologie di sintomi conseguenti a maltrattamenti: la “sindrome di Stoccolma domestica” e la “sindrome della donna maltrattata” (Reale, 2011).
Nella prima la donna si ritrova ad idolatrare il compagno o marito affinché possa garantire una protezione per se stessa e per i figli. In questa condizione psicologica appartenente alle donne maltrattate, esse attuano una modalità di adattamento cercando di tenere sotto il proprio controllo l’ambiente in cui vivono.
Mentre nella seconda, simile alla prima, le fasi che la donna vive, all’interno di un ciclo di violenza, possono essere suddivise in tre: accumulo della tensione, aggressione e percorse, e infine amore vero e proprio. In quest’ultima fase, la donna è vittima dell’illusione che l’uomo al suo fianco possa in qualche modo cambiare, smettendo di essere violento nei suoi confronti, amplificando così il disagio in lei (Walker, 1979; Walker, 1994; Walker, 2007).
All’interno delle dinamiche di violenze e maltrattamenti subiti dal sesso femminile, come violenza psicologica, denigrazioni, isolamento, intimidazioni, limitazioni economiche e controllo dei comportamenti, emerge un’altra problematica: il gaslighting funzionale all'assoggettamento mentale all'interno di una relazione di potere. La manipolazione che il partner abusante utilizza nei confronti della vittima, causa notevoli insidiosi problemi fisici e psichici, avendo probabilità di alterare anche il funzionamento mentale (Iaccarino, 2019).
Lenore Walker, psicoterapeuta Newyorkese, spiega come la violenza crei nelle vittime un sentimento di dipendenza fisica e psicologica, facendo sì che le vittime generino e mettano in pratica meccanismi di autodifesa. Le conseguenze che ne derivano possono dipendere dal tessuto personale e psichico della vittima e da quello socioculturale nella quale essa risiede (Walker, 1979; Walker, 1994; Walker, 2007).
Guardiamo se a livelli alti di uguaglianza corrispondono livelli elevati di violenza e viceversa, o se invece la prima riduce la seconda. Dai risultati ottenuti, attraverso l’indagine comparativa portata a termine nel 2012 dall’Agenzia Europea per i Diritti Fondamentali (Fundamental Rights Agency o FRA) riguardanti tutti i Paesi dell’Unione Europea, si può vedere quanto non sia veritiero il pensiero secondo il quale l’uguaglianza possa limitare e frenare la violenza. Infatti, la ricerca evidenzia come, nel periodo di riferimento, i Paesi nordici riportino un’elevatissima percentuale di donne vittime di almeno un episodio di violenza. Questi dati sono sorprendenti poiché tali Paesi sono sempre stati in vetta alle classifiche per quanto concerne l’uguaglianza di genere (Gracia & Merlo 2016).
È solamente all’inizio degli anni Sessanta del Novecento che si inizia a riconoscere il problema della violenza di genere contro le donne e la sua stretta connessione con la disparità dei generi. Nasce proprio in questi anni, in USA, l’espressione “violenza sulle donne”. Questo problema di diseguaglianza di genere a discapito delle donne è fondato sulla società prettamente patriarcale formatasi nel corso della storia. Con riferimento ai contributi sulla violenza da partner, già dai primi anni Settanta il sociologo Goode (1971), ispirato a sua volta dalla resource theory di Blood e Wolfe (1960), propose l’idea secondo cui gli uomini, all’intero della propria relazione di coppia, gestissero molte più risorse della compagna o della moglie. Quando questa gestione, sia della forza fisica, sia di risorse materiali, non riusciva a piegare le donne di fronte ai propri obiettivi, veniva utilizzata anche la violenza. Secondo Goode quindi il potere negoziale della donna sarebbe limitato dalle minori opportunità economiche e dai vincoli che le vengono imposti. Conseguentemente la donna si troverebbe in difficoltà nel difendersi dalla violenza che si consuma all’interno delle proprie mura di casa o dalle relazioni violente che la coinvolgono (Harway & Hansen, 2004).
Un’altra ipotesi femminista di impronta sociologica fa riferimento al fatto che la violenzadomestica non derivi tanto dall’ammontare delle risorse da parte di uno o
dell’altro, ma dalla disparità di risorse presente tra i due. Sono state osservate anche la frequenza delle molestie sessuali che rappresentano il tipo di violenza più diffusa fuori dalle mura domestiche.I dati e gli studi disponibili evidenziano quanto le molestie siano sempre più presenti sul luogo di lavoro e più facilmente tollerate quando il contesto lavorativo è prettamente maschile, ma soprattutto quando ci riferiamo alla cultura maschile dello specifico luogo di lavoro (Beneit, Escribano, & Garcia, 2019). In particolare, per citare alcuni esempi, la letteratura fa riferimento a quei lavori come l’esercito o le miniere (Ilies, Hauserman, Schwochau, & Stibal, 2003). Altre situazioni in cui si vengono a verificare le molestie sono quelle relazioni fortemente basate sulla gerarchia maschile, dove appunto l’uomo ricopre la posizione di cui che domina (McDonald, 2012; Commissione Europea, 1998). Ciò si potrebbe verificare, ad esempio, tra le donne che si trovano ad essere disoccupate o con un’occupazione precaria (Istat, 2018; McDonald, 2012), ma potrebbe verificarsi anche tra donne che hanno un’alta scolarizzazione o un’autorevole posizione lavorativa (FRA, 2014; Bates, 2018). Più che denunciare, le donne vittime di molestie, la maggior parte delle volte preferiscono reagire ad esse cambiando lavoro (McLaughlin, Uggen & Blackstone; Istat, 2018). È stato visto come una donna lavoratrice ha meno probabilità di subire violenze psicologiche all’interno della propria relazione intima, poiché lavorando è sia più indipendente, sia contribuisce maggiormente all’allontanamento del rischio di povertà. Povertà e violenza domestica nutrono di una forte associazione. Mentre guardando la discrepanza di stipendi, si è visto che le donne che guadagnano maggiormente sono associate ad una maggiore probabilità di subire violenze fisiche e sessuali, rispetto a coloro che percepiscono uno stipendio minore. Se invece lo stipendio della donna è maggiore rispetto a quello del suo partner, in questo caso la probabilità di subire violenze sessuali o fisiche risulta maggiore. Per quanto riguarda invece il livello di istruzione in relazione alle violenze e alle molestie subite dal proprio partner, questo risulta più probabile quando il livello di istruzione è basso (Bettio & Ticci, 2017).
Quindi avere un lavoro per le donne risulta essere un elemento importante per uscire da relazioni violente e avere una propria autonomia.
1.9 Statistiche sulla violenza: uno sguardo ai numeri della violenzaSecondo i dati riportati dall’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il 35%
delle donne di tutto il mondo ha riferito di essere stata vittima di almeno una forma di violenza da parte di un uomo. Questo vuol dire che più di 1 donna su 3 ha subito queste violenze (World Health Organization, 2021).
Rashida Manjoo, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, ha affermato che la violenza domestica risulta essere la forma di violenza più persuasiva e diffusa che continua a colpire tutto il mondo, con dati statistici che indicano la sua presenza dal 70% all’87% dei casi.
In Italia: sono circa 14.000 le donne che ogni anno si rivolgono ai centri antiviolenza italiani; nel2014 sono stati in 16.678, con circa 13.000 nuovi casi. 7 su 10 sono cittadini italiani, così come italiani sono la maggioranza gli aggressori (72%) (D.i.Re, 2014). L’Istat, attraverso una propriaricerca in Italia risalente al 2016, evidenzia come il 31,5% delle donne italiane abbia subito una qualsiasi forma di violenza di genere. Risulta così che le donne colpite da violenze sessuali o fisiche da parte di un uomo sono precisamente 6.788.000. ricordandoci che questi dati fanno riferimento alle donne che hanno avuto la forza di denunciare l’accaduto, poiché la maggior parte delle volte, ovvero 9 volte su 10, il crimine non viene denunciato. Un ulteriore precisazione riguarda il fatto secondo cui il 10,6% delle donne che ha subito violenza sessuale aveva un’età inferiore ai 16 anni (Istat, 2007; Istat, 2015). Nonostante l’omicidio sia in diminuzione rispetto agli anni precedenti, ifenomeni come il femminicidio e la violenza contro le donne sono, purtroppo, in costante aumento. Dai dati provenienti dell’osservatorio Eures del 2017, si osserva che sono 142 le donne che sono state uccise, registrando così un incremento del 0,7% rispetto all’anno precedente. Di queste 142 vittime 119 sono state uccise all’interno del proprio nucleo familiare, affermando che “gelosia” e “possesso” fossero alla base di più di un terzo delle uccisioni. Inoltre l’Eures ha evidenziato come lo stalking e i maltrattamenti in famiglia, siano entrambi in aumento rispettivamente del 4,4% e dell’11,7%. L’unico dato che ha subito un incremento, per quanto positivo possa essere inteso, sono le denunce per le violenze sessuali, che registrano un +5,4% (Eures, 2017). Lewandowski e colleghi (2004) hanno stimato che i casi di tentato femminicidio sono ben il triplo dei casi di omicidio.
Un ulteriore ricerca è stata condotta dal Dipartimento di psicologia dell'Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, la quale ha analizzato più di 300 fascicoli giudiziari e sentenzedi condanna di questi omicidi. Essi evidenziano quanto sia
estremamente diffuso l’utilizzo del movente della gelosia, indicato come passionale dai giudici. Tale categoria però non ha un’esistenza né a livello giuridico, né a livello psichiatrico. Si tratta piuttosto di omicidi dettati dal possesso e dal controllo sulla vittima e dal fatto di considerare la donna comeun “oggetto alla propria mercè”. Il costo che la donna si ritrova a dover pagare, per cercare di sottrarsi a questi attaccamenti morbosi dell’uomo e al concetto di passività, molte volte, coincide con la perdita della propria vita (Baldry & Ferraro, 2010).
Di fronte a questi dati sconcertanti non si può parlare né di emergenza né di retorica. Riconducibile alla società maschilista, patriarcale e fondata ancora eccessivamente su discriminazioni a scapito del sesso femminile (considerato il “secondo sesso”), queste violenze non possono più passare inosservate o nell’indifferenza. Queste strutture devono necessariamente essere smontate alla base, le relazioni famigliari non devono essere sbilanciate e non può esistere ancora la mancata uguaglianza di diritti e la reale libertà per le donne nel XXI secolo. La soluzione non risiede nell’aumentare le pene o agire attraverso la castrazione chimica, ma andando a sradicare ciò che questa società, nel corso del tempo, ha creato (Valente, 2019).
Considerando la Convenzione di Istanbul che si propone di “proteggere le donne da ogni forma di violenza e prevenire, perseguire ed eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica” e le relative “quattro P” (Prevenzione, Protezione, Procedimento contro i colpevoli e Politiche integrate), il nostro Paese non è rimasto fermo a guardare, ma ha fatto passi in avanti. Sono passi indirizzati verso i cittadini e verso le persone vittime di violenza, cercando di fornire protezione e cercando di combattere i reati. Per quanto riguarda invece la prevenzione e le politiche integrate, la strada è ancora lunga e devono essere spesi maggiori sforzi per tali fini.
Quindi risulta necessario che queste problematiche vengano affrontate il prima possibile affinchépossa essere garantito che tutte le donne possano godere di pari diritti, essere protette nei casi in cui si verificassero violenze e guadagnare credibilità nei casi in cui decidono di denunciare. È un processo “indispensabile per il benessere e lo sviluppo di tutta la società italiana, non solo della sua componente femminile”. Il percorso di crescita deve partire dagli insegnamenti delle scuole della prima infanzia, padroneggiare un linguaggio diverso e un utilizzo migliore e più accreditato dei media e mass media. Necessitiamo di una migliore formazione degli operatori che entreranno in
contatto con la violenza e una più approfondita ricerca. Questi sono sicuramente dei buoni punti di partenza per movimentare una rivoluzione di questa società e di queste crudeli ingiustizie (Valente, 2019).
2. IL FEMMINICIDIO E GLI ORFANI SPECIALI2.1 Definizioni etimologiche dei termini femicidio, femmicidio e femminicidio. Considerazioni sul concetto di genereÈ doveroso, quando parliamo di femminicidio, illustrare e chiarire inizialmente l’uso di tre vocaboli molto simili tra loro, anche se diversi in termini di utilizzo. È possibile riscontrare in letteratura tre termini diversi: femicidio, femmicidio e femminicidio (Spinelli, 2011, p.125). Le possibili distinzioni possono aversi per significato politico, avendo appunto origini e connotazioni diverse, ma possono anche racchiudere una differente modalità di approccio allo studio.
Fu nel 1801, nel libro satirico A Satirical View of London at the Commencement of the Nineteenth Century, che per la prima volta è stato utilizzato il termine femicide per indicare l’uccisione di una donna in modo generico (Corry, 1801). Nel 1976, con la criminologa femminista Diana H. Russell questo termine giunge al First International Tribunal on Crimes Against Woman, organizzato a Bruxelles. Anche se è il 1992 l’anno in cui, Diana H. Russel, insieme a Jill Radford, utilizzano il termine femicide nella loro opera “Femicide The Politics of Women Killing” per descrivere “l'uccisione misogina di donne da parte di uomini” (Radford & Russell, 1992, p.3).
Con questo termine si descrive la dimensione e la relazione violenta come principale causa di morte e uccisione sessista di una donna, la quale deriva conseguentemente a pratiche sociali misogine. Si intende quindi l’uccisione di una donna perché donna, vittima di disparità di ruoli e oppressa per la mancanza di diritti (Corradi, Marcuello- Servòs, Boira, & Weil, 2016).
Il femmicidio ci parla anche esso della natura del delitto di genere, specificando che tale fenomeno è anche un fatto che appartiene alla sfera della socialità, contestualizzato e delineato dalla cultura di riferimento.
2.2 Definizione di femminicidio e originiIl femminicidio invece viene da subito inteso quale categoria generale della violenza contro ledonne, estendendosi a qualsiasi forma di violenza di genere volta ad annientare la soggettività femminile dal punto di vista fisico, psicologico, simbolico ed economico. Le novità checaratterizzano il termine “femminicidio” fanno riferimento all’accezione
più ampia che viene data al suo significato. Questo include ulteriormente tutti quegli atti e queicomportamenti aggressivi che minacciano la libertà, lo sviluppo e l’integrità della donna, determinandone “l'assoggettamento, l'annientamento fisico e psicologico, senza causarne necessariamente la morte” (Russell, 1992). Ci riferiamo al femminicidio tutte quelle volte in cui “la donna subisca violenza fisica o psicologica, economica, sociale o religiosa, in famiglia e fuori, quando, cioè, non riesce ad esercitare “i diritti fondamentali dell’uomo", perché donna, ovvero in ragione del suo genere o anche a causa dell'abuso di potere volto cioè ad ottenere il totale annullamento del femminile” (Spinelli, 2008). Come abbiamo più volte ripetuto, queste violenze sono fondate su una società patriarcale e misogina, dove il ruolo della donna viene considerato inferiore e dove la vita di una donna può essere estinta se la supremazia maschile viene percepita come messa in discussione (Russell, 1992). Il femminicidio può essere considerato come una forma di espressione del controllo maschile su quello femminile, attraverso condotte basate sulla diseguaglianza di genere (Baldry, 2016). Iniziare tuttavia a chiamare con il proprio nome quegli omicidi misogini e commessi nei confronti delle donne perché appartengono al genere di donna, ha permesso di ridurre la vasta generalizzazione presente fino a quel momento, comprendendo tutto ilsubstrato sociale, culturale e psicosociale sotteso ad essi. I termini femminicidio e femicidio nascono appunto per rendere visibili e conoscibili tutti quegli omicidi commessi volontariamente nei confronti delle donne (Spinelli, 2011).
Derivante dallo spagnolo (feminicidio), il termine femminicidio trova in Marcela Lagarde il proprio ampliamento a significati specifici e molto più estesi, appartenenti all’oppressione e alla diseguaglianza di genere dovuta alla complessa relazione tra violenza e discriminazione sessuale. In Italia, prima dell’avvento dell’utilizzo di questa parola, l’unico modo per descrivere la morte di una donna condotta per mano di un uomo, era uxoricidio (Baldry, 2016). La parola femminicidio fu riconosciuta nel nostro Paese ufficialmente, solo a partire dal 2001.
La Word Health Organization (World Health Organization, 2012) individua quattro diverse tipologie di femminicidio:
- intimate femicide o Intimate partner homicide (Iph): uccisione della donna avvenuta per mano del partner o dell’ex partner, all’intero di una relazione affettiva attuale oppure pregressa. Imoventi di tale condotto sarebbero riconducibili a gelosia,
possesso o estrema forma di esercizio del proprio. In Italia è la tipologia di crimine maggiormente commesso (Baldry & Ferraro, 2010);
- Non-intimate femicide: in questo caso la relazione intima con la vittima non è presente. Possono verificarsi anche aggressioni sessuali rilevabili letali (sexual femicide). In “Strenghtening Understanding of Femicide”, Widyono (2009) individua tre categorie di non-intimate femicide: familial femicide, commessi da familiari della donna diversi dal partner o ex partner, per esempio padri, zii, fratelli; femicides by other known perpetrators, commessi da autori conosciuti della vittima, quali conoscenti, amici, frequentanti; stranieri femicides, commessi da uomini non conosciuti dalla vittima. Frequenti tra l’ultima tipologia di femminicidi si sono quelle persone che lavorano in contesti emarginanti, come l'offrire servizi sessuali e lavorare in bar o night club (Widyono, 2009);
- Honor-related murders: si intendono quei femminicidi consumati per avvenute o presunte mancanze di onore all’interno della propria famiglia. Questi delitti avvengono per mano di un membro famigliare e possono essere attuati per adulterio, trasgressioni sessuali o comportamentali, rapporti sessuali o gravidanze avvenute fuori dal matrimonio, violenze sessuali subite. Si stimano circa 5000 femminicidi di onore ogni anno nel mondo, anche se si ritiene che tale numero sia largamente sottostimato (Gillespie & Reckdenwald, 2015);
- Dowry-related femicide: quest’ultima forma di femminicidio è legata a conflitti riguardanti la dote, ovvero il complesso di beni che la moglie portava al marito il giorno del matrimonio, in cambio degli oneri del marito. L'incidenza di questo tipo di femminicidio varia molto ma si stima intorno alle 25.000 vittime ogni anno (Sharma, 2012).
detto, se ne è iniziato a parlare con il decreto legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito nella legge 15 ottobre 2013, n. 119, sulle “Nuove norme per il contrasto della violenza di genere che hanno l'obiettivo di prevenire il femminicidio e proteggere le vittime”, dopo che il parlamento italiano ha ratificato la Convenzione di Istanbul del Consiglio d'Europa sulla “Prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica” (Amnesty International, 2015). Nel 2017 viene istituita dal Senato la Commissione di inchiesta parlamentare sul femminicidio, per analizzare il fenomeno in Italia e per trovare soluzioni finalizzate a ragionare la problematica.
2.2.1 I numeri del femminicidio
Ogni anno quasi 2 milioni di donne negli Stati Uniti sono gravemente maltrattate e uccise nel contesto familiare (Eures, 2015). Nello stesso periodo, sempre in USA, sono circa 2.000-3.000 le donne vittime di IPF (femminicidio del partner intimo), rappresentando la principale causa di morte per le donne afroamericane di età compresa tra i 15 e i 45 anni (Lewandowski, Mcfarlane, Campbell, Gary, & Barenski, 2004) e la settima causa di morte prematura per le donne in generale. Ogni 18 secondi una donna viene picchiata dal suo partner attuale o da un ex partner, giungendo a 4.800 le donne che subiscono un'aggressione nell’arco di una giornata, da parte del compagno o ex compagno. In Italia, considerando lo stesso periodo temporale, le donne vittime di aggressione sono circa 250. Nel mondo invece sono circa 6.000 le donne che ogni ora subiscono abusi fisici o sessuali, che vengono perseguitate dai loro partner o ex partner, e uccise (Unicef, 2000). Sempre in Italia è stato visto che ogni giorno 95 vittime donne denunciano di aver subito minacce, 87 ingiurie, 64 lesioni dolose, 19 percosse, 14 di stalking, 10 violenze sessuali, e come se non bastasse ogni due giorni una donna è vittima di femminicidio (Casa delle donne per non subire violenza, 2013).
L’Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che il 30% delle donne nel mondo hanno subitoqualche forma di violenza all’interno della propria relazione intima (World Health Organization, 2012). In tutti i Paesi il principale rischio per la donna di essere uccisa è proprio attraverso le mani del proprio partner intimo, in particolar modo all’interno del proprio contesto domestico, precedute da percosse a lungo termine (Campbell et al., 2003) e nel 29% delle IPF, l'autore si suicida (Dawson & Gartner, 1998).
Gli Stati Uniti rappresentano un Paese in cui i tassi di omicidi sono elevati. È stato visto che nel 2008, degli omicidi totali riguardanti le donne, il 45% erano state vittime di omicidi commessi da parte dei partner intimi, mentre gli uomini uccisi da partner intimi rappresentano il 5% degli omicidi maschili totali. Allo stesso modo, nel Regno Unito, nel 2009, il 54% degli omicidi femminili e il 5% degli omicidi maschili sono stati commessi da un partner intimo. In Sud Africa invece, uno studio fatto tra il 1999 e il 2009, ha mostrato che circa il 50% delle donne che sono state uccise, è avvenuto per mano di un partner intimo (Sharma, 2012). “Questo retaggio culturale a sfavore del femminile è stato quantificato dall’Eures (Ente Europeo Ricerche Economiche e Sociali) che, nel rap-porto 2013 sull’omicidio volontario in Italia, sottolinea che il 70% delle vittime di reati omicidiari in famigliasono donne. Tra il 2000 e il 2012 segnala
2.200 donne vittime di omicidio in Italia, con una media di 171 donne uccise ogni anno e 81 uccise nei primi sei mesi del 2013, ossia una ogni due giorni” (Eures, 2014). Sono circa 150 le donne uccise, sempre nell’arco di un anno, per mano del marito, ex marito, convivente o ex convivente. 1 femminicidio su 4 è compiuto dal partner. In Italia viene ucciso una donna dal proprio marito, convivente, fidanzato attuale o ex in media ogni 72 ore (Eures, 2015). Nel 2015 sono state 125 le donne vittime di femminicidio, di cui 70 sono state assassinate dal proprio partner o ex partner eterosessuale (Eures, 2015, p.22).
Inoltre, la percentuale di donne che vengono assassinate dai propri partner è di 6 volte maggiore rispetto a quella inversa, aggirandosi l’una intorno al 38,6% e l’altra 6,3%, riflettendo in tal modo come sia evidente la disparità di genere e la differenza di omicidi commessi da parte di entrambi i sessi. “Il Rapporto Eures 2013 sottolinea che, alla forte caratterizzazione di genere di al-cuni reati violenti (sono donne il 90,5% delle vittime di violenze sessua-li, il 77,4% di stalking e il 55,3% di ingiurie), si affianca una crescente femminilizzazione per le minacce (45,4% di vittime donne), le percosse (48,3%) e le lesioni dolose (40,6%), alle quali si contrappone una asso-luta dominanza degli uomini come esecutori della violenza” (Casa delle donne per non subire violenza, 2013).Anche la “Casa delle donne per non subi-re violenza” di Bologna ha confrontato i dati Eures nel decennio che va dal 2000 al 2011 con quelli ottenuti da loro, anche se in un periodo differente, datati 2005-2012. Anche se elaborare una comparazione sia difficile, in quanto i periodi diriferimento siano differenti, è stato riportato che i casi
complessivi sono 908 per il gruppo di Bologna, mentre 1.459 quelli raccolti dall’Eures. Giungendo così ad una media considerevolmente diversa, di 194 femicidi l’anno per la “Casa delle donne per non subi-re violenza” e invece molto più alta quella ottenuta dall’altro ente (Casa delle donne per non subire violenza, 2013). “Guardando i dati riportati dall’Eures con riferimento alla distribuzionedei casi di femminicidio fra 2010 e 2014, da un'analisi dettagliata emerge che la genesi di coppia di femminicidio familiari si conferma ciascun intervallo annuale, con una percentuale di donne uccise dal proprio compagno ex compagno pari al 61,8% nel 2010, al 72,7% nel 2011, al 69,4% nel 2012,
al 66,4% nel 2013 e al 69,2% nel 2014” (Eures, 2015, p.22).
Dall'analisi delle sentenze del ministero di giustizia si evince che nei casi in cui la vittima è una donna, l’88,5% delle volte a commettere il reato è un uomo. Inoltre, sono 355 le sentenze dichiarate come femminicidio su 417 esaminate, costituendo così l’85% dei casi di omicidi giunti a processo. I dati Eures indicano che le donne vittime all’interno del contesto familiare sono pari ai tre quarti, nel periodo che va dal 2001 al 2016. Esiste una relazione sentimentale attuale o pregressa tra la vittima e l’autore del reato nel 60% dei casi. Se invece vengono considerate anche le relazioni di parentela, i casi di omicidio salgono al 75%. Quindi risulta che nel 63,8% dei casi, vittima e autore sono coniugi o conviventi, il 12% fidanzati, il 24% aveva intrattenuto una relazione sentimentale. (Eures, 2017).
Questi dati risultano elevatissimi nonostante la loro raccolta sia ostacolata da fattori quali la disponibilità e la qualità nel reperirli. Soprattutto nei Paesi a basso e medio reddito, i dati nazionali riguardanti gli omicidi avvenuti risultano incompleti e poso esaustivi. I dati sono principalmente raccolti attraverso polizia e obitori, rimanendo la maggior parte delle volte sconosciute le informazioni riguardanti la relazione e il legame tra la vittima e l’autore del delitto. La percentuale mediana di omicidi di partner intimi tra le donne uccise era più alta nel sud-est asiatico (58,8%, 58,8–58,8), nei paesi ad alto reddito (41,2%, 30,8–44,5), Americhe (40,5%, 7,5–54,8) e Africa (40,1%, 38,6– 41,7). La prevalenza era più bassa nella regione del Pacifico occidentale (19,1%, 19,1– 21,3), nella regione europea a basso e medio reddito (20,0%, 1,82–37,8) e nella regione del Mediterraneo orientale (14,4%, 5,3–23,6) (Eures, 2017).
Circa le modalità di omicidio, invece, emerge un profilo primitivo. Le prevalenti modalità diomicidi avvengono per mezzo di armi bianche, armi da fuoco, unite alla
colluttazione quale sfogo di rabbia inaudita. I mezzi e le armi più utilizzate per perpetrarel’uccisione sono, prima di tutti, l’utilizzo di armi da punta e da taglio, come il coltello, che richiama proprio l’ambito domestico. Questo è l’oggetto che è più facilmente reperibile e dannoso che una persona può trovare in casa e nel 41% dei casi le donne sono vittime di ripetuti colpi violenti. Il 18% delle uccisioni avviene tramite strangolamento, 12,8% con armi da fuoco e il 9% delle volte la vittima viene aggredita senza l’utilizzo di armi, ma colpita con pugni, calci e testate, fino a strangolarla e soffocarla. Inoltre, è stato visto che in un ulteriore 15,5% dei casi la donna viene uccisa con oggetti di varia natura: martelli, accette, bastoni, picconi (Bartolomeo, 2017).
Per quanto riguarda i tentati femicidi, vengono considerati importanti e vengono valutati oltre alle minacce psicologiche, anche le percosse, atteggiamenti discriminatori, violenze economiche, anche tutte quelle azioni che vengono definite e reputate gravi (Casa delle donne per non subire violenza, 2013).
Le fasce di età che sono ritenute più a rischio per subire qualsiasi forma di violenza, sono quelle interposte tra i 25 e i 44 anni. Questa è l’età entro la quale gli individui iniziano a progettare e programmare la propria vita, nella quale iniziano a instaurare solide relazioni affettive e familiari. Vengono stimate circa 784 donne uccise in questa età (dai 25 anni ai 34 è la più esposta), nell’arco di anni tra il 2000 e il 2012. Un’altra fascia di età considerevolmente colpita è quella delle donne anziane (ultra- sessantaquattrenni), registrando un altro elevato numero di vittime, circa 524, nello stesso periodo temporale (Casa delle donne per non subire violenza, 2013).
Per quanto riguarda invece i fattori e i segnali di rischio per i femicidi, si è visto come nel 93,5% di una relazione di coppia, la volontà e la richiesta di separazione è di parte femminile, con il delittoche si compie entro i tre mesi successivi nel 48% dei casi. Nel 44% dei casi antecedenti la separazione, la donna aveva sporto denuncia per violenza e nel 67,5% la violenza che si consumava entro le proprie mura di casa era nota a terzi. Il 19% delle vittime, prima di essere state uccise, hanno subito un inasprimento della violenza. All’interno invece di coppie unite, il 40% delle coppie vive una litigiosità costante ed estrema. Il “possesso” da parte dell’uomo rappresenta nel 17,3% dei casi, la ragione dell’uccisione della donna. Questo possesso è rivolto alle situazioni in cui la donna vorrebbe interrompere il proprio rapporto intimo con l’uomo. È proprio all’interno delle coppieunite che si sono verificati il maggior numero di
femminicidi, con una percentuale pari al 40,9%, più che nelle coppie separate, nonostante il nostro immaginario avrebbe pensato diversamente (Casa delle donne per non subire violenza, 2013).
La relazione inerente al femminicidio, presentata al Senato, evidenzia come questo fenomenoavvenga per motivi passionali nel 31% dei casi, per litigi e dissapori nel 24%, il 15% delle volte a causa di malattie psichiche sofferte dall’autore e un altro 15% per raptus. Sono molte di più le volte che i femminicidi vengono consumati a causa della collera scattata da litigi accesi (“la motivazione principale è il rifiuto da parte della donna di continuare o riprendere la relazione sentimentale”), invece che premeditati dall’autore. La donna è colpita ripetutamente e con veemenza nel 41% dei casi, e nel 55% l’autore è reo confesso e prende la decisione di chiamare le forze dell’ordine (Eures, 2015).
Un problema ancora più profondo riguarda quando queste violenze e questi femminicidi sono consumati nei confronti di madri incinte, commettendo così una vera e propria “doppia violenza”, andando a gravare sia sulla madre che sul feto. La violenza in gravidanza, in Italia, rappresenta la seconda causa di morte materna, e nonostante quanto questo sia grave, non sono stati prodotti dati specifici su queste tipologie di vittime. Un altro importante fattore di rischio può essere la presenza di una storia di violenza verificatasi prima della gravidanza, o una gravidanza non voluta associata alla giovane età della donna. Questo fa sì che la probabilità di subire violenza aumenti di quattro volte, con un picco tra i 16 e i 19 anni di età (Casa delle donne per non subire violenza, 2013). “Il problema delle donne uccise nelle relazioni intime affettive, e quindi, per trasposizione, delle donne con figli che vengono uccise all'interno della relazione affettiva, colpisce il 50% del totale delle donne uccise in Italia” (Baldry, 2016). Il numero degli orfani di femminicidio rimane ancora un mistero da dovere essere svelato. Di loro non si parla quasi mai, ad eccezione di particolari fatti di cronaca o perché il giornalista che scrive l’articolo nutre una particolare attenzione nei loro confronti. Quindi si può solamente trarre delle stime derivanti dal numero di donne che vengono uccise e dalla verifica se avessero dei figli. Negli Stati Uniti, sebbene non ci siano dati di prevalenza nazionali, le stime indicano che sono circa 3.300 i bambini affetti da IPF ogni anno (Lewandowskiet al., 2004). Le donne di età compresa tra 30 e
39 anni hanno maggiori probabilità di essere vittime di femminicidio e tentato
femminicidio, in particolare se lavorano e il loro guadagno risulta inferiore di 25.000$ all’anno. Poiché queste donne sono così giovani, di conseguenza anche i loro figli saranno piccoli, infatti la maggior parte di loro hanno meno di 10 anni. Quest’allarmante prevalenza di bambini esposti, così piccoli, a violenze domestiche, omicidi o tentati omicidi, aumenta esponenzialmente le probabilità di incontrare conseguenze negative, aggravate ulteriormente dal mancato supporto ricevuto. Questi episodi sono e continuano ad essere ancora troppi. Il fenomeno del femminicidio riguarda una tipologia di violenza che colpisce, oltre alla donna vittima e la sua famiglia, l’intero tessuto sociale,e deve inoltre interessare tutta la comunità che non può rimanere passiva di fronte all’accaduto.
“Va rotta una catena, non muoiono sole le donne, ma anche i bambini e gli altri superstiti” (Prandi, 2020, p.3).
2.3 Le conseguenze dei traumi e il dolore di chi rimaneSandor Ferenczi (1932), psicoanalista ungherese, identificò le possibili conseguenze dovute all’effetto distruttivo del trauma. Le vittime, che siano genitori o figli, possono mettere in pratica identificazioni patologiche con coloro che li offendono, come una sorta di colonizzazione mentale (identificazione con l’aggressore, vista precedentemente) (Ferenczi, 1932). Il trauma a cui lo psicoanalista fa riferimento è una ferita, una lesione che si crea tra la vittima e il modo nel quale è immerso, modificando così il rapporto tra se stesso e l’esterno. Questo trauma può ripercuotersi sia sulla vita personale della vittima, sia nel contesto relazionale. Il vissuto e le conseguenze più frequenti ad una violenza di genere sono quelle riconducibili ad un senso di incredulità, percependo i traumi come eventi impensabili, sovvertendo e sobbalzando la vita mentale e psichica dell’individuo. Il trauma rende le persone completamente impotenti, frantumando l’illusione di avere tutto sotto il proprio controllo. Le vittime arrivano in questo modo a perdere il potere personale e il controllo di se stessi, compromettendo di conseguenza anche il legame con gli altri (Prandi, 2020).
Il disorientamento provato dalle persone offese, è riconducibile alla discrepanza tra ciò che subiscono, ovvero le violenze, e le loro credenze, miste alle proprie aspettative di vita. Di conseguenza anche la loro autostima e la fiducia risulteranno compromesse, in quanto non sonoriuscite a evitare le violenze, sentendosi in parte anche responsabili.
I dolori, le violenze subite e i traumi tendono ad essere sepolti dalle persone che ne sono vittime, ma più cercano si sommergerli e più saranno difficili da dimenticare, nonostante l’utilizzo del diniego o di altri meccanismi di difesa (Prandi, 2020).
Molte persone, tra cui molti bambini vittime di violenze assistite, domestiche, sessuali o quel che siano, non ne vogliono più parlare. Sono stanchi. Preferiscono non pensare o non parlare di ciò che sono stati costretti a subire. Non hanno voglia di tormentare se stessi o gli altri. Preferirebbero non ricordare, anche se la letteratura ci mostra quanto sia importante la loro testimonianza, rappresentando un passo importante per un possibile recupero psichico (Prandi, 2020). Un esempio di questi tragici episodi sono i figli del femminicidio. Sono i figli di chi, il proprio padre, ha portato via loro la madre. Sono i cosiddetti “Orfani speciali".
2.4 Orfani speciali: chi sono e perché sono detti “speciali”“Chi sono? Come stanno? Dove sono? Con chi sono? Di cosa hanno bisogno gli orfani di femminicidio, cosiddetti speciali, in Italia e nel mondo, non è noto. Sono una parte della popolazione dimenticata, sottaciuta, emarginata che pare non meritarsi politiche di intervento e di protezione” (Baldry, 2018). A coniare questo termine di “orfani speciali” è stata Anna Costanza Baldry, criminologa e docente di Psicologia sociale e giuridica all’università Luigi Vanvitelli di Napoli.
Quando si parla di orfani speciali, facciamo riferimento a quei bambini, adolescenti, giovani adulti o già adulti rimasti orfani della propria madre a causa del padre. Vengono considerati tali anche coloro che il proprio padre o la propria madre sono stati uccisi da persone con cui questi erano legati affettivamente (anche se per questi fatti viene utilizzato maggiormente il termine “orfani di crimini domestici”). Gli orfani speciali sono stati denominati con questo termine perché i loro bisogni, il loro vissuto e ciò che hanno subito è speciale e unico. I casi di femminicidio sono purtroppo tra i più diffusi sia in Italia che in Europa, e a pagarne le spese sono anche i bambini.
Come abbiamo detto il loro vissuto è speciale. Se provassimo a paragonarlo a ciò che potrebbe comportare una catastrofe naturale, un evento luttuoso o un incidente, non sarebbe comunque la stessa cosa. Ciò che perdono questi bambini e le conseguenze che ne derivano sono immense. Sono conseguenze appunto uniche, speciali (Baldry, 2018). La morte di un genitore, a qualsiasi età, hasempre conseguenze molto importanti. È
come perdere una parte di sé nonostante venga ritenuta una cosa naturale, nel senso che è un evento inevitabile quando si diventa adulti e i genitori invecchiano. Sono molti purtroppo però gli eventi della vita che rendono questo evento non più naturale, ma traumatico, sia per i modi, che per i tempi. Il femminicidio incarna la sofferenza più estrema che un bambino potrebbe mai vivere, poiché oltre a perdere la propria madre, perde di conseguenza anche il padre (suicida o in carcere). Lo stesso padre, figura che dovrebbe proteggerci, è nient’altro che la fonte del dolore, la causa del trauma del figlio e l’assassino della madre. Questo altro non è che un trauma, all’interno del trauma (Baldry, 2018; Calabrese, 2020). Questi crimini sono in ogni contesto devastanti, in qualsiasi modo e in ogni circostanza; quando si verificano durante l’infanzia o l’adolescenza, e per di più in maniera traumatica, possono avere conseguenze debilitanti per tutta la vita.
Il quadro clinico del figlio può essere profondamente aggravato se fosse stato presente durante l’uccisione della madre. A tale trauma può essere associato inoltre anche la paura di essere lui stesso ucciso dal padre (succede molte volte), andandosi così a sommare, come se già non bastasse, a tutte le violenze subite e assistite. Coloro che sopravvivono all’accaduto possono sentirsi disorientati, frastornati, impauriti e increduli. È come se vivessero in una bolla, in un sogno. Questi bambini cresciuti in contesti di violenza sono “bambini silenziosi, abituati a nascondersi in vari posti, sotto il tavolo, a fare silenzio, a non disturbare, in modo che l’altro non si accorga” (Calabrese, 2020). Allo stesso tempo potrebbero sentire anche la necessità di agire, di rialzarsi e rimettere in ordine le cose. Le paure e il dolore che tali eventi portano con sé faranno parte di chi rimane e molte volte saranno relegati ad una propria solitudine. Purtroppo, “guarire” da dolori così profondi, radicati e devastanti, non è possibile. Il dolore, quando è talmente forte da cambiare la propria vita, non può essere dimenticato. Non servirà cercare di compensare o di non pensare, sarà necessario, per costruirsi da capo una nuova possibilità e una nuova vita, una ristrutturazione della propria persona e della parte scompensata. Cercare di rimuovere o sostituire il dolore e il proprio vissuto, non è la scelta migliore da percorrere per riuscire a ricominciare, né tanto meno la soluzione alla propria sofferenza (Calabrese, 2020). I traumi più diffusi e presenti nei figli, successivi all’avvenimento dell’uccisione della propria madre, e in alcuni casi anche alla testimonianza oculare dell’accaduto, possonoessere: disturbo da stress post
traumatico (dspt), pensieri, immagini e suoni intrusive ricorrenti relativi all'accaduto; incubi e disturbi del sonno; distacco emotivo e attaccamento ansioso; negazione; paura cronica che l'evento possa accadere nuovamente; bassa concentrazione e scarsi risultati scolastici (Burman & Allen-Meares, 1994; Eth & Pynoos, 1994). Sono facilmente osservabili e comuni anche depressione, ansia, comportamenti passivo aggressivi, problemi nelle relazioni tra pari, sentimenti di rabbia, senso di colpa e complicanze somatiche.
Una recente metanalisi ha mostrato che, in media, il 16% dei bambini traumatizzati ha sviluppato PTSD (Alisic et al. 2014); in base ai criteri del DSM-IV: combinazione di almeno cinque (peradolescenti e adulti) o quattro (per bambini di età inferiore ai 6 anni) sintomi di intrusione, evitamento, alterazioni negative delle cognizioni e dell'umore e alterazioni dell'eccitazione e reattività). I tassi individuati però differivano a seconda della tipologia di trauma subito, poiché quando il trauma era interpersonale, come potrebbe essere un’aggressione, i livelli di PTSD erano molto maggiori. Le analisi condotte a riguardo delle tipologie dei possibili traumi evidenziano l’importanza che deriva dal benessere del caregiver (Alisic, Jongmans, Van Wesel, & Kleber; Morris, Gabert-Quillen, & Delahanty, 2012) e dal supporto sociale percepito per l’accaduto (Trickey, Siddaway, Meiser-Stedman, Serpell, & Field, 2012). È necessario intervenire nei confronti di questi ragazzi, con il fine di ridurre, se possibile e più quanto sia possibile, i potenziali danni. Una delle misure più importanti da considerare e da valutare è il collocamento del bambino dopo che il femminicidio è avvenuto. È proprio il contesto successivo al delitto che permetterà ai bambini di poter elaborare l’accaduto e la gestione del lutto. Il problema sorge quando questi bambini sono collocati all’interno di situazioni famigliari, presso i propri parenti, che non sono in grado di gestire quanto successo e preferiscono non parlarne, come se non fosse mai successo niente. Questi comportamenti impediscono un’elaborazione, accrescendo così le fatiche e le sofferenze dei piccoli, cronicizzando il trauma e il dolore, con conseguenze molto gravi anche nel breve termine (Baldry, 2018).
Le conseguenze che il femminicidio porta con sé e che si riversano sui bambini possono essere tra loro differenti. Ogni figlio, sia nel breve che nel lungo termine, può avere reazioni diverse dai propri fratelli o da altri bambini. Sono presenti, sempre nei bambini, anche molti fattori cherendono difficoltosa la comprensione di quanto sia
accaduto. Essendo piccoli non sono in grado di acquisire informazioni precise sul decesso in modo autonomo, quindi si vedono costretti a chiedere spiegazioni a chi hanno intorno in quel momento. Data anche la mancata formazione universale del concetto di morte, persistono nel richiedere la presenza della madre, bloccati nella difficoltà di chiedere conforto per il dolore che li sta lacerando.Potrebbero sperimentare impotenza di fronte a quanto accaduto o arrivare a pensare anche che tutto sia successo per causa loro, che dipenda dalla propria esistenza (Baldry, 2018).
Inoltre, questi bambini “sono a rischio di sequele psicologiche e comportamentali negative a causa del trauma subito e a tutti i fattori di stress associati”. Il rischio di diventare adulti violenti, riportando nel futuro ciò che hanno vissuto nel passato è particolarmente elevato, in particolare modo se anche loro sono stati vittime di violenze (Crowell & Burgess, 1996; Fagan & Browne, 1994). La violenza vissuta può essere riproposta anche in contesti sociali extra familiari, come ad esempio a scuola, dove i bambini si ritroveranno a intrattenere interazioni e legami più negativi sia con i coetanei che con gli insegnanti. I bambini rifiutati potrebbero sviluppare anche l’idea che il mondo sia ostile solamente nei loro confronti. Risultando conseguentemente molto difficoltoso rivedere i propri pensieri, sentimenti, intenzioni e motivazione in relazione agli altri, non riuscendo ad avere una capacità riflessiva.
Un’altra conseguenza devastante per questi bambini è quella di essere visti e diventare i “figli della vittima” e i “figli dell’assassino”, i cosiddetti “figli di…”, i “figli del femminicidio”. È in questo modo che vengono visti dagli altri ed è in questo modo che anche loro tendono a sentirsi: schiacciati dal peso della stigmatizzazione e detentori della “lettera scarlatta” cucita addosso (Baldry, 2018).
È stata indagata anche la resilienza in questi orfani, intesa come adattamento con risultati positivi di individui e famiglie, nonostante questi siano stati esposti a fattori di rischio significativi. Gli studievidenziano come il ruolo importante di fattori protettiti in grado di aumentare la resilienza nei bambini esposti a violenza. Ad esempio, un contributo importantissimo per lo sviluppo di una risposta resiliente è dato dalla relazione stabile che gli adulti premurosi (che si prendono cura dei bambini) instaurano con gli orfani (Humphreys, 2001; Parker, Steeves, Anderson, & Moran 2004). Questo dimostra quanto sia necessario e fondamentale fornire agli orfani di femminicidio un ambiente sano, di supporto e sicuro, affinché possa avvenire un loro recupero. Inoltre,
risultano avere un ruolo altrettanto importante anche i fattori protettivi esterni al sistema familiare, come potrebbero essere le nuove amicizie instaurate, gli ambienti che il bambino frequenta o le risorse a cui può attingere (Humphreys, 2001). Questi ultimi fattori non sono assolutamente da sottovalutare, in quanto il non poter più vivere nel proprio ambiente familiare, abbandonando, probabilmente, così le proprie abitudini, i propri amici, la scuola, le persone, cambiando molte volte anche città e avendo contatti prolungati con polizia e operatori del sistema giudiziario penale, possono rappresentare un aumento del trauma (Lewandowski et al., 2004). In uno studio su 146 bambini affetti da IPF, Lewandowski e colleghi (2004) hanno scoperto che l'87% si è trasferito dalle loro case dopo l’incidente.
Per gli orfani di femminicidio e per quelle persone che restano quando il delitto è stato già commesso, servirebbe un sostegno e un aiuto sia psicologico, per rielaborare il lutto e per iniziare un percorso di terapia, sia un aiuto economico in quanto non saranno autosufficienti per il proprio sostentamento. Devono essere aiutati a superare i propri sensi di colpa e permettere che anch’essi possano essere in grado di riprogettare un proprio futuro. Per far sì che ciò si possa verificare, è necessario che l’intera società si assuma le proprie responsabilità. “Se è vero che l'unico responsabile materiale e quindi criminale dell'omicidio è chi lo ha commesso, tuttavia una società civile che non è stata in grado di tutelare le sue cittadine e i suoi figli lasciandoli orfani, è in parte corresponsabile, sia perché non è in grado di contrastare una cultura misogina, sia per la mancanza di tutele coordinate, tempestive ed efficaci". Quindi subire per i bambini una consulenza psicologica dopo il trauma è un aspetto fondamentale, come è fondamentale che i propri caregivers si accorgano delle difficoltà psichiche del minore. Lewandowski et al. (2004) hanno riferito che nel 22% dellefamiglie colpite dal femminicidio, nessuno dei bambini ha ricevuto consulenza. A tal proposito, il Parlamento italiano con l’approvazione della legge 11 gennaio 2018 n.4, cerca di offrire assistenza e sostegno agli orfani di femminicidio, attraverso una gamma diversificata di strumenti normativi. Questa legge riconosce il nodo fondamentale che ricopre la violenza di genere e la violenza domestica, per troppo tempo ignorate e ancora oggi non sufficientemente esplorate. Enfatizzando i traumi e le profonde conseguenze distruttive di natura psicologica, sociale ed economica che tali eventi si portano dietro (Calabrese, 2020).
2.4.1 I numeri degli orfani speciali:
Anche se il problema degli orfani speciali, la cui mamma è uccisa dal padre, è un dramma mondiale e una stima approssimativa ne calcola oltre 55.000 all’anno (Alisic et al., 2015), stupisce, anche se solo in parte, quanta poca attenzione alla ricerca sia stata finora rivolta nei loro confronti. Calcolare l’incidenza dei bambini orfani di femminicidio non è così facile da determinare, inquanto, attraverso i registri riguardanti i crimini domestici, non viene quasi mai scritto o detto se essi sono presenti. Gli unici dati a nostra disposizione sono quelli derivanti dalle stime condotte neltempo attraverso i registri pubblici degli omicidi. In Italia, ad esempio, così come in altri paesi, non si sa nemmeno quanti siano gli «orfani speciali» (Calabrese, 2020). Ogni anno quasi mezzo milionedi persone muoiono vittime di omicidio. Almeno uno su sette di questi omicidi
è perpetrato da un partner intimo (Sto c̈ kl et al., 2013). Se stimiamo prudentemente che
il 40% delle vittime abbia figli e che una famiglia media ne coinvolga due, ogni anno oltre 55.000 bambini in tutto il mondo subiscono un lutto a causa dell'omicidio del partner. Anche utilizzando i dati di Uniform Crime Reports, il numero di bambini colpiti ogni anno è considerevole. Le nostre stime sono che se almeno 2400 donne vengono uccise da un partner intimo ogni anno e se almeno il 60% di questi casi coinvolge bambini (1440 casi) con una media di 2,3 bambini in ciascuna di queste famiglie (Lewandowski et al., 2004). Nonostante non siano presenti dati di prevalenza nazionale, le stime indicano che ogni anno circa 3300 bambini, negli Stati Uniti, siano profondamente colpiti da questi omicidi (Lewandowski et al. 2004). In Virginia si stima appunto che nel 75% dei casi, la donna, di età compresa tra i 15 e i 44 anni, abbia almeno un figlio e che si trovio negli anni della gravidanza o negli anni dell’educazione dei bambini. Nel loro studio "Fattori di rischio del femminicidio del partner intimo", Campbell e colleghi (2003) hanno riscontrato che i bambini presenti all’interno delle mura domestiche durante l’omicidio erano pari al 63% dei casi studiati. Più nel dettaglio, è stato rilevato che erano il 43% degli orfani, quelli che hanno assistito effettivamente alla scena oppure hanno ritrovato il corpo della madre (Campbell et al., 2003).
Inoltre, nella stragrande maggioranza dei femminicidi, si parla del 66-80% dei casi, il bambino, per anni, ha avuto il trauma di assistere a violenze precedenti nei confronti della propria madre(Campbell & Parker, 1992; Smith et al., 1998). Inoltre, circa il 14-
29% dei femminicidi dei partner intimi sono omicidi-suicidio, aggiungendo ulteriori traumi e dolore per i bambini che potrebbero perdere entrambi i genitori contemporaneamente (Dawson & Gartner, 1998). I bambini rimasti orfani, ancor più se hanno vissuto la scena dell’omicidio in prima persona, regrediscono manifestando sintomatologia di ansia reattiva da perdita dell'attaccamento, collera, regressione dell'uso degli sfinteri, negazione, messa in atto di forme rituali di gioco ossessivo- compulsivo (Eth & Pynoos, 1994).
2.4.2 Il collocamento degli orfani speciali:
Viene dato per scontato che la scelta migliore riguardante il collocamento degli orfani, dopol’uccisione della propria madre, sia all’interno del contesto dei familiari più stretti. Garlatti afferma che in realtà questa scelta, non ricalchi quasi mai la scelta migliore per un orfano, non permettendo né un’elaborazione corretta del trauma, né riuscendo a ridurre il malessere che tale trauma comporti (Baldry, 2018). Nonostante ciò, in uno studio su 146 bambini affetti da IPF, Lewandowski e colleghi (2004) hanno scoperto che l'87% si è trasferito dalle loro case dopo l'incidente e che i loro nuovi caregiver includevano parenti materni (47%), parenti paterni (12%), sia parenti materni che paterni (ad esempio, quando i fratelli sono stati separati; 10%) e altri caregiver, come i genitori affidatari (9%) (Lewandowski et al., 2004). Oltre a questo studio, in più della metà di casi monitorati riportati in letteratura nazionale e internazionale, Garlatti mostra come questa scelta sia ancora la più diffusa. Come abbiamo già detto in precedenza, questi orfani sono considerati speciali per ciò che hanno subito, per il fatto che oltre ad aver perso un genitore, ucciso dall’altro genitore, hanno perso anche quest’ultimo. È appunto un dramma nel dramma, un trauma nel trauma. Oltre ad essere tale per i figli, è così anche per gli altri familiari e questi non avranno mai la lucidità di guardare come stanno le cose in realtà, prendendo posizione o avvertendo un enorme peso su di loro che non riescono agestire. Anche i parenti si ritrovano a dover affrontare emozioni legate all’uccisione di qualcuno molto vicino e potrebbero non essere emotivamente disponibili per i bambini (Baldry, 2018). Inoltre, l'inclusione di uno o più bambini nella propria famiglia si è rivelata una sfida per i caregiver (Hardesty, Campbell, McFarlane & Lewandowski, 2008). L’influenza che potrebbe derivare dalla famiglia della vittima o da quella dell’assassino, potrebbero non permettere al figlio una
corretta elaborazione, o addirittura preferirebbero non volerne parlare. In alcuni casi potrebbero anche non raccontare ai bambini la vera natura dell’accaduto, nascondere o distorcere la verità. A tal proposito Black e Kaplan (1988) hanno notato che i parenti, al contrario dei caregiver non imparentati, spesso decidevano di non dire ai figli la vera natura della morte dei loro genitori, o distorcevano la verità, che era vista come una barriera per il recupero dei bambini (Black & Kaplan, 1988). È però solamente attraverso la verità che il bambino può intraprendere percorsi catartici e la ricostruzione del valore di fiducia rivolto verso qualcuno. I bambini vogliono e devono sapere la verità. È stato ben documentato che il disagio del caregiver influisce sul funzionamento del bambino, sia negli articoli recensiti che nella più ampia letteratura sui traumi infantili e sullo sviluppo del bambino (Salmon & Bryant, 2002; Scheeringa & Zeanah, 2001).
Se l’orfano viene affidato ad una famiglia estranea ai fatti, e se in essa prevalgono e risultano più efficaci i fattori di protezione su quelli di rischio, allora la resilienza ha maggiore efficacia sul benessere e sulla capacità di copying del bambino. Il trauma e le conseguenze possono essere mitigate a patto che si stabilisca una relazione stabile con i nuovi caregivers nel corso degli anni. I nuovi genitori devono essere in grado di fornire un ambiente e un contesto sicuro e di sostegno (Humphreys, 2001; Parker, Steeves, Anderson, & Moran, 2004). Il collocamento degli orfani presso nuovi genitori deve quindi essere considerato di fondamentale importanza e non una seconda o terza soluzione rispetto al collocamento dai aprenti. I nuovi genitori potrebbero concedere all’orfano un migliore stato di salute psicofisica dopo il lutto. Il benessere e la resilienza dei caregivers sono fattori estremamente importanti per la protezione dei bambini (Baldry, 2018).
L’ambito psicologico, che viene compromesso in conseguenza all’aver vissuto il trauma, è strettamente correlato con quello fisico e relazionale. I bambini si ritrovano ad avere un legame di attaccamento destrutturato e più che incrinato. Il senso di colpa provato da essi, unito a perdita di fiducia, paura, ambivalenza, già esistenti prima della morte della madre, si sommano alle conseguenze provocate dal lutto, generando ripercussioni disastrose. Risulta così essere fondamentale identificare i fattori di rischio antecedenti l’omicidio, per capire quando e dove è necessario un intervento (Marsac, Kassam-Adams, Delahanty, D, Widaman, & Barakat, 2014).
Inoltre, di estrema importanza è il periodo immediatamente successivo al trauma, ovvero la settimana seguente all’omicidio, rappresentabile metaforicamente attraverso l’immagine di un terremoto, che determinerà la portata e la magnitudo del danno e del trauma, e la relativa gestione (Baldry, 2018). Le migliori pratiche nell'assistenza psicosociale dopo disastri e traumi di massa sottolineano costantemente l'importanza di una comunicazione buona e onesta. Sia l'ambiente diretto dei bambini che i professionisti coinvolti possono ridurre o aumentare l'esperienza dei bambini di caos o mancanza di sicurezza.
Quindi gli orfani speciali mostrano una moltitudine di bisogni e aree che rappresentano dolore e sofferenza. Sono caratterizzati da senso di solitudine e hanno bisogno di punti di riferimento, anche se spesso vengono affidati a parenti anziani poco vicini ai loro bisogni. Nutrono un forte senso dell’abbandono, in particolare modo immediatamente dopo l’accaduto, non sostenuti neppure dalla scarsa rete sociale che si ritrovano ad avere. Necessitano di sicurezza e informazioni adeguate per riuscire, o almeno provare ad evadere, dall’incertezza del futuro. Gli orfani hanno bisogno di un supporto per l’accettazione di un percorso terapeutico, troppe volte rifiutato perché ritenuto poco efficace a livello di concretezza. Infine, necessitano anche di un supporto a livello economico, soprattutto se si ritrovano in assenza di beni di proprietà o di fondi a disposizione, o in presenza di debiti (Baldry, 2018).
2.5 Percezioni del caregiver sull'adattamento dei bambiniLa teoria dello stress familiare (studia gli effetti dei cambiamenti all’interno o all’esterno della famiglia, successivamente ad eventi inaspettati) postula che l'adattamento sia modellato da fattori contestuali che includono fattori di stress pre-IPF, la natura dell'evento stressante (IPF) e le sue tensioni e difficoltà associate, risorse familiari e strategie di coping e percezioni familiari e individuali della situazione (Boss, 2002). Per quanto riguarda le strategie di coping, Hardesty e i suoi colleghi, hanno individuato quelle più utilizzate, ovvero: rimanere occupati, usare rituali e sollecitare il supporto sociale. Le strategie sono state vissute come utili dalle famiglie, sebbene gli autori abbiano messo in dubbio gli effetti a lungo termine delle strategie di evitamento (Hardesty et al., 2008).
Dal punto di vista dei caregivers invece sono stati riferiti problemi di adattamento
mentale, fisico, comportamentale e accademico tra i bambini dopo il femminicidio del partner intimo (IPF), come è possibile riscontrare in una testimonianza di una donna, curatrice del nipote di 7 anni: “Dopo l'incidente, è stato curato per un disturbo da deficit di attenzione e iperattività, diagnosticati in precedenza ma non trattati. Ha mostrato segni di disturbo da stress post-traumatico e recentemente è stato diagnosticato come "disturbato emotivamente". È rumoroso, distruttivo, impulsivo e si picchia con i bambini a scuola. Subito dopo l'IPF, era pieno di rabbia e rabbia. Aveva incubi quasi ogni notte. Se la luce del corridoio non fosse accesa, avrebbe urlato finché non mialzavo e l'accendevo. È in un programma di livello 4 a scuola, ha bisogno di un rapporto a tu per tu con tutte le materie” (Hardesty et al., 2008, p.108).
I problemi che la maggior parte dei caregivers solitamente incontrano, come abbiamo dette nelle pagine precedenti, sono di varia natura. Quelli di natura mentale maggiormente rilevati sono stati:depressione, ansia, disforia, dolore prolungato, sintomi di stress post-traumatico, difficoltà di apprendimento e concentrazione a scuola e incapacità di mantenere precedenti livelli di autostima o connessione con figure di supporto sociale (Dowdney, 2000). In particolare, sono molto presenti i concetti di lutto prolungato e traumatico, riferendosi a quella tipologia di dolore e disagio persistente (Eth & Pynoos, 1994), che dura più di 6 mesi da dopo l’accaduto. Questo dolore prolungato comporta sintomi come l’incredulità riguardo alla morte, intorpidimento, angoscia da separazione e la sensazione che la vita sia priva di significato. A causa di questo straziante evento, i bambini si ritrovano in difficoltà a svolgere i “normali compiti di lutto”, ritrovandosi a convivere con una combinazione patologica, derivante dall’accaduto, e le relative reazioni al lutto (Brown & Goodman, 2005). Sono stati identificati otto di questi compiti normativi, con i bambini tenuti a: (a)accettare la realtà e la permanenza della morte; (b) sperimentare e affrontare reazioni emotive dolorose alla morte; (c) adeguarsi ai cambiamenti nella propria vita e identità derivanti dalla morte; (d) sviluppare nuove relazioni o approfondire le relazioni esistenti per aiutare a far fronte alla morte; (e) investire in nuove relazioni e attività di affermazione della vita come mezzo per andare avanti; (f) mantenere un attaccamento continuo e appropriato alla persona amata deceduta attraversoattività come il ricordo e la commemorazione;
(g) dare un significato alla morte, che può includere la comprensione del motivo per cui la persona èmorta; e, (h) continuare attraverso le normali fasi di sviluppo dell'infanzia e
dell'adolescenza (Goodman et al., 2004, p.11). Sono state segnalate anche eventi di amnesia sotto stress, un sintomo di PTSD. Ad esempio, Mariana, 9 anni, è stata "in grado di descrivere alcuni aspetti dell'evento in modo molto dettagliato un giorno, e un altro giorno avrebbe detto che non riusciva a ricordare nulla". La bambina riferì che non riusciva a ricordare molto del giorno in cui i suoi genitori morirono, nemmeno la data.'' (Lovrin, 1999, p 112). Inoltre, vengono spesso riferiti anche problemi relativi alle preoccupazioni sull’ansia da separazione e sui disturbi del sonno, di intensità maggiore nei mesi immediatamente successivi all’IPF.
Un’altra caregiver ha dichiarato che: “mia nipote di 11 anni non andrà da nessuna parte da sola. Non vuole essere sola. Non possiamo chiudere nessuna porta in casa. Vuole dormire con me. Non vuole chiudere la porta del bagno o la tenda della doccia. Ha solo paura di essere lasciata sola” (Hardesty et al., 2008). Oltre a non voler dormire da soli, i bambini hanno problemi di sonno che derivavano da incubi costanti, si svegliano ripetutamente di notte, vogliono dormire in posti diversi (per esempio, la macchina) e hanno paura del buio.
Invece, i problemi maggiormente rilevati di natura fisica includono: disturbi somatici,cambiamenti di peso e appetito, e sintomi di asma; sono molto ricorrenti anche mal di testa e dolori di stomaco (Black et al., 1992). I bambini hanno difficoltà a mangiare e ad alimentarsi mostrando sintomi di nausea. Hanno cambiamenti di peso e alterazioni di appetito, misti ad altri comportamenti insoliti come "imbottirsi la bocca fino al punto di conati di vomito" (Gaensbauer et al., 1995, p.524). Un esempio di una forte reazione fisica nella fase acuta è stato un ragazzo che ha sviluppato una febbre alta durante le prime due settimane dopo l'omicidio (Rupa, Hirisave, & Srinath, 2013).
La maggior parte delle volte i caregivers si preoccupano in misura superiore per la saluta mentale dei bambini, più che della salute fisica, anche quando i problemi di entrambe le nature erano presenti contemporaneamente (Hardesty et al., 2008). Questo probabilmente è dovuto al fatto che si è soliti associare di più i problemi mentali al trauma subito. I cambiamenti a livello comportamentale presentavano numerose variazioni e includevano ribellione generale, comportamenti distruttivi e impulsivi, e problemi relativi ai coetanei (per esempio l’uso di droghe). Tra i ragazzi, di qualsiasi sesso, non è da escludere anche il profondo e doloroso problema del suicidio (Hardesty et al., 2008).
Risulta fortemente necessario individuare le caratteristiche predittive e i fattori di rischio che potrebbero scatenare conseguenze ancor più gravi, enfatizzando maggiormente i fattori protettivi, mitigati attraverso anche i punti di forza della nuova famiglia. I possibili fattori deputati allaprotezione includono capacità di coping positivi, alta autostima; legame con altri significativi come altri membri della famiglia, insegnanti, assistenti sociali e membri della comunità; un luogo sicuro dove andare al di fuori della casa; sane credenze e standard positivi riguardanti relazioni interpersonali in cui le azioni e le conseguenze sono delineate (Fitzpatrick, 1997; Kolbo, 1996).
Quando devono essere progettati programmi finalizzati alla protezione e alla cura dei bambini, è doveroso e necessario valutare tutti i possibili fattori, sia di rischio che di protezione. In particolare quando i figli assistono all’omicidio o al tentato omicidio del proprio genitore (Hawkins, 1995).
3. Focus sull’affidamento3.1 Cosa è l’affidamento e come funzionaL’affidamento familiare si propone come un intervento complesso e multilivello, da attivare per tutelare i minori in difficoltà. La legge 184/83 che disciplina l’istituto dell’affido prevede, infatti, che il minore che sia temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo possa «essere affidato ad un’altra famiglia, possibilmente con figli minori, o ad una persona singola, o ad una comunità di tipo familiare, al fine di assicurargli il mantenimento, l’educazione e l’istruzione» (art. 2).
Nel corso degli anni, le diverse criticità emerse dall’applicazione della legge del 1983 hanno portato alla revisione di alcuni suoi articoli; in particolare, la legge 149/2001 pone specifica attenzione alla durata della permanenza del minore in una famiglia diversa da quella biologica,precisando all’art. 4 comma 4 che l’affidamento
«non può superare la durata di ventiquattro mesi ed è prorogabile, dal tribunale per i minorenni, qualora la sospensione dell’affidamento rechi pregiudizio al minore». Emerge in questa revisione della legge del 1983 un richiamo al servizio sociale nella direzione dell’efficacia delle forme di stimolo e sostegno da attivare verso e con la famiglia di origine, finalizzate ad un miglioramento delle sue capacità educative, ma anche una chiara preoccupazione per la protezione della continuità dei legami che il minore ha instaurato con la famiglia (Cassibba, Cavanna, Bastianoni & Chistolini, 2018). Ulteriori importanti modifiche al testo della legge 184/83 sono riportate nella legge173/2015, nota anche come legge sulla «continuità affettiva»; questa ribadisce con forza unimportante principio: il diritto al mantenimento dei legami significativi da parte dei minori in affido familiare. In particolare, la legge dispone che: «qualora in seguito a un prolungato periodo di affidamento il minore sia dichiarato adottabile e la famiglia affidataria chieda di poterlo adottare, iltribunale, nel decidere sull’adozione, dovrà tener conto dei legami affettivi significativi e del rapporto stabile e duraturo consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria» (comma 5 bis inserito all’articolo 4 della legge 184/83).
L’obiettivo dell’istituto dell’affido è, quindi, quello di “assicurare al minore che non disponga di un ambiente familiare idoneo alla sua crescita, la possibilità di beneficiare, temporaneamente o meno, delle cure di una famiglia affidataria, in attesa, se possibile, di tornare a vivere con la propria famiglia di origine che, in tempi contenuti (al massimo
in due anni), dovrà essere aiutata dai servizi territoriali a raggiungere un livello adeguato di capacità genitoriali” (Cassibba et al., 2018).
3.2 Tipologie di affido e valutazione di efficacia:Nella prassi possiamo individuare almeno 3 diverse tipologie di affidamento (Per semplificare la trattazione si tralascia di considerare gli affidi cosiddetti part-time) (Cassibba et al., 2018):
- affidi temporanei: la cui durata non dovrebbe superare i 2 anni e la loro finalità coincide con quella di un rientro, da parte del minore, all’interno della famiglia di origine;
- affidi valutativi: la cui durata non dovrebbe superare i 2 anni e si verificano con l’obiettivo di stabilire quale potrà essere la futura collocazione del minore (rientro in famiglia, affido sine die, adozione, altre soluzioni);
- affidi sine die: la loro durata si protrae fino e oltre la maggiore età dell’affidato ed hanno la finalità di offrire al minore un contesto di relazioni alternativo e stabile a quello della famiglia di origine.
Per quanto riguarda il secondo caso invece, l’obiettivo è quello di capire quale potrebbe essere il contesto più indicato e appropriato per il bambino. Il tempo che deve trascorrere è auspicabilmente il più breve possibile, garantendo nel mentre un ambiente consono e adeguato. L’affido potrà essere ritenuto concluso quando, al termine dei due anni massimi previsti, verranno raggiunti i due obiettivi di: a) aver individuato una collocazione definitiva per il minore (non necessariamente il suo rientro in famiglia); b) avergli garantito un contesto di relazioni adeguato durante la valutazione della recuperabilità dei suoi familiari.
Infine abbiamo il terzo caso, il più lungo temporalmente, dove l’obiettivo del progetto è quellodi aiutare il bambino in affidamento a relazionarsi e a costruire un
saldo legame con la famiglia affidataria, in modo tale che possa sviluppare un forte senso di appartenenza. In più, sarà necessario e importante aiutare il bambino ad affrontare il fatto che non possa più far rientro nella propria famiglia, sostenendolo in questa fase di elaborazione della perdita (Cassibba et al., 2018).
Chistolini (2015) sostiene che sia necessario e fondamentale attivare gli affidamenti “sine die” quando la definitività dell’affido e la consapevolezza del mancato rientro in famiglia risulta evidente e chiara fin dall’inizio, oppure quando durante l’affido si viene a conoscenza dell’irreversibilità dello stesso. Questo risulta importante per i bambini e i genitori affidatari, in modo tale che possano instaurare una stabilità e un’appartenenza reciproca. È ulteriormente fondamentale iniziare a vivere l’affidamento per quel che è realmente, non creando false aspettative o illusioni nel bambino, ma avere la consapevolezza che tale affido sarà una condizione di vita che potrebbe diventare stabile nel corso del tempo. Quindi si potrebbe richiedere un affidamento sine die quando ad esempio sono state aperte le pratiche di adattabilità del bambino, oppure quando la situazione familiare è tale da non poter prevedere un rientro del minore, nonostante non venga escluso (Chistolini, 2015).
Sapere distinguere e riuscire a scegliere la forma di affidamento è fondamentale per riuscire ad individuare e valutare in modo congruo la loro efficacia. Occorre che sia chiaro il fatto che esistano tipologie di affidamenti diversi, e che il mancato rientro del minore all’interno della famiglia non è necessariamente un insuccesso. Infatti, non necessariamente l’affido deve avere come obiettivo quello di assicurare al minore la possibilità di beneficiare, in modo temporaneo, delle cure offertegli dalla famiglia affidataria. La maggior parte delle volte, piuttosto, il bambino può sperimentare e comprendere cosa vuol dire intrattenere relazioni positive e sperimentare il senso di appartenenza.La stabilità che una famiglia affidataria può donare ad un minore fa sì che quest’ultimo possa riuscire ad accettare anche il mancato rientro all’interno del nucleo familiare di origine (Chistolini, 2017). Il valore dell’affido e la sua valutazione cambiano in base alle problematiche, relative ai nuclei familiari, dei casi che si presentano. Quindi non sarà mai attivato sempre il solito intervento per rispondere all’aiuto dei minori, ma verranno valutate le possibili scelte che l’affidamento consente di scegliere.
Ciò che risulta importante è la garanzia che il bambino deve avere, riguardo
all’opportunità di poter crescere e maturare all’interno di un contesto familiare che sia appropriato, attraverso la costruzione di legami favorevoli con i genitori o gli adulti affidatari e poter sviluppareun senso di appartenenza (Chistolini, 2017). Se questi adulti possono essere i propri genitori del bambino, questa opzione verrà sicuramente privilegiata e sostenuta, costituendo per il bambino la scelta migliore in quanto non deve subire il trauma della separazione. Se invece ciò non potesse avvenire, l’obiettivo sarà quello di riuscire a identificare e trovare altri genitori, ovvero i genitori affidatari, in grado di poter concedere al bambino l’opportunità di sperimentare relazioni attaccamento sostitutive. Ciò che risulta avere un grado elevato di importanza è il concetto di appartenenza, intesa come stato, oggettivo e soggettivo. È importante per il bambino sentire di appartenere a qualcuno e che quel qualcuno appartenga a lui (Schofield & Beek, 2006). Sentire diappartenere a qualcuno è condizione essenziale per il benessere degli adulti e, a maggior ragione, dei bambini, e diversi studi hanno dimostrato che poter contare su di un contesto di relazioni stabile e sicuro, capace di ridurre il senso di precarietà, rappresenta un fattore protettivo per lo sviluppo psicologico del minore (Cassibba et al., 2016; Selwyn e Quinton, 2004; Triseliotis, 2002).
Infine, è importante ricordare e sottolineare che si può appartenere a diversi sistemi relazionali e a diverse persone. Queste differenti appartenenze devono necessariamente essere gerarchizzate e non devono essere considerate tutte equivalenti tra loro, rischiando sennò di non appartenere a nessuno, per il fatto di appartenere a tutti. Perciò il progetto di affido dovrà avere fin da subito le idee chiare sulla propria durata (Cassibba et al., 2018).
3.3 StatisticheNel 2014, 14.020 minori (47,7% femmine), pari all’1,4% della popolazione minorile residente in Italia, risultavano collocati in affido: la maggior parte di essi si distribuisce nella fascia di età preadolescenziale (11- 14 anni: 31%) e adolescenziale (15-17 anni: 26%); per il 18% dei casi si tratta di minori stranieri. Diversamente da quanto previsto dalla legge sull’affido, 2 minori su 3 sonoin affidamento da più di 24 mesi; il 19% degli affidi, infatti, dura da 2 a 4 anni, mentre salgono al 42% gli affidi in corso da più di quattro anni (Cassibba et al., 2018).
Per quanto riguarda la situazione di post-affido relativo ai minori, la cui esperienza si è conclusa nel 2014, emerge che solo il 34% di essi è rientrato in famiglia; il 12% è passato, invece, in collocamento preadottivo, mentre il 6%, avendo raggiunto la maggiore età, ha intrapreso un percorso di vita autonoma. Dei rimanenti minori, il 30% transita verso altre forme di collocamento extra-familiare; degli altri minori non si hanno informazioni (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2017).
3.4 Quando un affido può definirsi concluso con successo?Un primo quesito che i dati esaminati pongono riguarda, quindi, le modalità di valutazione dell’efficacia dell’affido. Possiamo limitarci a considerare il rientro in famiglia come indicatore di successo, o dobbiamo piuttosto focalizzarci sui risultati, in termini di sviluppo e benessere, raggiunti dal minore insieme alla sua famiglia? (Cassibba et al., 2018). Il supporto della famiglia affidataria, infatti, consente ai minori di essere più resilienti e di sviluppare le proprie potenzialità e risorse personali (Schofield & Beek, 2006).
Van de Dries e coll. (2009) evidenziano come i livelli di sicurezza e di disorganizzazione dell’attaccamento siano simili nei campioni analizzati di ragazzi in affidamento rispetto a quelli adottati. L’interesse del minore a poter crescere in un contesto favorevole al suo sviluppo è stato salvaguardato. Questo permette di ipotizzare l’affidamento come un intervento efficace per la ristrutturazione del legame e dei modelli di attaccamento, tanto quanto lo può essere l’adozione (Van den Dries, L., Juffer, F., van IJzendoorn, M. H., & Bakermans-Kranenburg, M. J., 2009).
Per quanto riguarda il livello di soddisfacimento delle famiglie affidatarie, è stato visto come questo correlasse in modo significativo con la formazione delle famiglie stesse e con il supporto ricevuto dai servizi nel corso dell’esperienza di accoglienza. Queste due importanti funzioni generano alta insoddisfazione quando vengono a mancare, incidendo negativamente sul modo di vivere l’esperienza di accoglienza da parte della famiglia (Blythe et al., 2012).
Molte volte si è soliti valutare lo sviluppo e i progressi dei ragazzi in affidamento con quelli deiminori di pari età che hanno avuto l’opportunità di poter crescere nella propria famiglia esenti da problemi. Questo confronto purtroppo potrebbe mascherare i grandi passi in avanti fatti dai bambiniin affidamento, celando di conseguenza il grande lavoro
apportato dall’affidamento, scoraggiando operatori e genitori affidatari. Inoltre potrebbero essere create false convinzioni o credenze poco realistiche a causa dello sconforto, rischiando di perdere la voglia e la volontà di continuare a credere in questa istituzione. Oltre alla valutazione dei progressi attraverso l’utilizzo di misure di baseline, sarebbe importante anche valutare in quali condizioni, e verificare per quali minori, l’affidamento familiare costituisca la scelta più appropriata (Canali,Maurizio, & Biehal, 2013).
Uno studio condotto da Cassibba e colleghi, mostra quando è più opportuno e migliore scegliere l’affidamento familiare rispetto a quello in comunità. Gli studiosi confrontano le varie tipologie di attaccamento e legami che instaurano i ragazzi, e l’adattamento sociale all’ambiente extra-familiare in cui si trovano. I contesti analizzati erano: affido in comunità, affidamento familiare, adozione aperta e adozione legittimante. I dati derivanti dall’analisi, mostrano che tutti e quattro i contestianalizzati raggiungano un buon livello di adattamento, in particolare modo i minori in adozione hanno sviluppato un attaccamento superiore agli altri e hanno recuperato inoltre una buona sicurezza nei rapporti. Dopo questi ragazzi, sulla base di un buon legame di attaccamento, è possibile trovare i minori in affidamento, che sono riusciti a sviluppare maggiori livelli di sicurezzadi attaccamento rispetto ai ragazzi affidati ad una comunità. Questi dati raccolti sono associati al senso di appartenenza, il quale risulta migliore e più forte, appunto all’interno di un nucleo familiare. Inoltre, questi dati indicano anche quanto sia importante, ai fini di poter istaurare legami di attaccamento migliori, una minore durata nell’esposizione del minore al contesto disfunzionale della famiglia di origine. Più precoce avviene l’allontanamento, migliori saranno i risultati successivi per il minore (Cassibba et al., 2016).
La realizzazione di un affidamento familiare, qualche volta, può anche essere realizzato in tempi non contenuti, e non sempre è indice della scelta più adatta per alcune tipologie di traumi subiti dai minori. Un esempio in cui l’affidamento non risulta essere troppo idoneo riguarda quei traumi relazionali precoci, che potrebbero essere riattivati se il bambino vivesse un’altra situazione familiare, come nell’affidamento o nell’adozione. I bambini vittime di questi traumi “funzionano” meglio all’interno di contesti e ambienti che rimandano in misura minore al concetto di famiglia. Unesempio di queste realtà potrebbero essere le comunità di accoglienza che forniscono ambienti
meno intimi, in cui il bambino può rielaborare il trauma relazionale subito e rimosso (Cassibba et al., 2018).
3.5 Come affrontare/risolvere l’incongruenza tra la durata dell’affido prevista dalla legge e la complessità che la realtà dell’affido presenta?Un secondo elemento di criticità che può essere estrapolato dai dati ottenuti in Italia sull’affido, riguarda la sua durata. Nel 61% dei casi, gli affidi si protraggono oltre i 24 mesi previsti dalla legge; d’altronde, la recente legge 173/15 sulla continuità degli affetti ha preso atto di questa caratteristica ormai strutturale, prevedendo “la possibilità che un minore affidato, se dichiarato adottabile, possa, a tutela del suo prioritario interesse, essere adottato dagli affidatari" (Cassibba et al., 2018).
Cassibba ed Elia (2007), in un volume pubblicato nel 2007, sottolinearono la discrepanza che si presentava tra la durata massima dell’affidamento stabilita dalla legge (24 mesi) e gli obiettivi che essa si prestabiliva di raggiungere, sul piano affettivo relazionale (Cassibba & Elia, 2007). Ciò è riscontrabile anche con la teoria dell’attaccamento di Bowlby, il quale sostiene che siano necessari circa due anni affinché si possano instaurare quei legami affettivi significativi tra adulto e bambino. Sono questi legami che andranno a formare, secondo Bowlby (1969), la “base sicura” dalla quale ilbambino potrà liberamente muoversi per esplorare l’ambiente circostante e il mondo (Bowlby, 1969). Questo vorrebbe dire che i 24 mesi imposti dalla legge per l’affidamento, costituirebbero in realtà il tempo minimo necessario affinché i bambini si possano sentire a loro agio con i genitori e instaurare reciprocamente relazioni di fiducia, rispettare le regole ed entrare in contatto con ilmondo. È proprio dopo questi 24 mesi che il bambino inizia a considerare e a percepire i genitori affidatari come “base sicura”, iniziando ad intrattenere e ad esplorare relazioni interpersonali e situazioni relazionali e affettive nuove. Il bambino potrà percepire una maggiore protezione e una migliore sicurezza anche quando si dovrà confrontare con i genitori e con la relazione che ha avuto fino a quel momento. Potrà così iniziare ad affrontare i sentimenti di disagio derivanti dalla relazione con i genitori naturali, acquisendo consapevolezza per loro mancanze e carenze relative alle capacità genitoriali, integrandoli con i sentimenti di affetto che comunque potrebbe nutrire nei loro confronti (Cassiba & Elia, 2007).
Quanto detto mette in evidenza come il momento della conclusione dell’affidamento per la leggecoincida proprio con la fase secondo la quale il bambino ha raggiunto le condizioni affettivo-emotive ottimali per poter beneficiare della relazione con gli affidatari. Il bambinosembrerebbe aver raggiunto le capacità per poter ristrutturare e riorganizzare i modelli operativi interni della relazione, grazie alla fiducia conferitagli dal nuovo contesto relazionale (Cavanna,2013). Questa potrebbe essere una spiegazione relativa al fatto per cui gli affidamenti siprotraggano oltre i 24 mesi indicati, o il motivo per il quale i risultati raggiunti noncoincidono con quelli prestabiliti e sperati. Di particolare interesse, al riguardo, è l’analisi di Marco Chistolini (2015) sui fattori responsabili degli affidi lunghi o «sine die». Molte volte è diffuso il convincimento, sia a livello giuridico che psicosociale, secondo il quale mantenere i rapporti e una relazione con la famiglia di origine sia un bene e sia fondamentale, indipendentemente dalla reale qualità della relazione. È proprio per questo che spesso l’affidamento familiare viene utilizzato come mezzo affinché ciò si possa verificare, e viene preferito rispettoad un’adozione. Queste scelte purtroppo vengono prese indipendentemente dalle capacità genitoriali e anche quando la loro valutazione risulta scarsa. Tutto ciò è rafforzato da un’altraidea, quella diffusa dagli operatori che affermano che tutti gli allontanamenti del bambino dallafamiglia costituiscano sempre e comunque un evento doloroso e crudele. Nessuno mette in dubbio che essere separati dai propri genitori non sia doloroso, ma non tutte le separazioni sono necessariamente traumatiche, in particolar modo se vengono adeguatamente preparate (Chistolini, 2015). Altro aspetto molto importante, già citato in precedenza, riguarda il sostegno che le famiglie e il bambino devono ricevere nello scorrere del tempo. L’affidamento non si conclude quando ilbambino risiede nella nuova famiglia affidataria. Il suo successo deriva dalla progettazione edal continuo monitoraggio di interventi mirati per il
bambino, fino a che possa raggiungere gli obiettivi prefissati.
4. Presentazione casa famiglia4.1 Famiglia e casa famiglia“Il passaggio da una mentalità individualistica a una di tipo plurale è dato dal desiderio di affettività, di relazione, di farsi comunità di un uomo o una donna che iniziano a costruire un progetto di vita insieme a un’altra persona” (Macchietti, 2004). Da tale unione si può costituire una famiglia che «si sorregge su se stessa soltanto quando è spazio e tempo d’amore» (Gennari, 2006, p.253). La famiglia rappresenta una fusione di due mondi intimi e personali, molte volte percepitianche come lontani, che si uniscono e si plasmano, cosicché si possa creare un mondo unico. Viene identificata come una forma di “comunione sociale basata sulla relazione, sul dialogo, sulla responsabilità e sulla cura”, valori essenziali che devono accompagnarla e sostenerla nel suopercorso. Alla radice del passaggio da singolo a famiglia sta dunque un «andar oltre, un trascendere la mera logica individualistica» (Fornari, 2009, p.86).
Una coppia, il cui progetto si è già reso plurale dando origine ad una famiglia, decide di aprirsied accogliere porzioni di altre famiglie, accettando una sfida educativa che
«appartiene alla storia del genere umano, ed in particolare alla storia della famiglia come istituzione sociale, in maniera altrettanto originaria quanto la generazione, il dono e la reciprocità, costituendone una sintesi» (Franchini, 2003, pp.37-38). La trasformazione riguardante i ruoli, le condizioni sociali, la storia personale e della coppia, sosterranno la famiglia arricchendo il loro percorso di riflessività e speranza. La famiglia può essere considerata come una realtà plurale e condivisa, abitata da più persone, le quali si riconoscono vicendevolmente attraverso una rete condivisa di significati. Questo processo è dinamico, flessibile e in continua evoluzione, e permette appunto di potersi costruire un’identità familiare, plurale. L’apertura della famiglia permette la creazione e la formazione di tale tipologia di identità. Questa visione prende vita attraverso la realizzazione delle case famiglia e dalla realtà che si vive all’interno di essa. La casa famiglia è uno “strumento” attraverso il quale i genitori decidono di aprire la porta della propria casa e quella della propria famiglia ad altri, diventando così, in un particolare momento del loro cammino, genitori (anche) di altri. Alla base di questa intenzione vi è un desiderio educativo che eleva la famiglia verso un impegno culturale, civile ed esistenziale (Cerri, 2008).
La casa famiglia, o comunità familiare per minori, viene definita dal Nomenclatore
2013 come un servizio «residenziale che accoglie bambini e adolescenti fino ai 18 anni di età e che si caratterizza per la convivenza continuativa e stabile di un piccolo gruppo di bambini con due o più operatori specializzati, che assumono ruoli identificabili con figure genitoriali di riferimento inun percorso socio-educativo, nel rispetto dei bisogni e delle esigenze rispondenti alle varie fasce di età» (Istituto degli Innocenti, 2018, p.65).
La “Comunità familiare per minori” è finalizzata ad accogliere prioritariamente bambini per i quali si ritiene particolarmente adatta una situazione caratterizzata dalla convivenza continuativa e stabile di almeno due adulti, preferibilmente coppia con figli, adeguatamente preparati e che offrono un rapporto di tipo genitoriale sereno, rassicurante e personalizzato (Istituto degli Innocenti, 2018).
Uno dei bisogni emergenti delle famiglie riguarda la volontà «di farsi risorsa per altre famiglie, di trovare nuove forme di dialogo e di reciprocità con altri, per poter dare e ricevere aiuto» (Sità, 2005, p.32). Questi genitori decidono quindi di aprire le porte di casa loro ad altri bambini, ad altri minori, con la volontà di poter concedere loro uno spazio all’interno del quale possano sperimentare il senso della famiglia e relazioni sane. La scelta che fanno queste persone è un po’ quella di alleggerire e salvare quei bambini, che colpe non ne hanno, dalle situazioni difficili e di disagio che si ritrovano a dover vivere. Diventare genitori accoglienti è un’importante occasione per modificarela propria identità di coppia e di famiglia di partenza e per incrementare la qualità delle relazioni tra i suoi vecchi e nuovi componenti (Cadei & Simeone, 2013).
La famiglia si costruisce così come comunità ospitante di altre realtà differenti, non ricoprendo il concetto di dimensione plurale tradizionale, ma ancora più dinamico e arricchito. I ragazzi, che entrano all’interno di una casa famiglia, hanno l’opportunità di formarsi in un luogo educante composto da genitori che per propria natura sono educatori (Cerri, 2007). I genitori, intesi anchecome educatori, per realizzare il progetto di una casa famiglia, devono avere competenze relazionali specifiche e necessarie, che rimandano al concetto di cura ed empatia (Palmieri, 2000; Boella, 2006; Catarsi, 2011). Le relazioni all’interno di questo contesto devono essere basate sul fattore della fiducia, elemento che si viene a creare con il tempo e caratterizzato, alla base, dall’empatia genitoriale. Riuscire a capire cosa l’altro sta provando, mettersi nei suoi panni, permette al bambino di essere capito, compreso e accettato. È altresì fondamentale uno spirito e una predisposizioneall’accoglienza, in modo tale da permettere alla famiglia di origine
di trasformarsi in una famiglia “allargata”, dove la presenza e lo scambio di incontri e relazioni nuove, non sono altro che un arricchimento reciproco. Inoltre, ai minori inseriti nella casa famiglia deve essere data la possibilità di «sentirsi a casa, e proprio la casa è il luogo della relazione, della cura, della reciprocità» (Sità, 2005, p.56).
La possibilità che viene data ai ragazzi in affidamento in queste strutture è quella di sperimentare che cosa vuol dire vivere all’interno di un nucleo familiare, che cosa vuol dire avere una vera e propria famiglia, composta da due genitori ed eventuali figli, e sentirsi di farne parte. Ciò che siimpegnano a dare, i genitori, è un senso all’esistere
«fatto di vincoli e di opportunità, nel quale convergono bisogni, paure e vantaggi di genitori e figli» (Pati, 2000, p.24). Tali processi di inclusione hanno trovato una legittimazione in specifiche norme ed indicazioni. La casa famiglia per minori è, infatti, regolamentata dalla Legge n. 149/2001. In particolare, l’art. 2 c. 1 cita: «il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo [...] è affidato ad una famiglia [...] in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui ha bisogno». Il successivo comma 2 del medesimo articolo afferma ancora: «Ove non sia possibile l’affidamento [...], è consentito l’inserimento del minore in una comunità di tipo familiare caratterizzata da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia» intervento (Traverso, Azzari, & Frulli, 2014, p.23). Ciò che deve essere tutelato è il diritto del bambino di ricevere cure adeguate e significative per le loro esigenze. Questo può essere ritrovato all’interno della casa famiglia, simbolo della pluralità nella pluralità, dove idee, storie di vita, culture, religioni e vissuti si intrecciano. Attraverso questa forma di comunità i minori possono immergersi nel suo più profondo autentico significato, basato su interscambio e condivisione. In questa organizzazione dovranno vivere in armonia ed essere tenuti in equilibrio, oltre al bisogno dell’accoglienza, intesa anche da un punto di vista emotivo, anche la definizione degli obiettivi da raggiungere per i ragazzi e la predisposizione di un piano di intervento (Traverso,Azzari, & Frulli, 2014).
4.2 Progettazione della casa famiglia4.2.1 Requisiti generali:
Le raccomandazioni sui requisiti generali che devono caratterizzare le strutture residenziali per iminorenni sono riconducibili a tre dimensioni principali, che
qualificano un servizio «caratterizzato da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia» (Istituto degli Innocenti, 2018).
- caratteristiche della civile abitazione, con un ambiente accogliente e adatto alle diverse fasce di età dei minorenni;
- collocazione in contesto accessibile e collegato a una rete di servizi e opportunità di inclusione per i bambini;
- rapporto adeguato tra figure educative impegnate nei Servizi residenziali e bambini accolti, al fine di assicurare dinamiche relazionali, affettive ed educative di qualità.
4.2.2 Requisiti strutturali e impiantistici
La L. 328/2000, all’art. 22 comma 3, “per favorire la deistituzionalizzazione” prevede che i servizi e le strutture a ciclo residenziale destinati all’accoglienza bambini siano organizzati«esclusivamente nella forma di strutture comunitarie di tipo familiare» (Istituto degli Innocenti, 2018, p.57). Questo perché è importante offrire un ambiente accogliente e adatto alle diverse fasce di età dei bambini accolti, sia sotto il profilo della sicurezza che del benessere (Istituto degli Innocenti, 2018). Il progetto educativo della struttura e il progetto educativo individualizzato, utilizzato per i bimbi e le bimbe che entrano nel nucleo familiare, sono gli artefatti (Rossi &Toppano, 2009) che definiscono l’incontro con l’altro e l’intenzione pedagogica che veicola la «relazione di reciprocità» (Simeone, 2009, p.57).
Le caratteristiche del personale e l’organizzazione delle attività della “Comunità familiare per minori” sono regolate dalle amministrazioni regionali, le quali fanno riferimento a: le competenze certificate dei due adulti residenti, documentate almeno da un percorso formativo sulla genitorialità e l’accoglienza; al ruolo di uno degli adulti residenti che ha la funzione di coordinamento e svolge compiti di responsabilità per la realizzazione dei Progetti educativi individuali, di referenza nei rapporti con l’esterno e di raccordo con i servizi del territorio; all’eventuale presenza di educatori e altre figure di sostegno (Istituto degli Innocenti, 2018). Le amministrazioni regionali regolano, inoltre, anche le caratteristiche organizzative, il modello abitativo e la ricettività della “Comunità familiare per minori” con riferimento a: delle “caratteristiche di civile abitazione” che laqualificano come una normale ed “effettiva” abitazione di una
famiglia tra altre abitazioni di famiglie; un’accoglienza fino a un massimo di 6 bambini, ivi compresi gli eventuali figli minorenni della coppia residente; alla preferibilità che i bambini di età 0-5 anni siano accolti presso le Comunità familiari; l’accoglienza di bambini di età inferiore ai 4 anni è realizzata esclusivamente in Comunità caratterizzate dalla presenza di una famiglia pre-esistente (Istituto degli Innocenti, 2018).
Anche la famiglia, nonostante non assuma le caratteristiche di quella adottiva e che prima aveva il proprio nucleo familiare composto dagli attori legati dallo stesso sangue, subisce una trasformazione e un mutamento diventando casa-famiglia (Chistolini, 2017). Solitamente le fasi che una famiglia affronta per raggiungere un allargamento sono tre: la prima è la fase generativa e si ha quando si passa dalla scelta alla progettazione; la seconda fase è detta sociale e rappresenta il momento della preparazione del nucleo, della struttura e il momento dell’accoglienza. La terza invece è la fase della formazione e dello sviluppo, ovvero la convivenza che si crea all’interno della casa-abitazione, la quale ha il ruolo di riattivare il circuito educativo (Paradiso, 2003, p.83).
Questa nuova pluralità porta con sé un peso con cui, oltre ai genitori, ci entrano in contatto anche i figli biologici. I primi hanno il compito di gestire i rapporti tra i propri figli e tra quelli in affidamento; i figli invece si trovano a dover condividere tutto quel che fino a quel momento era appartenuto solamente a loro. I figli, quindi, dovranno ridisegnare nuovi legami tra fratelli e trasorelle, essendo chiamati nuovamente ad
«imparare concretamente il senso della fiducia nell’altro, la ricerca di una sintonia nella relazione, la feconda fatica della condivisione» (ivi, p.50).
I genitori impegnati nel quotidiano di una casa famiglia sono interpellati nel loro doppio ruolo di madre-padre e figure educative di riferimento, atti a garantire le condizioni di «dialogo intergenerazionale, ad affrontare in modo costruttivo i conflitti, ad offrire sostegno nei momenti di difficoltà. Un adeguato equilibrio tra dialogo, conflitto e sostegno può creare una sicura base relazionale che permetta [...] di conquistare la progressiva autonomia (anche affettiva), necessaria per costruire un rapporto d’amore autentico frutto di una scelta consapevole e di un impegno responsabile» (Simeone, 2009, p.56). I genitori-educatori devono fronteggiare le esigenze, le richieste e i bisogni di eventuali figli naturali e dei minori accolti e, contemporaneamente,‘sorvegliare’ le loro relazioni di nuova fratellanza/sorellanza
indiretta (Traverso, Azzari, & Frulli, 2014).
Elisabetta Musi, evocando l’esperienza generatrice della coppia, evidenzia il duplice movimento che spetta ai genitori: «accompagnare e lasciare andare» (Musi, 2011, p.54) che, nell’esercizio e impegno della casa famiglia, assume un significato ancora maggiore e più significativamente educativo. La capacità di saper lasciare andare quando sarà necessario dovrebbe essere «sin dall’inizio parte della progettazione educativa e costituire la cornice in cui si muove l’intervento» (Tosco, 2003, p.72). “Questo non vuol dire archiviare o saper dimenticare, ciò significa aver fatto un buon lavoro che permette al bambino o bambina di poter iniziare una nuova fase della propria vita oppure permettere un riallineamento della vita che si era interrotta precedentemente”. Ma sino a quel momento i genitori-educatori fanno una nuova esperienza (Mortari, 2007) della paura, della tensione verso l’altrui autonomia, degli incerti inizi e tentennamenti sino a rivivere il ritiro e «lasciargli la mano» (Musi, 2011, p.54).
Per quanto riguarda invece i requisiti necessari per organizzare una casa famiglia, essi dipendono dalle varie regioni dove le strutture sono ubicate. La struttura deve presentare i caratteri della civile abitazione e «deve essere situata in zone dotate di una rete accessibile ai servizi generali, educativi e ricreativo- culturali tale da permettere la partecipazione alla vita sociale del territorio e facilitare le visite degli ospiti esterni» (Traverso, Azzari, & Frulli, 2014).
Vanna Iori, nel suo testo Fondamenti pedagogici e trasformazioni familiari, specifica la natura pedagogica della famiglia nelle sue dimensioni operative e sociali caratterizzate da risorse di amore, sostegno e cura «che nessun servizio ‘esterno’, anche il più attento potrebbe offrire» (Iori, 2001, p.37). Questo confine è quello che la casa famiglia cerca di superare, offrendo tutte le proprie risorse e le potenzialità ai bambini che le necessitano. Quello che la casa famiglia fa è mettersi in discussione a livello sociale, culturale, affettivo e giuridico, avendo la consapevolezza e la fiducia nel successo educativo. Anche la natura dell’educazione si auspica tale successo. Il ruolo di queste case famiglia risulta molto importante ai fini di concedere ai bambini una nuova opportunità ed un’educazione negli anni più vulnerabili e complicati del loro sviluppo. Risulta a tal proposito molto importante il valore della progettazione delle fondamenta sulle quali la casa famiglia andrà aderigersi. Essa deve essere considerata sia come
soluzione abitativa, sia come ambiente protetto e luogo di cura (Traverso, Azzari, & Frulli, 2014).
4.2.3 Gli attori della casa famiglia:
Gli adulti impegnati nei processi di accoglienza sono in grado di ascoltare e di accogliere la soggettività e la biografia del bambino, sanno valorizzare le esperienze positive e affrontare quelle negative, sanno ascoltare i bisogni immediati e prefigurare quelli a venire, sanno mantenere la discrezione e garantire l’ambiente più idoneo alla crescita del benessere del bambino e della sua famiglia, sono adeguatamente formati sui diritti dell’infanzia e su come avere un approccio nella presa in carico centrato sui diritti. (Istituto degli Innocenti, 2018). Gli adulti che partecipano al progetto di accoglienza non si sostituiscono e non si sovrappongono ai genitori del bambinoaccolto. Essi sono chiamati: a osservare il principio del superiore interesse del bambino; a rispettare i suoi diritti; ad assicurare l’educazione, l’istruzione e la cura delle relazioni affettive; ad ascoltarlo, informarlo e coinvolgerlo nelle decisioni che lo riguardano; a rispettare e accettare la sua famiglia mantenendo rapporti positivi con essa, di concerto con i Servizi invianti e secondo le indicazioni dell’Autorità giudiziaria; a favorire il superamento delle difficoltà che hanno determinato il suo allontanamento dalla famiglia. Gli adulti impegnati nei processi di accoglienza sono persone competenti nel loro lavoro e nei loro compiti. Lo sviluppo di un’accoglienza mirata al benessere del bambino e al rispetto dei suoi diritti richiede un complesso e articolato sistema di interazione tra piùsoggetti istituzionali che va definito, programmato e monitorato in un quadro più ampio di sviluppo delle risorse accoglienti. La rete dei soggetti titolari di funzioni e competenze in materia diprevenzione e protezione dell’infanzia costituisce la “rete istituzionale di corresponsabilità” che, insieme alla valorizzazione del ruolo degli altri soggetti coinvolti, è il presupposto per una correttaed efficace gestione dei percorsi dell’accoglienza (Istituto degli Innocenti, 2018).
5. METODO5.1 Partecipanti
Sono quattro i testimoni privilegiati di questa analisi:
- la madre adottiva e affidataria: Sabrina;
- il figlio adottato: Paolo;
- due fratelli in affidamento: Filippo e Giorgia.
Sabrina è una donna di 54 anni sposata con Giulio da 28 anni. Ormai da più di 30 anni hanno deciso di dedicare e spendere la propria vita all’insegna degli altri. Genitori di due figli biologici, Francesco e Alessandro, e di un figlio adottato, Paolo (orfano speciale).
L’“avventura” dell’affidamento iniziò circa 21 anni fa, attraverso un affido part-time di una bambina di 3 anni, quando i figli propri avevano 4 e 5 anni. Da allora non si sono più fermati,passando da una bambina in affidamento, a raggiungere quota nove bambini in affidamento. Quella classica famiglia normale di 21 anni fa, adesso è diventata una casa famiglia popolata da quattordici persone e tantissimi animali. Oltre a fare accoglienza, G e S hanno potuto e continuano a dare il loro contributo per un tema molto delicato e che sta loro molto a cuore: il femminicidio e in particolare gli “orfani speciali”. Infatti, oltre a Paolo, orfano speciale, che è stato adottato, hanno voluto accogliere all’interno del loro nucleo familiare anche altri due casi di “orfani speciali”: Filippo e Giorgia.
Paolo, 24 anni adesso, aveva solamente 8 anni quando il padre, con una mazza dal baseball, ha ucciso sua madre. Dopo che si è ritrovato orfano di entrambi i genitori, e in mancanza di parenti che volessero la sua custodia, è stato adottato da G e S, per sua volontà e per quella della nuova famiglia. Ormai da più di 6 anni, Paolo è a tutti gli effetti un figlio della coppia e un fratello per Francesco e Alessandro.
Filippo e Giorgia, fratello e sorella, rispettivamente di 17 e 19 anni. Orfani da 4 anni, quando il padre, durante la notte, dopo aver tentato di soffocare la loro madre, le sferrò numerose coltellate in tutto il corpo, uccidendola. 3 anni fa entrarono a far parte della casa famiglia di Sabrina e Giulio, dopo aver trascorso 9 mesi in affidamento dal nonno paterno.
5.2 Contesto
La casa famiglia è composta dal nucleo familiare che comprende i genitori Sabrina e Giulio, che hanno due figli biologici: Francesco di 27 anni, Alessandro di 25 anni e Paolo 24, più altri 9 ragazzi in affidamento giudiziario. Questi ragazzi hanno tutti età diverse, partendo dalla ragazzina più piccola di 14 anni, fino ad arrivare a Simone, che ha 25 anni. Alcuni lavorano, altri invece studiano.A far compagnia alla loro presenza ci sono anche tantissimi animali, i quali forniscono il loro contributo attraverso la pet therapy, permettendo così ai bambini e ai ragazzi, vittime di tanti, troppi traumi, di imparare a prendersi cura di se stessi attraverso la cura degli animali stessi.
5.3 Raccolta dati
Le interviste si sono svolte all’interno della struttura e abbiamo impiegato poco più di due pomeriggi per portarle a termine, per un totale di circa 4/5 ore. Abbiamo utilizzato domande precedentemente da noi formulate di cui i partecipanti erano all’oscuro. L’intervista, inoltre, ha seguito una scaletta, la quale aveva lo scopo di indagare prima lo stato attuale del ragazzo, poi la misura in cui fosse stato esposto all’omicidio della madre, per giungere alla fine all’attuale relazione con i nuovi caregivers e l’idea che hanno o si sono fatti circa il femminicidio.
Inoltre, ogni riferimento alle vicende personali è stato omesso per non risalire all'identità delle varie situazioni personali ed è stato firmato da tutti un consenso informato, confluito poi in un lavoro di tesi. Per il ragazzo minorenne, il consenso informato è stato firmato da entrambi i genitori affidatari e dal nonno che rappresenta il suo tutore legale.
5.4 Strumenti
Gli strumenti che sono stati decisi di utilizzare sono le interviste semi strutturate e non strutturate.
5.5 Obiettivo
Ciò che vuole essere evidenziato non è tanto l'aspetto criminale dell'omicidio nella sua dinamica, ma il punto di vista dell'orfano, il suo racconto, il significato da esso vissuto e trasmesso, i suoibisogni che abbiamo visto essere spesso così distanti da
quello che gli adulti pensano essere nel loro interesse. Abbiamo voluto dare spazio anche al punto di vista della madre affidataria, cercando di fare emergere l’esperienza soggettiva derivante dall’accudimento di un orfano speciale, e se tale accudimento risulti in qualche modo differente da quello degli altri ragazzi in affidamento presenti sempre nella struttura.
Gli “orfani speciali”, e coloro che se ne prendono cura, meritano e necessitano di un ascolto maggiore.
6. TESTIMONIANZA MADRESabrina è una donna che ricopre più ruoli di madre, in quanto è biologica per alcuni, adottiva per un altro e affidataria per altri ancora. La sua storia, e la loro storia, se consideriamo tutta l’ampia famiglia, assume le caratteristiche di un racconto che trascende dalla considerazione di normalità. Questa storia, anche se da loro considerata quotidiana normalità, è una storia fuori dalle righe, è semplicemente una “storia diversa per gente normale”. Entrare in contatto con il dolore e i traumi di questi bambini è sempre sofferente. La sofferenza che li accompagna nel corso delle giornate diventa tangibile. Come è allo stesso tempo difficoltoso assumere i ruoli di genitori quando sono proprio queste le figure che hanno generato e continuano a generare malessere negli orfani: da una parte la madre uccisa, dall’altra il padre omicida.
Sabrina racconta cosa vuol dire essere madre affidataria e adottiva di orfani speciali e di ragazzi in affidamento, mostrandoci sia il suo entusiasmo nell’accogliere bambini in casa propria, sia le difficoltà che affrontano, affermando che “Quando accogliamo un bambino e/o minore presso il proprio nucleo familiare, vi è sempre un’attesa, un'emozione e tante domande che devono ricevere risposte future. Siamo molto consapevoli che le informazioni forniteci dal servizio sociale riguardanti il “caso”, non saranno mai del tutto aderenti alla realtà vissuta dal bambino”.
S continua nel suo racconto parlando di quei ragazzi che sono rimasti orfani a causa del padre che ha ucciso la madre, esprimendo così il peso che sono costretti a vivere, dichiarando appunto che “nel caso degli orfani speciali, per noi genitori, anche se affidatari, il carico emotivo è diverso rispetto agli altri vissuti. In questo caso la forte emozione intensa che riusciamo a provare deriva dalla consapevolezza e dalla certezza del dolore che li accompagna. È il lutto più grande che un bambino possa provare. Questi orfani porteranno con sé un fardello non per colpa loro, ma percolpa del padre. Sarà un fardello molto difficile da elaborare e da accettare. Sarà un fardello che, una volta varcata la porta di casa nostra, avranno sempre in spalla e noi cercheremo di aiutarli in tutti i modi e con tutti i mezzi”.
Il loro vissuto non rimane sicuramente indifferente a coloro che decidono di occuparsi di questi ragazzi, riescono a far percepire e provare sentimenti non usuali, come si evince da quando S ha detto che “la tristezza espressa dai loro volti e il dolore profondo che si può facilmente leggere neiloro occhi, trasmettono una sensazione di
inadeguatezza e impotenza. Io molte volte mi sento inadeguata e impotente. Non ho mai cercato di fare l’impossibile, non ho mai cercato di prendere il posto delle loro madri, non ho mai cercato di farmi vedere migliore dei loro genitori. Nelle vite di questi ragazzi ci muoviamo, soprattutto all’inizio, in punta di piedi, con grande rispetto, osservando e ascoltando tanto”. Il lavoro che persone, educatori e genitori come S e G si ritrovano a dover ricoprire non è una cosa di semplice conto. Devono essere in grado di “creare per loro un punto di riferimento importante, presente, su cui poter contare, cercando di essere in qualche modo una boa in mezzo al mare alla quale potersi aggrappare”.
Allo stesso tempo devono essere abili e capaci nel salvaguardare l’integrità del bambino, non distruggendo tutto ciò a cui si sente di appartenere o da dove proviene, infatti come si può ascoltare dalle parole della madre affidataria: “la mamma, che è una vittima, non può essere messa in discussione; il padre che è il carnefice non può essere distrutto nella sua totalità. Questi bambini sono il frutto dell’unione di queste due persone e affinché i bambini possano essere salvati, devono essere salvati anche i genitori. I bambini essendo nati da queste persone, soprattutto da un babbo che è riuscito ad uccidere la loro mamma, se venisse annientato, loro si sentirebbero distrutti, perché si sentono comunque di appartenergli, e se distruggi la figura che ti ha messo al mondo, è come se distruggessi anche il figlio. Salvando i genitori, in qualche modo è come se si salvassero anche loro”.
S sottolinea anche l’importanza dell’accoglienza, la necessità della formazione degli operatori e la loro professionalità, enfatizzando come: “chi accoglie ha l’obbligo di essere preparato, di essere neutrale, di fare tutto il possibile per aiutare questi bambini nell’elaborare il proprio lutto e i propri traumi”.
Una distinzione, emersa durante l’intervista con Sabrina, riguarda l’età a cui un/a bambino/a o un ragazzo/a si ritrova ad essere esposto al femminicidio. I genitori affidatari hanno riscontrato meno difficoltà e stress quando si ritrovano ad accogliere ragazzi di età maggiore, “quando i ragazzi sono più grandi ci è risultato più semplice o comunque più facile instaurare da subito un dialogodove loro hanno potuto e sono stati in grado di raccontarsi”.
Per quanto riguarda le richieste o particolari tipologie di esigenze, non abbiamo riscontratodifferenze così cospicue nelle parole di S, la quale ha affermato molto
precisamente come “ogni bambino ha bisogno di essere trattato singolarmente, in modo esclusivo. Hanno bisogno di sentirsi di appartenere a qualcuno, di essere parte di qualcosa, di essere speciali ed esclusivi”.
Altro concetto, a parere nostro molto importante, che è emerso dalle parole di S è quello di normalità. Ha chiarito molto bene come “la normalità è specialità per chi di normale non ha mai avuto niente. Avere un babbo e una mamma, anche se è normale, è una cosa esclusiva. Essere amati, essere accettati, essere voluti, sono tutte cose apparentemente normali, ma che non tutti hanno potuto vivere o tuttora non stanno vivendo”.
Inoltre, per quanto riguarda le possibili differenze tra un affidamento “normale” e quello di un “orfano speciale” può sicuramente essere riconducibile in “ciò che viene suscitato in noi operatori e noi genitori. Ciò che ho provato in prima persona è stata la paura di non essere capace, la risonanza che un caso del genere potrebbe portare con sé, la posizione esposta che siamo tenuti a prendere. In più a questo posso aggiungere che sono stata spaventata dalle possibili ripercussioni di un dolore così particolare nei confronti degli altri figli, la paura che il disagio travolgesse e coinvolgesse eccessivamente i bambini della casa”. Queste sono parole di una madre, che, comeruolo genitoriale, nutre nei confronti di tutti i figli presenti all’interno della propria famiglia, sentimenti di tutela e famiglia.
Altra emozione provata e raccontateci da S, sempre inerente all’affido di questa particolare categoria di orfani, è quella che coincide proprio con il senso di colpa. Questo sentimento viene descritto da S così: “Era un senso di colpa dovuto al fatto che io era come se avessi potuto “beneficiare” del bambino poiché la madre non poteva più; io potevo e lei no”.
Tornando a ciò che i genitori affidatari hanno il compito di fare, ma soprattutto si ritrovano a dover affrontare, in modo tale che questi orfani così possano avere una crescita sana e con i giusti valori, coincide con la rivalorizzazione delle figure genitoriali, sia quella maschile che quella femminile. S ci illustra i due punti di vista, quello suo e quello di suo marito: “Dal punto di vista dell’uomo, quindi in questo caso di mio marito, il lavoro che ha dovuto fare lui è stato molto impegnativo. Era importante per questi ragazzi mostrare loro, attraverso azioni concrete, esperienze e praticità, che esiste altro oltre al mondo che fino a quel momento hanno vissuto.La
violenza non è associata alla forza, ma è sinonimo di debolezza e insicurezza. Amare una donna nonvuol dire picchiarla o usare violenza, amare vuol dire libertà, protezione e rispetto. Era fondamentale dare a questi bambini e ragazzi un contesto privo di violenza con valori corretti, e G, essendo la figura maschile di riferimento, in questo caso è stato sempre impeccabilmente eccezionale”.
Altro tema fondamentale che deve essere affrontato è quello relativo all’importanza della figura della donna e al significato che essa ha: “molte volte l’immagine della madre fornita dal padre è distorta, vengono “mostrate” cose non vere e vengono manipolati i figli. La donna merita rispetto, la donna deve essere rispettata”.
Infine, S ha espresso il fatto che ragazzi colpiti da un dolore così profondo e da un trauma cosìunico, li faccia sentire parte di un qualcosa. Condividere “lo stesso evento traumatico li faceva sentire in sintonia, li accomuna. Come li accomuna il fatto di sentirsi soli di fronte al bagagliopesante che devono portarsi dietro. Per loro è come se agli altri non interessasse il loro vissuto, a nessuno importa la loro storia. È questa la solitudine che li accomuna”.
Sabrina racconta l’esperienza del primo affidamento di un orfano speciale, divenuto poi successivamente anche figlio adottivo (Paolo). Ci racconta di quanto siano stati impegnativi,faticosi, distruggenti e commoventi i primi giorni di accoglienza, che erano anche i primi giorni successivi all’uccisione della propria madre. Ricorda come Paolo “trascorre le notti senza dormire. Ogni notte piano piano… e non poi così piano, entra nella mia camera mi tocca il volto, piange ed è in preda al terrore. Mi sveglia dicendomi che ha paura che durante il sonno io mi possa trasformare come la sua mamma… che il mio volto possa diventare vecchio all'improvviso”. Era la paura di un bambino di quasi 8 anni di poter assistere nuovamente a quell’episodio che lo segnò per tutta la vita. “Dorme e sogna, gli incubi lo accompagnano nel buio della sua camera e lui piange, si dispera, ha paura, teme che il signor Bianchi (il mostro-padre) possa arrivare di notte, prendere e portarlo lontano facendogli ancora del male”. L’unica cosa che S ci racconta di poter fare, insieme al marito e agli altri figli e bambini, è quello di rassicurarlo e di tranquillizzarlo. Quelle rassicurazioni che in pochi riescono a dare, se non il calore di una madre e della propria famiglia.
Nelle parole di S si possono riuscire a percepire sentimenti di protezione, tenerezza
e empatia, ma allo stesso tempo rabbia e indignazione per ciò che questi bambini così piccoli sono costretti a vivere, e molte volte anche ad assistere. “Forse sarebbe potuto essere evitato… forse qualcuno è responsabile di non aver voluto vedere bene e quindi intervenire… pcomprendere e voler conoscere ciò che Paolo ha visto, quale ultima scena della madre si portava con sé, abbiamo voluto vedere le foto del cadavere… Impensabile. Inconcepibile. Inaccettabile”.
S racconta anche del sostegno psicologico necessario per questi bambini e ragazzi successivamente all’accaduto, ci racconta di quanto sia indispensabile affrontare subito il trauma subito ed elaborare il lutto, e di come Paolo abbia intrapreso fin da subito un percorso psicologico: “Nel suo percorso incontra anche la dottoressa-psicologa Neri. Con lei ha affrontato i primi momenti e i primi dolori, ha dato un nome a ciò che sapeva, ma non osava dire e dirsi. Ovviamente questo percorso psicologico è stato accompagnato da tutto il lavoro che noi abbiamo fatto con lui a casa”.
Questi orfani speciali appunto non sono esenti da essere vittime di giudizi altrui e discriminazioni. S a tal proposito ci ha raccontato di un episodio avvenuto ai danni di Paolo, quando “durante l’ultimo anno delle elementari P ha dovuto affrontare anche la ferocia e il giudizio di un compagno e la cattiveria degli adulti che hanno parlato attraverso la bocca del figlio e del nipote… Sì, nipote di un nonno che conoscendo il babbo di P ha esordito dicendo che aveva fatto bene ad uccidere una moglie straniera e più giovane di lui, che sicuramente aveva avuto le sueragioni per farlo” oppure quando frequentava la scuola media, P ha dovuto affrontare i pregiudizi di una professoressa nei propri confronti, arrivando a convocare i genitori affidatari in direzione e “allapresenza del preside e di alcune insegnanti ci fanno un quadro di P per come noi non lo conosciamo e io con tutta la forza di una madre che conosce il proprio cucciolo, controbatte e non accetta la loro versione dei fatti. Soprattutto delineano un quadro caratteriale e comportamentale di P che non lo rispecchia… ma non mi credono, anzi mi informano che i genitori sono sempre gli ultimi a conoscere i propri figli e che i figli fuori casa sono altro…”. Il ruolo di S e G in questi casi è quello di un genitore vero e proprio, perché questa coppia è e rappresenta i suoi genitori a tutti gli effetti.
I ragazzi in affidamento a famiglie affidatarie, e in questo caso ad una casa famiglia, possonoessere vere e proprie ancore di salvataggio per questi bambini e ragazzi che
hanno conosciuto e vissuto solamente violenze nelle loro mura di casa. È di fondamentale importanza fornire a questi orfani ambienti dove la violenza non esista e trasmettere loro i giusti valori, soprattutto quando il padre biologico è come un dittatore “un uomo che non ha mai saputo cosa volesse dire amare, l’atto della separazione è nelle loro mani, ma quest’uomo non ha accettato la volontà di un’altra persona, di una donna, della madre di suo figlio. Queste rappresentano la volontà di privare un’altra persona del rispetto e della libertà. Lui detta la sua legge e lo fa per tutti, per tutti decide lui, per la madre e per il figlio”.
Molte volte la reazione di questi ragazzi è quella di discostarsi da ciò che hanno vissuto e dal genitore che li ha messi al mondo. Quello che cercano è un’appartenenza a qualcosa che riconoscono e che sentono come proprio, così Paolo “dopo tutto questo trascorso, prima che divenisse maggiorenne, espresse la propria volontà di essere da noi adottato. Si sentiva parte della nostra famiglia, si sentiva di appartenerci e noi di appartenergli. Grazie ad un grandissimo lavoro di tutte le persone che hanno lavorato per lui e per il suo benessere, P fu ufficialmente adottato nel mese di luglio, prima che diventasse maggiorenne, in un’atmosfera di profonda commozione e rinascita”.
Sabrina racconta, attraverso le prime fasi dell’accoglienza con Filippo e Giorgia, quanto, anche a distanza quasi di un anno dall’accaduto, i due fratelli, Giorgia in particolare mostri ancora profondi disagi a livello comportamentale e psichici: “Entrambi chiusi, entrambi sofferenti, lei risponde a mono sillabe sempre triste, musona, scontrosa. Ha avuto bisogno di tempo, di raccontare tanto anche di quella notte, delle botte, della paura, del padre padrone, di una madre che era assente dacasa e che aveva perso anche lei il senso della famiglia”.
Le conseguenze del femminicidio, come vista in precedenza, durante la rassegna della letteratura, comporti cambiamenti importanti sia subito dopo il trauma che anche nei mesi e anni successivi. Diventa tutto faticoso, anche le cose che vengono considerate di ordinaria monotonia assumono significati diversi, come potrebbe avvenire a livello scolastico “la scuola è un impegno per leiesagerato che la disorienta continuamente”.
Un altro punto centrale e veramente importante è il livello di fiducia che si desertifica sempre più, non si fidano più di nessuno questi ragazzi, poichè a tradire la loro fiducia è stato proprio ilgenitore biologico. Così questi orfani tenderanno a essere
diffidenti con le altre persone, soprattutto nei primi periodi, ma impareranno anche a riscoprirlo quelconcetto, affidandosi a persone che nutrono realmente sentimenti postivi e di amore nei loro confronti. Come si evince dal racconto di S “il ragazzo, poco espansivo e molto introverso, si mantiene sempre alla giusta distanza da me, come se il “lasciarsi andare” con la figura femminile lo potesse in qualche modo allontanare dal ricordo della madre. Segue molto di più mio marito, lo guarda, lo imita, impara tante cose da lui e con lui, nel corso di questi anni, si misurerà per le cose quotidiane anche con piccoli litigi. Io devo aspettare quasi tre anni prima che il ragazzo inizi con me una nuova relazione fatta di fiducia e racconti personali, chiedendo anche consigli per l’amore nutrito nei confronti di una ragazza. Attraverso il suo modo e le sue parole utilizzate per presentarmi alla ragazza, capisco quanto abbia camminato in questi anni, silenziosamente, piano piano e quanto spazio mi abbia fatto nel suo cuore e nella sua vita”.
Non dobbiamo dare per scontato che tutti noi abbiamo gli stessi tempi per compiere gli stessiprogressi, altrimenti potremmo vivere nello scoraggiamento che ciò che stiamo facendo non vada bene o rinunciare. Essere sempre dalla parte loro e sostenerli in ciò che fanno sarà sicuramente un modo che farà sì che gli orfani potranno acquisire consapevolezze e impareranno ad amarsi, concetti che S ci racconta: “noi adulti educatori, lavoriamo tanto su questi punti, rafforziamo la loro autostima, li raccontiamo visti dai nostri occhi (per noi sono eroi sopravvissuti ad una vera epropria guerra), li ammiriamo, li consideriamo molto forti, interessanti e unici, e con il loro permesso, davanti a loro, esprimiamo tutti i nostri pensieri leggendo nei loro occhi una certa fierezza. Sentirsi raccontare da chi ha stima in loro e da chi li ama, fa sì che possano rinascere sotto una nuova luce. Riescono a vedersi per come li vediamo noi e nell’osservarsi da questo nuovo punto di vista, imparano ad amarsi senza colpevolizzarsi”. Ciò che attraverso il racconto di S abbiamo potuto apprendere è il fatto che in tutti questi anni “avere un progetto di vita con loro, con ognuno di loro, permette al bambino di sognare, spingendosi lontano e per tanto tempo, senza temere e/o avere una scadenza di questo tempo”.
7. TESTIMONIANZA FIGLIO PAOLOPaolo, quasi 8 anni, quando il padre, durante una notte, uccise sua madre a colpi di mazza da baseball. Il bambino vide la madre sdraiata sul letto con il volto tumefatto, immersa in un mare di sangue. Rimasto orfano di entrambi i genitori (il padre fu arrestato e messo in carcere), chiese alla famiglia affidataria, di essere adottato, dopo aver sconfitto una malattia del sistema immunitario, scatenatasi conseguentemente al trauma subito. La sua richiesta fu felicemente soddisfatta e adesso P è a tutti gli effetti un figlio della coppia e un fratello per Francesco e Alessandro.
Nel corso di questi anni Paolo è cresciuto sia come ragazzo che come uomo e le difficoltà che ha affrontato e che tuttora affronta lo fa con un’altra prospettiva, attraverso il punto di vista di chi sa che ce l’ha fatta.
P si è raccontato a tutto tondo, descrivendoci il bambino che era, sia a livello di interazioni sociali, definendosi “un bambino abbastanza socievole, sicuramente da piccino parlavo di più, in generale […] con la gente che non conosco non ci parlo molto volentieri, sono diffidente”, questa diffidenza fa sì che P non si crei mai delle aspettative verso gli altri, rimanendo sempre con il pensiero fisso su ciò che di negativo potrebbe accadere “non mi aspetto mai niente da nessuno…penso molto di più alle cose negative che alle cose positive che potrebbero succedere e quindi sono anche più preparato mentalmente al peggio. É come se fossi già predisposto al rifiuto e alla parte negativa, così non mi creo nemmeno troppe aspettative positive”. Altra difficoltà che Paolo ha avuto sia da piccolo che da grande, quindi con cui continua a rapportarsi e che non lo fa stare bene, riguarda la relazione che intrattiene con le ragazze. Ciò che lo spaventa e lo mette a disagio è proprio l’interazione con il genere femminile: “mi rendo conto di non sapere come interagire con loro, mi sento a disagio. Da quando è morta la mia mamma è come se avessi costruito un’immagine della donna con la quale non mi riesce rapportarmi. Mi sento a disagio, è come se avessi paura di entrare in contatto con l’immagine da me creata…”.
P è sempre stato un bambino molto buono di carattere, anche se a livello psicologico e mentale “ero forse… senza forse, ero debole. Qualunque cosa mi dicessero reagivo piangendo o me laprendevo a male… tenevo il broncio e mi rovinavo la giornata”.
Inoltre si è raccontato anche a livello scolastico, non dimenticandosi delle difficoltà riscontrate nello svolgere i compiti dopo la morte della madre: “A livello scolastico son sempre andato abbastanza bene, tranne in terza e in quarta elementare, cioè da quando la mamma è morta. Non facevo più i compiti”.
Gli scogli che questi bambini si ritrovano a dover affrontare, oltre a livello psicologico, sociale e scolastico, riguardano anche quelli a livello fisico. Non sono pochi i bambini che somatizzano i loro disagi e traumi. P infatti racconta che “dopo che è successo l’accaduto invece mi sono ammalato… mi sentivo più stanco… ero fermo perché non potevo fare certe cose, perché a livello fisico non ce la facevo”.
La sua malattia era una malattia che aveva poche cure, nemmeno i medici sapevano come trattarla se non attraverso trasfusioni di plasma e cortisone. Si trattava di una “piastrinopenia”, ovvero P aveva un numero insufficiente di piastrine all’interno del sangue, le quali hanno un’importante funzione circa la coagulazione del sangue.
Questo è stato un periodo significativo per il bambino, in quanto fu vittima di giudizi da parte di altri bambini, affermando che “è stata dura quando prendevo il cortisone come cura per la malattia, ma perché ero gonfio”.
Per quanto riguarda invece il suo ambiente familiare, quando viveva ancora con i genitori biologici, P ci dice che “Il poco tempo che passavo in casa mi ricordo che stavo in camera chiuso a giocare con i modellini, però sentivo litigare i miei molto spesso […] Era diventata quasi la normalità che il babbo alzasse le mani, o comunque la voce, contro la mamma. Era normalità anche che la trattasse male. Per me era talmente quotidiano che era normale, non ci facevo nemmeno caso. Era normale vivere nella violenza […] mi ricordo che lo faceva molto a livello verbale, cedrano tante violenze verbali e psicologiche”. Il suo racconto rimanda inevitabilmente a violenze vissute all’interno delle mura di casa, rivolte in particolar modo nei confronti della madre. Il padre di P era un uomo che voleva comandare e controllare la vita della moglie e quella del figlio, come è possibile osservare nelle parole di P: “Non voleva nemmeno che usassi i vestiti o le cose che mi comprava la mamma. Mi teneva più lui sotto custodia se così possiamo dire, mi vestiva lui, mi gestiva lui, decideva sempre lui per me. Era quasi come se mi volesse manipolarmi, voleva farmi cambiare idea sulla mamma”. La visione dell’immagine che il padre di P voleva trasmettergli era distorta e non veritiera, ai fini di poter avere dalla sua parte il figlio.
Durante l’intervista Paolo ha cercato di raccontarci ciò che di quella notte atroce si ricorda, con lo sguardo rivolto nel vuoto e gli occhi serrati: “era durante la notte, mi svegliai e non mi ricordo se c'era già mio babbo in camera mia oppure no… comunque ho visto mia mamma, che dormiva in una stanza separata dal babbo in salotto… le ho visto la faccia distrutta…”. È questo quello che un bambino di 8 anni ha dovuto assistere, per colpa del padre. È questa l’immagine che lo ha tormentato e che continuerà a farlo. È questo l’ultimo ricordo che, niente di più di un bambino, ha della propria mamma. Essendo così piccolo non è riuscito subito a realizzare cosa stesse succedendo e il fatto che non avrebbe mai più rivisto sua madre, “lì per lì non pensavo potesse morire. Ho visto che stava male, che la situazione era tragica, ma pensavo poi sarebbe stato tutto uguale […] pensavo fosse un calabrone, mi ero fatto l'idea che l'aveva punta un calabrone perché avevamo i calabroni di fronte casa nostra”. Il dolore lo accompagna in tutte le sue giornate, oltre al dolore di non sapere e di non capire cosa sia successo, P stava male a livello fisico, “stavo male dalla mattina alla sera, mal di pancia forte, mi si stringeva lo stomaco e basta, mi ricordo questo… giocavo poco, stavo da solo, non mi ricordo nemmeno cosa facessi tutto il giorno, stavo in casa e basta. Anche se non pensavo alla mamma, non riuscivo a mangiare e stavo male, a prescindere da cosa stessi facendo”.
La svolta nella vita di quell’allora bambino si ha quando il tribunale decide per lui un affidamento giudiziario, e ad accoglierlo è stata una casa famiglia, quella di S e G. Quando Paolo parla di questi due genitori, i suoi genitori, perché quando avrà quasi raggiunto la maggiore età verrà adottato, lo fa sempre con molta tenerezza e compassione: “son stati fondamentali, tipo la figura della mamma ovviamente mi mancava, ed avere trovato Sabrina è stato importantissimo per me, è stato un vero e proprio appoggio, avevo ritrovato una figura femminile. Non mi è maimancato l’affetto da parte sua, la sentivo vicina sempre. Giulio invece mi ha formato come ragazzo e come uomo, ha permesso la mia crescita più a livello personale. Io come punto di riferimento ho lui […] entrambi mi hanno sempre dato tantissimo amore… Con G ho capito come stare al mondo, se vogliamo metterla così, e con S ho potuto riscoprire l’amore materno”.
Oltre all’importanza che assumono i nuovi caregivers e le persone vicine a questi orfani, tanto èdovuto anche ai percorsi terapeutici che essi intraprendono con
psicologi e con persone di supporto. Fondamentali sono gli interventi immediatamente successivi all’evento traumatico e l’assistenza che deve essere loro fornita. Dalle parole di P si può comprendere come ciò sia veritiero: “tutto quello che ho avuto mi è servito, soprattutto la terapia con la mia psicologa. Con lei ho elaborato il lutto per anni, delle volte si chiacchierava di qualsiasi cosa e delle volte si parlava proprio della scena dell’omicidio, attraverso i giochi mi ricordo. […] anche grazie alla S, G e ai ragazzi della casa famiglia, tutti hanno partecipato a darmi questo sostegno. Tutto è servito, qualunque rapporto mi ha fatto bene, aprirmi ed elaborare il dolore ha fatto sì che adesso ne possa parlarne liberamente e in modo aperto”.
Questi orfani speciali, nonostante siano esenti da qualsiasi forma di colpa, nutrono comunque emozioni e sentimenti contrastanti. La più frequente, legata all’uccisione della madre, è quella del senso di colpa. I figli si sentono in colpa e in parte responsabili della morte della propria madre. Paolo, anche lui, ha sperimentato questo sentimento e ci ha raccontato che “mi sono quasi sentito responsabile di avere voluto la mazza da baseball (oggetto attraverso il quale il padre ha ucciso la madre), e se non ci fosse stata in camera mia, magari la mamma sarebbe stata ancora viva”. Il dolore che questi ragazzi vivono è speciale, è unico, P dice che “era un dolore che preferivo tenere io, era meglio che lo sapessi io e pochi altri”.
Continuando con la nostra intervista e nella testimonianza di P, è emerso un altro fattore molto importante e riscontrato anche nel corso della letteratura precedente: il senso di appartenenza. Questi bambini o ragazzi che siano, rimangono orfani, non hanno più nessuno su cui possano contare. I genitori non ci sono più, i parenti poche volte li vogliono o li possono accogliere nelle lorocase e così rimangono soli, in balia di se stessi e nessun altro. Appartenere a qualcuno e a qualcosa è fondamentale per la loro sopravvivenza. P ci racconta come l’adozione e l’appartenenza ad una nuova famiglia sia stato così importante: “L'adozione sicuramente mi ha aiutato a lasciarmi ancora più alle spalle tutto quello che è accaduto, tutta la storia. È stato molto importante per me anche aver cambiato il cognome, un cognome dentro il quale non mi ci ritrovavo, un cognome che non era più il mio. L'adozione è stata la consacrazione dell’attaccamento che nutrivo, e tuttora nutro, nei confronti della mia nuova famiglia e del legame con tutti loro. Sono riuscito a ritrovare un senso di appartenenza a qualcosa e soprattutto a qualcuno”.
Appartenere a qualcuno implica necessariamente anche il non appartenere ad altri, e questi orfanivogliono distinguersi e differenziarsi da quegli “altri” lì. Nelle parole di P è possibile riscontrare la volontà di distinguersi da un padre diverso da lui, dichiarando che “mi sono sempre percepito come distinto e diverso da lui. Col tempo mi è venuta la consapevolezza che comunque siamo persone diverse, forse alcuni atteggiamenti ce li ho simili a loro, ma per me io sono unico, anzi credo che io sia più simile per abitudini, modi di fare e di parlare, alla famiglia di ora più che a quella vecchia”.
Infine, al termine dell’intervista, abbiamo voluto lasciare a P la libertà di poter formulare un proprio commento e la vicinanza a questo fenomeno che deve essere necessariamente combattuto e arrestato: “ci saranno sicuramente altri bambini che in questo momento o in questi giorni subiranno il mio stesso trauma e sicuramente mi sento molto vicino a loro. So che dolore sia, so cosa vuol dire provarlo e viverlo sulla propria pelle […] Penso che sia fondamentale parlare di questo fenomeno, perché pur quanto lontano pensiamo esso sia, è sicuramente molto più vicino a tutti noi. È bene sensibilizzare tutti e fare in modo che non continuino a verificarsi episodi come quello che ho dovuto vivere anche io. Dovremmo riuscire a fare in modo che i casi diminuiscano e credo che attraverso l’informazione e le testimonianze possiamo essere più vicini e a sostegno di chi vive violenze continue nelle proprie vite”.
8. TESTIMONIANZA FILIPPO E GIORGIAFilippo e Giorgia, fratello e sorella rispettivamente di 17 e 19 anni, sono due orfani speciali. Ilpadre, uomo siciliano adesso detenuto in carcere, quattro anni fa, durante una notte decise di sferrare numerose coltellate in tutto il corpo alla madre, uccidendola. Furono i due ragazzi, la mattina seguente, a chiamare i carabinieri e a dare l’allarme, non vedendo la madre e trovando il padre sul letto dopo che aveva tentato il suicidio.
Adesso questi piccoli adulti vivono con Sabrina e Giulio all’interno della casa famiglia, dopo nove mesi di affidamento al nonno paterno.
Proviamo a dare voce, attraverso il loro racconto e la loro storia, al dolore che li accompagna da questi anni e a calarsi nei loro panni cercando di comprendere le conseguenze ingenti che il femminicidio porta con sé.
Filippo e Giorgia sono molto timidi, non parlano molto e difficilmente si concedono a chiacchiere, ma sono accomunati dall’enorme mondo che si nasconde dietro i loro occhi le loro vite. Ricordare con loro gli episodi di violenza vissuti e i loro stati d’animo è commovente, fa stringere il cuore. Giorgia racconta che immediatamente dopo l’uccisione della madre si ricorda che “non mangiavo, avevo smesso di mangiare praticamente per un bel po' di tempo. Anche il dormire, non dormivo mai. Per nove mesi finché non sono arrivata qui (in casa famiglia) non ho mai dormito la notte, dormivo due ore a notte […] A me non sembrava vero quel che è successo, mi sembrava di vivere un sogno, un incubo”. Simili problemi fisici, sempre a seguito del trauma subito, vengono raccontati anche dal fratello Filippo: “dopo il fatto fisicamente son stato male, per un anno avevo sempre acidità di stomaco, non so perché… mangiavo e subito dopo stavo male, andavo in bagno e vomitavo”.
Conseguenze fisiche, psichiche, relazionali e scolastiche sono riscontrate nella maggior parte degli orfani di femminicidio studiati. Anche nei loro casi può essere riscontrata la stessa statistica vista nei capitoli precedenti e attraverso le loro parole è facilmente comprensibile quanto vissuto.Giorgia dice che “A livello scolastico invece… ehm… faceva schifo, cioè facevo schifo. Nel senso già prima non ero chissà come poi dopo, almeno l'ultimo anno alle superiore prima di cambiare scuola, quindi il secondo anno da quando è successo alla fine della scuola, boom… tutte materie sotto... non studiavo”, mentre il fratellino ha avuto più difficoltà sul fronte relazionale: “A livello
sociale per me è stato difficile, soprattutto distaccarsi da tutti gli amici e tutto quello che fino a quel momento era la nostra vita. Quando son venuto qui non è stato per niente facile all’inizio, ho dovuto praticamente riniziare tutto da zero. Una nuova vita, non conoscere nessuno, nulla…”.
La loro storia è sempre stata contornata da violenza, il contesto familiare in cui hanno vissuto fino all’adolescenza era prettamente carico di pesantezza, violenze e maltrattamenti. Giorgia ricorda che “in famiglia c’erano già le violenze, anche prima che avvenisse il fatto […] mio babbo ci ha sempre picchiato fin da piccoli, anche se R, nell'ultimo periodo, l'ha picchiato di più rispetto a me”.I fratelli definiscono l’atmosfera respirata all’interno delle mura di casa come pesante “entravi dentro casa e sentivi proprio tutto addosso tutto molto pesante, stressante…”. Filippo smise di cenare insieme alla famiglia e tornare tardi la sera già quando aveva 12 anni, a causa delle botte subite dal padre “io a cena non c'ero mai, soprattutto a 13 anni, anche a 12. Prima quando cenavamo insieme ai miei genitori litigavo sempre con papà, mi alzava sempre le mani”. Giorgia e Filippo non erano altro che due ragazzini adolescenti che cercavano a modo loro di evadere dal contesto opprimente in cui vivevano e dai maltrattamenti subiti. Connesso a tali violenze, emerge subito il ricordo di quando Giorgia, la mattina seguente al femminicidio commesso dal padre (che ha poi tentato il suicidio), non trova la madre in camera da letto e scatta in lei subito l’allarme “vado di là (in camera della mamma), perché dormivano separati, apro la porta, ma non vedo la mia mamma e lì per lì non mi rendo conto di niente […] ho guardato per terra e poi li ho capito tutto. Sono andatain camera di mio babbo e anche lì era pieno di sangue… aveva provato a tagliarsi le vene”. Sono scene ed episodi che segneranno per sempre i due fratelli. Sono immagini indelebili che non potranno essere cancellate. Sono ricordi dolorosi tutte le volte che riemergono. Nonostante Giorgia avesse compreso la gravità dell’accaduto ci dice che “pensavo che inizialmente la mia mamma fosse andata fuori, fosse uscita… questo però lo credevo fino a quando non avevo visto il sangue […] Però io, lì, non pensavo che fosse morta, pensavo che la portassero all’ospedale… per mesi ho pensato che fosse all’ospedale… sognavo di andare a trovarla all’ospedale…”. Filippo, nonostante abbia visto e vissuto le medesime situazioni della sorella, le vive in altro modo. Filippo vuole subito comprendere la gravità e vuole subito essere consapevole di cosa stia accadendo, ci raccontacosì che “io invece l’ho scoperto guardando il
telegiornale… mi sono messo a guardare il telegiornale e l'ho saputo […] mi sono messo a guardare la tv perché volevo guardare il telegiornale per sapere cosa fosse realmente successo…”
I comportamenti di questi due fratelli sono indice di quanto sia fondamentale e indispensabile parlare con loro, renderli partecipi di ciò che sta succedendo e di come le loro vite si ritroveranno a dover essere sconvolte. Loro vogliono sapere, loro devono sapere, loro è giusto che sappiano.Troppe volte, anche nel loro caso, le persone che si prendono cura nei giorni o mesi successivi all’accaduto preferiscono evitare di parlarne “non ne abbiamo mai parlato di quanto accaduto, solamente all’inizio ma pochissimo… alla fine no non ne abbiamo parlato”. È solamente attraverso l’elaborazione del lutto e del dolore che questi ragazzi hanno la possibilità di cominciare una nuova vita e acquisire consapevolezza.
Nel corso della testimonianza, Filippo e Giorgia hanno espresso anche quanto sia stato importante e utile per loro essere stati affidati a due genitori, e di conseguenza alla loro famiglia: “è stato… come si può dire, è stato tanto e incisivo”.
Giorgia menziona anche la sua psicologa, elogiando il percorso svolto insieme a lei: “ho fatto un percorso con una psicologa. Per i primi 9 mesi, finché ero dal nonno, ci andavo una o due volte asettimana. Ci andavo volentieri perché dopo mi rendevo conto che stavo meglio, mi liberavo, mi sentivo di avere la mente più libera”
Per quanto riguarda i sentimenti provati dai due ragazzi, quello che più è stato enfatizzato esottolineato da entrambi è stato il senso di colpa. Giorgia ci racconta come si è sentita: “io ho avuto tantissimi sensi di colpa, veramente troppi… continuavo a ripetermi che avrei potuto fare qualcosa… avrei potuto evitare che la mia mamma fosse uccisa se mi fossi alzata dal letto… io avevo sentito… però alla fine mi è rimasto tanto senso di colpa per tanto tempo. Mi sentivo in colpa anche per come trattavo la mamma […] perché ci son stata poco, perché potevo fare qualcosa ma non l'ho fatto”. Anche Filippo è stato invaso da questo sentimento e anche lui ha dovuto conviverci per diverso tempo: “anche io ho provato tanto senso di colpa, ma perché non sono mai stato incasa per colpa di quell’altro (il padre) … ci dovevo stare di più e invece non c'ero quasi mai…sentivo sensi di colpa perché non abbiamo mai passato del tempo insieme dopo quegli anni, da quando avevo 10 anni fino ai 14 anni… abbiamo passato troppo poco tempo insieme alla mamma”
Durante la testimonianza è stato affrontato anche la questione dell’affidamento ad una famiglia che non risiedeva nella stessa città degli orfani speciali e il conseguente cambio di vita, abitudini e relazioni. Filippo e Giorgia hanno rivelato che per loro “è stata una cosa positiva perché quando camminavamo in città, ogni passo, ogni volta che uscivamo dalla macchina o prendevamo un gelato, tutti ci guardavano, parlavano. È proprio una cosa fastidiosa. Tutte le persone passavano, ci fissavano e parlavano tra di loro […] mi faceva stare male questa cosa […] è stato un cambiamento che ci ha aiutati molto”. Quindi è stato un cambiamento vissuto positivamente, anche se comunque è risultato molto faticoso ricominciare da zero, senza conoscere nessuno.
Un fattore che i fratelli condividono e di cui loro si sentono caratterizzati, è la mancanza di fiducia che nutrono verso le altre persone. Giorgia dice che per lei “è come se mi sentissi tradita dentro da qualcosa che apparteneva anche a noi, che era anche nostra… […] da quel giorno non riesco a fidarmi molto delle persone, è una cosa difficile da spiegare”. Dalle loro parole possiamo capire quanto sia difficile convivere con sensazioni ed emozioni di questo tipo e quanto si siano generate in loro, in modo automatico, a causa del padre. Lo stesso padre di cui questi figli hannopaura di assomigliargli, lo stesso padre da cui vogliono assolutamente distinguersi. Le parole di filippo sono molto significative: “ho avuto paura di commettere la stessa cosa… all’inizio la vivevo male […] Adesso mi rendo conto che siamo proprio due persone diverse. So di non essere come lui”. Giorgia invece ammette che “la mia paura era quella di trovare dall’altra parte un uomo che potesse essere come mio babbo, iniziare una relazione con qualcuno che poi si rivelasse come lui”. Insomma, quello che entrambi i ragazzi fanno capire è che a modo proprio, relativamente all’appartenenza al proprio sesso, questo padre ha generato paure e difficoltà riguardo la figura maschile. Filippo ci dice che “ho avuto più timori e problemi nel rapportarmi l'aspetto del babbo… […] Parlare così, anche con G, all’inizio era veramente difficile, preferivo parlare con S, inveceadesso va molto molto meglio anche il nostro rapporto. È come se la figura del mio babbo mi avesse fatto avere difficoltà a parlare con altri uomini”.
Le preoccupazioni di Giorgia invece, da ragazza, sono riferite alla figura maschile con la quale si rapporta: “la mia preoccupazione ricadeva sempre sul fatto che magari, dopo una discussione o una litigata non avrei saputo che reazioni o comportamenti aspettarmi dall’altra parte. Un’altra cosache ho notato è che, ancora adesso, ho
difficoltà a relazionarmi con gli uomini grandi, adulti insomma”
Infine, quando siamo giunti al termine con le loro testimonianze, abbiamo lasciato loro spazio per dedicare un pensiero nei confronti del femminicidio e come loro si sentono a riguardo. Filippo ha descritto che “ogni volta che succede è come se sentissi sempre un piccolo vuoto che mi ritorna dentro… nel senso che dal giorno che è successo ho avuto un vuoto, un vuoto che sembra un peso da quanto è grande, e ogni volta che sento qualcosa che mi ricorda quel giorno, o notizie alla radio o alla tv, quel peso ritorna e poi se ne va via. È come se tutte le volte rivivessi lo stesso evento, tutte le volte ci ripenso… mi viene da pensare anche ad altri ragazzi che hanno subito la stessa cosa nostra…”. Mentre Giorgia, la sorella grande, ha fatto cadere i suoi pensieri sul fatto che: “comunque non siamo soli, noi abbiamo avuto la fortuna di trovare questa nuova famiglia e spero che anche altri ragazzi o bambini a cui è successa la nostra stessa cosa, possano essere fortunati quanto noi. Anche se mi ricordo i primi momenti, erano davvero difficili e la solitudine era l’unica cosa che faceva compagnia al dolore… quello che fa anche male è pensare ad altri bambini o ragazzi come noi che possano vivere questo lutto… è un qualcosa che non si può spiegare. Credo che il femminicidio non dovrebbe esistere, non è accettabile che ancora oggi si debba assistere a queste cose”.
Questi sono i pensieri, le emozioni e il vissuto di chi, a causa del proprio padre, si ritrova ingiustamente ad affrontare e a vivere.
9. CONCLUSIONIDalla rassegna della letteratura abbiamo potuto vedere quanto la violenza, e qualsiasi sua forma o tipologia, sia parte della vita di numerosissime persone e famiglie intere. In questo caso ci siamo soffermati ad osservare un fenomeno sempre ad essa connesso, ma che incarna la sua forma più estrema, rivolta verso le donne: il femminicidio. Il femminicidio è un fenomeno che colpisce il mondo intero, che oltre ad uccidere e ad annientare la donna, distrugge anche la vita dei suoi possibili figli, i cosiddetti “orfani speciali”. Abbiamo visto quanto sia importante per questi bambini e ragazzi il periodo immediatamente successivo all’evento traumatico, quanto sia fondamentale parlare ed aprirsi riguardo ciò che è accaduto, evitando di intraprendere la strada dell’indifferenza o evitare di parlarne. Questi orfani speciali devono saper perché sono diventati orfani, devono comprendere, capire ed elaborare quanto successo. Questi bambini rimangono orfani di entrambi i genitori, oltre alla madre che viene uccisa, anche il padre non farà parte della loro vita, in quanto arrestato o anche suicida. Così si ritroveranno a dover essere affidati o ad un’altra famiglia esterna ai fatti e ai legami, o a qualcuno della propria parentela. Nel nostro caso abbiamo potuto intervistare due ragazzi e una ragazza affidati ad una casa famiglia. Abbiamo visto nei loro sguardi, letto nei loro occhi e ascoltato dalle loro parole quanto fosse stato per loro importante trovare un nucleo familiare disposto a dar loro l’amore necessario di cui avevano bisogno. In particolar modo il ragazzo più grande, vittima del femminicidio di sua madre quando aveva solamente 8 anni. Per lui, che alla fine è stato anche adottato, il legame e l’appartenenza alla nuova famiglia, lo hanno salvato.
Tutti i ragazzi hanno condiviso il fatto che dopo l’accaduto sono stati invasi da sentimenti di colpa. Si sono sentiti in colpa per non essere intervenuti, si sono sentiti in colpa per non aver trascorso abbastanza tempo con la propria madre, si sono sentiti in colpa perché si sono sentiti in parte responsabili, di una responsabilità che però può appartenere a tanti, ma sicuramente non a loro. Anche il fatto di essere nati da un uomo che è riuscito a commettere un atto inspiegabile come è l’uccisione della propria compagna o moglie che sia, ha rappresentato e rappresenta per loro un dolore. Avvertono quindi la necessità di liberarsi da questo legame fondato ormai esclusivamente dal sangue comune, sanno di essere diversi e vogliono distinguersi da ciò che non sentono proprio, da ciò che sanno che non appartiene a loro.
Il senso di appartenenza dal quale vogliono fuggire lo ritrovano nelle nuove famiglie, nei nuovi legami con altri caregivers e fratelli che hanno trovato. Sentirsi di appartenere a persone che condividono i veri valori della famiglia, che si rispettano e rispettano le figure genitoriali dientrambi i sessi, sono ancore di salvezza per chi ha sempre vissuto e visto cose diverse.
Il nuovo contesto familiare nel quale saranno immersi i bambini o i ragazzi, privo da qualsiasi forma di violenza, rimarrà sempre un elemento essenziale per la loro crescita. Il lavoro che la nuova famiglia affidataria dovrà fare con questi orfani speciali sarà quello di ricostruire immagini veritiere e consone alle figure genitoriali. Dovranno quindi, sia a livello di coppia che a livello singolo, ricostruire e ristrutturare la visione del padre e della madre, oltre a quello di uomo e di donna. Il padre biologico le ha distrutte entrambe, quindi il lavoro da fare coincide con la dimostrazione, attraverso sì le parole, ma soprattutto attraverso gesti e fatti di cosa vuol dire essere una famiglia e quanto in realtà il sesso maschile e quello femminile siano differenti rispetto a quelli conosciuti fino a quel momento. Nessuno ha il dominio sull’altro, ma entrambi cooperano. Nessuno può permettersi di obbligare o decidere sempre per l’altro, ma entrambi sono liberi di scegliere. La parola e il concetto di violenza, deve essere escluso dal proprio nucleo familiare. Da parte della famiglia affidataria, in particolar modo per la madre, accogliere questi ragazzi è stato meraviglioso e doloroso allo stesso tempo. La grande differenza da lei percepita è dovuta all’età del bambino. Più questi orfani sono piccoli, più il carico emotivo è ingombrante.
L’altra grande differenza tra un bambino in affidamento e l’affidamento di un orfano speciale, deriva da ciò che questi ultimi riescono a evocare e a suscitare, a livello di emozioni, dolore e sentimenti, nella madre affidataria. Il loro vissuto è un vissuto speciale, come speciali sono le emozioni e i dolori che questi piccoli uomini, o piccole donne, si portano addosso e dentro di loro.La madre affidataria ha la percezione e prova senso di colpa relativo al fatto che il “godimento” di questi ragazzi, così speciali, derivi necessariamente dalla perdita della propria madre biologica.
È una sorta di “Io posso godere di questi bambini, la propria madre non più”.
Altra cosa che è emersa, sia dai racconti della madre affidataria, che da quella degli orfani speciali, è il concetto di normalità. La loro volontà è quella di percepirsi e vivere come persone“normali”. La normalità per chi non ha mai avuto la possibilità di poterla
vivere assume le caratteristiche della specialità. Essere normali per loro è come essere speciali. La normalità è semplicemente un privilegio. Gli orfani speciali si sentono unici e speciali nel loro dolore e nelle loro richieste, ma non normali.
In conclusione, quindi si può dire che il percorso con questa tipologia di orfani, pur quanto difficoltoso e faticoso sia, può avere riscontri positivi. Questi ragazzi possono e devono essere aiutati ad emergere dal loro dolore profondo. Sarà necessario l’aiuto di tante persone, a partire da quelle a loro più vicine, fino ad arrivare al contesto societario nel quale siamo immersi. Perché il femminicidio, oltre ad essere un fenomeno che si verifica all’interno delle proprie mura domestiche, è un fenomeno prettamente sociale. Se le persone riescono ad arrivare a compiere tali violenze è colpa anche di questa società misogina e patriarcale in cui viviamo. Tutti dobbiamo sentirci in qualche modo colpevoli, quando ad un bambino viene uccisa la madre per mano del padre. Dobbiamo sentirci in qualche modo responsabili della sua sofferenza e del suo dolore.
È quindi di fondamentale importanza sensibilizzare le persone e combattere il femminicidio, utilizzando anche le testimonianze di chi si è visto distruggere e portare via il proprio mondo, lo stesso che poi gli è “caduto addosso”. È necessario quindi cambiare e sradicare le radici alle quali questo fenomeno è ancorato, affinché possa avvenire una forma di cambiamento.
“Le parole di questi orfani sono più significative di tanti discorsi. Lasciamoli parlare, ma soprattutto cerchiamo e impariamo ad ascoltarli, anche solo in silenzio, accogliendo il loro dolorema dando dignità a loro e alle loro madri, che sono e devono essere per i loro figli e per la società tutta esempio di forza e grandezza, da ricordare per poter andare sempre più nella direzione di estirpare la violenza contro le donne” (Baldry, 2018, p.138).
APPENDICE A
S, cinquantaquattro anni, madre biologica e affidataria di 12 ragazzi, racconta cosa vuol dire essere madre affidataria e adottiva di orfani speciali e dei ragazzi in affidamento.
“Quando accogliamo un bambino e/o minore presso il proprio nucleo familiare, vi è sempre un’attesa, un'emozione e tante domande che devono ricevere risposte future. Siamo molto consapevoli che le informazioni forniteci dal servizio sociale riguardanti il “caso”, non saranno mai del tutto aderenti alla realtà vissuta dal bambino. Solitamente nel corso di un affidamento “normale” rimane la presenza dei genitori, o almeno di una figura genitoriale. Confrontandosi con queste figure e osservando la propria situazione, il bambino o ragazzo in affidamento riesce a capire e ad elaborare il motivo per il quale si trova a dover uscire dal proprio nucleo familiare ed entrare a far parte di un altro. Se il legame venisse completamente troncato, anche se in molti casi è doveroso, il rischio è quello che possa instaurarsi nella mente del figlio, un’idealizzazione sbagliata del genitore. In alcuni casi quello che un bambino potrebbe pensare è che il motivo della sua sofferenza e della sua lontananza dal genitore, sia a causa nostra, diventando così noi i “cattivi” che ci vogliamo prendere il suo possesso. Nel caso degli orfani speciali, per noi genitori, anche se affidatari, il carico emotivo è diverso rispetto agli altri vissuti. In questo caso la forte emozione intensa che riusciamo a provare deriva dalla consapevolezza e dalla certezza del dolore che li accompagna. È il lutto più grande che un bambino possa provare. Questi orfani porteranno con sé un fardello non per colpa loro, ma per colpa del padre. Sarà un fardello molto difficile da elaborare e da accettare. Sarà un fardello che, una volta varcata la porta di casa nostra, avranno sempre in spalla e noi cercheremo di aiutarli in tutti i modi e con tutti i mezzi. Questo peso è già un dato di fatto importante, pesante e ingombrante con il quale dobbiamo fin da subito fare i conti. La tristezza espressa dai loro volti e il dolore profondo che si può facilmente leggere nei loro occhi, trasmettono una sensazione di inadeguatezza e impotenza. Io molte volte mi sento inadeguata e impotente. Non ho mai cercato di fare l’impossibile, non ho mai cercato di prendere il posto delle loro madri, non ho mai cercato di farmi vedere migliore dei loro genitori. Nelle vite di questi ragazzi ci muoviamo, soprattutto all’inizio, in punta di piedi, con grande rispetto, osservando e ascoltando tanto. A
differenza degli altri bambini, i genitori degli orfani speciali non esistono più, sono orfani di entrambi i genitori. Non sempre poi hanno alle spalle una parentela presente, non sempre ci sono zii e/o nonni disponibili ad accompagnare, almeno come possono, questi bambini durante la loro crescita. L’essere orfano e il sentirsi orfano è uno status che porta all’incertezza su tutto.
Il nostro, il mio lavoro è stato sempre proprio questo: creare per loro un punto di riferimento importante, presente, su cui poter contare, cercando di essere in qualche modo una boa in mezzo al mare alla quale potersi aggrappare. La mamma, che è una vittima, non può essere messa in discussione; il padre che è il carnefice non può essere distrutto nella sua totalità. Questi bambini sono il frutto dell’unione di queste due persone e affinché i bambini possano essere salvati, devono essere salvati anche i genitori. I bambini essendo nati da queste persone, soprattutto da un babbo che è riuscito ad uccidere la loro mamma, se venisse annientato, loro si sentirebbero distrutti, perché si sentono comunque di appartenergli, e se distruggi la figura che ti ha messo al mondo, è come se distruggessi anche il figlio. Salvando i genitori, in qualche modo è come se si salvassero anche loro. Per questo motivo il collocamento degli orfani presso un nucleo familiare estraneo alla loro parentela, la quale potrebbe nutrire sentimenti e posizioni di parte, potrebbe risultare un’ottima scelta e un’ottima soluzione di accudimento. Chi accoglie ha l’obbligo di essere preparato, di essere neutrale, di fare tutto il possibile per aiutare questi bambini nell’elaborare il proprio lutto e i propri traumi.
Una distinzione da fare poi è in base anche all’età degli orfani. Quando i ragazzi sono più grandi ci è risultato più semplice o comunque più facile instaurare da subito un dialogo dove loro hanno potuto e sono stati in grado di raccontarsi. La nostra prima esperienza di femminicidio, con Paolo, un bambino di quasi 8 anni, è stata fondamentale. Il periodo dell’adolescenza, se da una parte ci spaventava, dall’altra ci ha aiutato. A livello di richieste, tutti i bambini hanno più o meno gli stessi bisogni ed esigenze; ogni trauma e ogni esperienza sono tra loro unici. Ogni bambino ha bisogno di essere trattato singolarmente, in modo esclusivo. Hanno bisogno di sentirsi di appartenere a qualcuno, di essere parte di qualcosa, di essere speciali ed esclusivi. Allo stesso tempo questecaratteristiche possono essere ritrovate nel concetto di normalità. La normalità è specialità per chi dinormale non ha mai avuto niente. Avere un babbo e una
mamma, anche se è normale, è una cosa esclusiva. Essere amati, essere accettati, essere voluti, sono tutte cose apparentemente normali, ma che non tutti hanno potuto vivere o tuttora non stanno vivendo.
La grande differenza tra orfani speciali e ragazzi, che possono non essere riconducibili a tale categoria, è la percezione e ciò che viene suscitato in noi operatori e noi genitori. Ciò che ho provato in prima persona è stata la paura di non essere capace, la risonanza che un caso del genere potrebbe portare con sé, la posizione esposta che siamo tenuti a prendere. In più a questo posso aggiungere che sono stata spaventata dalle possibili ripercussioni di un dolore così particolare nei confronti degli altri figli, la paura che il disagio travolgesse e coinvolgesse eccessivamente i bambini della casa. Nel corso dei mesi, da quando sono entrati a far parte della nostra famiglia iprimi orfani speciali, io e mio marito abbiamo avvertito subito il bisogno di parlare e confrontacicon altri operatori e psicologi. Condividere era come rigenerarsi, rafforzarsi e ci aiutava a ritrovare le energie necessarie per continuare a fare quello che avevamo deciso di cominciare.
Un’altra emozione, molto intensa e profonda, che sono arrivata a provare attraverso l’affidamento degli orfani speciali, soprattutto con il primo bambino (allora aveva solamente 7 anni), è quello del senso di colpa. Era un senso di colpa dovuto al fatto che io era come se avessi potuto “beneficiare” del bambino poiché la madre non poteva più; io potevo e lei no. Il dolore degli orfani speciali è un dolore che porta con sé molto arricchimento e tuttora continua a farlo. Siamo stati arricchiti per il fatto di poterci misurare a livello di sentimenti, nel pensare di poter fare un percorso insieme a questi bambini. Ci hanno reso orgogliosi dei traguardi che hanno raggiunto e delle conquiste che sono riusciti a fare. Vedere che ce l’hanno fatta quando sembrava impensabile, èuna delle sensazioni che continuano ad essere vive dentro di me.
Inoltre, abbiamo dovuto affrontare anche la rivalorizzazione delle figure genitoriali, sia quella maschile che quella femminile. Dal punto di vista dell’uomo, quindi in questo caso di mio marito, il lavoro che ha dovuto fare lui è stato molto impegnativo. Era importante per questi ragazzi mostrare loro, attraverso azioni concrete, esperienze e praticità, che esiste altro oltre al mondo che fino a quel momento hanno vissuto. La violenza non è associata alla forza, ma è sinonimo di debolezza e insicurezza. Amare una donna non vuol dire picchiarla o usare violenza, amare vuol dire libertà,protezione
e rispetto. Era fondamentale dare a questi bambini e ragazzi un contesto privo di violenza con valori corretti, e G, essendo la figura maschile di riferimento, in questo caso è stato sempre impeccabilmente eccezionale. Abbiamo dovuto inoltre affrontare anche il tema relativo all’importanza della figura della donna e al significato che essa ha. Molte volte l’immagine della madre fornita dal padre è distorta, vengono “mostrate” cose non vere e vengono manipolati i figli. La donna merita rispetto, la donna deve essere rispettata.
Infine, questi ragazzi hanno una sensibilità diversa, soprattutto anche tra coloro che condividono lo stesso lutto. Quando R, G e R si incontrarono per la prima volta, a detta loro, è come se si fossero riconosciuti. Condividere lo stesso evento traumatico li faceva sentire in sintonia, li accomuna. Come li accomuna il fatto di sentirsi soli di fronte al bagaglio pesante che devono portarsi dietro. Per loro è come se agli altri non interessasse il loro vissuto, a nessuno importa la loro storia. È questa la solitudine che li accomuna”.
Sabrina racconta l’esperienza del primo affidamento di un orfano speciale, divenuto poi successivamente anche figlio adottivo. Ascoltiamo i sentimenti e le emozioni che l’hanno travolta, ascoltiamo il dolore di un bambino di soli 7 anni che ha assistito all’uccisone della propria madre, per mano del padre.
“03 agosto 2005, una telefonata inaspettata…
Squilla il mio cellulare e dall'altro capo del telefono è Valeria Verdi, assistente sociale del nostro comune di residenza. Mi chiede se avessi letto i giornali, se avevo già sentito la notizia drammatica che era in prima pagina sulla Nazione. Io non avevo avuto ancora l'occasione di leggere niente e quindi sono all'oscuro di tutto, Giulio pure. Si parla di una giovane donna (32 anni) di nazionalità rumena, che durante la notte è stata uccisa dal marito più vecchio di lei di circa 31 anni (lui 63 anni), italiano, nel sonno che con una mazza da baseball decide di porre fine alla sua vita. Valeria ci assicura che fino a quel momento il bambino aveva vissuto più o meno una situazione quasi del tutto normale (scopriremo solo dopo che non è stato proprio questa la vita di Paolo, che e che in realtà di normale aveva visto ben poco) e ci chiede di decidere in pochissimo tempo, il tempo giustoper parlarne tra di noi e niente più. Io e Giulio eravamo in macchina, ne
abbiamo parlato, abbiamo commentato qualcosa ad alta voce che aveva il senso del niente e del tutto, le nostre paure, le nostre perplessità, il mettersi nei panni di un bimbo così distrutto da un dolore terribile. Sì, ci è stato detto che lui non aveva assistito a niente, che il padre ha fatto quel che ha fatto, ma “tranquilli, il babbo ha detto che il bambino non ha visto nulla”, è questa la rassicurazione importante del servizio sociale. Noi eravamo perplessi, ci vedevamo già con un bambino in frantumi, distrutto dal dolore, angosciato dalle paure e poi la nostra fantasia vagava inesorabilmente. Era la prima volta che ci capitava di dover affrontare una situazione così importante, ma già ci stavamo chiedendo se saremmo stati in grado di comprendere ed aiutare. Chiamiamo anche Silvano, presidente della nostra associazione, per un consiglio, un confronto. Chiediamo un suo parere, volevamo sapere se secondo lui avevamo le capacità necessarie. Facciamo bene se diciamo di accoglierlo? Saremo sufficientemente pronti? Ovviamente lui, che è un uomo dalle mille esperienze, ci dice: “e me lo chiedi? Se questi casi non li prendiamo noi, chi può occuparsene? chi?” Quindi, dopo il conforto ricevuto anche da un parere esterno, chiamo nuovamente Valeria, non sono trascorse neppure 2 ore e decidiamo di iniziare questa nuova avventura. Sì, prendiamo noi il bambino, fissiamo l'inserimento per il 5 agosto… il 5 Paolo sarebbe entrato in punta di piedi in casa nostra e nella nostra vita.
5 agosto 2005… Paolo arriva da noi.
La mattina del 5 agosto, io e Alessandro andiamo in motorino incontro alla famiglia Rossi amici dei suoi genitori, che ci aspetta all'uscita del casello autostradale di Calenzano. Ci scambiamo qualche parola, qualche sorriso, e faccio loro strada per condurli verso casa nostra. Piccolo di età, una grande tenerezza e spaurito, ma forte della sua innocenza. Parla con Alessandro, con Francesco, va a vedere gli animali, viene portato in camera, nella sua camera e per qualche giorno farà ricerca, collezione e raccolta di tutte le piume che troverà in giro nel nostro terreno. I signori Rossi si trattengono con noi a parlare un po’ e poi salutano e se ne vanno dietro una forte emozione da partedi tutti noi adulti che conoscevamo bene la verità e che forse in fondo in fondo un po’ tutti ci riteniamo responsabili, o quantomeno coinvolti da questo dolore che pensiamo e intravediamo in quel piccolo cuore di quel piccolo bambino-uomo. Sappiamo già che accusa mal di pancia da quella notte orribile, che non dorme, che in casa dei Rossi non trovava pace.
Con noi inizia piano piano un percorso...
Fa tenerezza, è spaurito, dolce, fragile e con lo sguardo che cerca ovunque, nel vuoto, nei nostri volti un cenno di sentimento, di attenzione e altro. Alessandro lo introduce nel meccanismo di casa, gli presenta i nostri animali, il nostro ambiente e per Paolo sarà un “tocca sana”, un “balsamo” per tanti dolori… Trascorre le notti senza dormire. Ogni notte piano piano… e non poi così piano, entra nella mia camera mi tocca il volto, piange ed è in preda al terrore. Mi sveglia dicendomi che ha paura che durante il sonno io mi possa trasformare come la sua mamma… che il mio volto possa diventare vecchio all'improvviso. Non osa neppure pensare che un gesto così brutale, così atroce si possa ripetere, ma questa è la sua paura, un'altra mamma, un'altra donna, un altro babbo, un altro uomo… la storia potrebbe ripetersi e quindi come si può scacciare questa paura? Due sconosciuti che non aveva mai visto fino ad oggi, che non osa pensare, che non osa credere diversi da quello che è stato il suo conoscere di bimbo, di fanciullo. Dorme e sogna, gli incubi lo accompagnano nel buio della sua camera e lui piange, si dispera, ha paura, teme che il signor Bianchi (il mostro-padre) possa arrivare di notte, prendere e portarlo lontano facendogli ancora del male. La mattina riparliamo tutti insieme di questi incubi, lo consoliamo, gli diciamo di non temere. Lui racconta che Francesco e Giulio, a turno, scacciano e battono in un confronto quest’uomo-bestia… e lui si rasserena e si tranquillizza, tanto ci siamo noi, noi che gli facciamo da scudo. Un giorno più angosciato del solito ci racconta un altro sogno… “stanotte ho sognato che il babbo si presentava alla porta… diventava acqua, passava sotto la porta e si ricomponeva in casa… ed io ero terrorizzato e quindi mi sono svegliato…” noi quindi lo rassicurammo dicendogli che non avrebbe dovuto avere paura, perché avremmo preso il cencio, lo avremmo asciugato e lo avremmo buttato via lontano da noi. Il giorno vive, cresce e impara a conoscerci e a conoscersi, e come tutti i bambini va a scuola e cerca di vivere una normalità, chiedendo il diritto ad essere bambino.
Per quanto riguarda l’episodio, Paolo, quella notte è stato la seconda vittima, anche se non è stato ucciso fisicamente, è stato ucciso psicologicamente, di fatto la seconda vittima c’è stata ed aveva quasi 8 anni… La scena in quella casa è stata terribile per un bambino piccolo che amava la sua famiglia. Giulio pochi giorni dopo entra in quella casa a prendere delle cose che P richiedeva; peluche, qualche gioco e le foto di famiglia… La casa era ancora come era stata lasciata quellanotte, il sangue ovunque:
sulle pareti, per terra, nel letto… l’odore nauseante e tutto ciò che si respirava in quella casa era morte. Giulio ne è rimasto sconvolto. Nessuno lo ha voluto accompagnare all’interno dell’appartamento, né le forze dell’ordine e neppure l’assistente sociale, tutti sono rimasti sul pianerottolo. La morte fa paura, la rabbia, la violenza e il senso di colpa paralizzano. Giulio invece vive il dolore per un bambino che ha dovuto assistere a tale scempio… forse sarebbe potuto essere evitato… forse qualcuno è responsabile di non aver voluto vedere bene e quindi intervenire… Successivamente per comprendere e voler conoscere ciò che Paolo ha visto, quale ultima scena dellamadre si portava con sé, abbiamo voluto vedere le foto del cadavere… Impensabile. Inconcepibile. Inaccettabile. Un bambino, il nostro bambino dovrà fare i conti con quella scena per tanto tempo, dentro di sé quel ricordo… quell’ultimo ricordo che non lo farà dormire per un anno intero e per i 2 anni successivi la malattia lo accompagnerà nel suo quotidiano…
Paolo non ha potuto accompagnare la madre al cimitero, è stata portata in Romania e lì seppellita, non c’è tomba sulla quale il suo bambino la possa piangere. I grandi che dovrebbero tutelare i piccoli e gli indifesi, come per tutta la vita di questo bambino, hanno messo la parola fine in un modo indegno… non è stato pensato, non è stato condiviso con lui niente, neppure un addio, che avrebbe dato delle risposte importanti al cuore di una creatura nel presente e forse nel suo domani. Per aiutare Paolo in questo, abbiamo creato poi qui da noi, nel nostro terreno, un luogo con una croce, dove il bambino se voleva e quando voleva, poteva portare dei fiori alla madre e pregare per lei e con lei.
Vita quotidiana…e la malattia di Paolo
Durante il primo Natale, dopo quattro mesi dal suo arrivo, trovo in giro per casa bigliettini scritti da lui… li trovo facilmente perché non li nasconde, in cuor suo lui vuole che io sappia, che io veda come si sente, cosa pensa e quanto sta male per la mancanza della sua mamma. In uno c'è scritto: “Gesù ti prego fai che la mia mamma faccia come te, falla risorgere o altrimenti aiutami a dimenticarla”. In me si scatenò un pianto a dirotto. In me si aggrovigliò un dolore immenso che si somma a quello di P, a quello della madre che non può godere di suo figlio. La storia di P tocca tutti noi, me, Giulio, i nostri figli biologici e tutti i bambini che abbiamo in quel momento in affidamento. P dopo un anno di insonnia e di incubi e di dolore immenso, decide di ammalarsi. Siper noi decide lui (ovviamente in modo del tutto inconscio) perché non
poteva più andare avanti così… non poteva più stare sveglio tutte le notti e rivivere quanto di più doloroso possa esserci… non poteva più sopportare la visione, l'idea e il dolore che gli impediva di andare avanti nella sua vita. Si ammala e viene ricoverato in ospedale... Tornando da scuola notiamo che P ha dei capillari rotti nel viso, lo vediamo stanco, strano, assente. Arrivati a casa si mette il pigiama perché lo invitiamo ad andare a letto e invece ci mostra degli ematomi enormi che lui si trova sulle gambe, erano presenti ovunque: schiena, fondo schiena, dietro alle gambe, sulla pancia… da lì comprendiamo che c'è qualcosa di importante che non funziona. Venne così ricoverato in ospedale per piastrinopenia, ci rimane tre giorni e poi dimesso con appuntamenti giornalieri in day hospital… verrà sottoposto a trasfusioni di immunoglobuline. I primi mesi gli appuntamenti sono fitti, poi nel tempo, piano piano si diradano da tutti i giorni, a ogni tre o quattro, poi una volta a settimana e così via… Siamo spaventati, preoccupati, non riescono a dirci molto su questa malattia e non ci sono cure, solo tanto troppo cortisone che lo farà gonfiare… A sette mesi dalla comparsa della malattia gli vengono fatti ulteriori accertamenti, fino al prelievo del midollo osseo per scagionare la possibilità della leucemia… Tutti gli esami sembrano andare bene, almeno per quanto riguardano le malattie conosciute… per la piastrinopenia invece non c'è nulla, e neppure si comprendere cosa la scateni e il perché. Viene conclamata cronica dopo i sette mesi e rimarrà nella vita di P e nella nostra per circa due anni. Non è facile, è difficile convivere con una malattia senza cura, con la paura di non riuscire a guarire, con la negazione per P di poter fare qualunque sport, perché ogni trauma potrebbe essere pericoloso per la sua salute. Allo stesso tempo devo dire che questa malattia ha creato tra noi e P un amore senza confini, ha creato intimità, ha creato un legame affettivo importante. P è stato meraviglioso, si è totalmente affidato, ha lasciato a noi il totale compito di accudirlo, curarlo e amarlo senza opporsi, senza obiezioni di nessun genere. Dal primo giorno del ricovero in ospedale, P ha ricominciato a dormire tutta la notte, non si sveglia più, non ha più gli incubi, il suo terrore passa in secondo piano, il suo dolore per la perdita della mamma e per aver visto il padre autore di un gesto così terribile finiscono in secondo piano. Adesso c'è questa salute che non è più salute, e P, non può pensare ad altro. Si impegna a stare meglio, si impegna a voler guarire, tutti facciamo il tifo per lui, ogni volta che fa gli esami del sangue speriamo in un'impennata delle piastrine, ma per poter esultare di gioia occorre aspettare due anni… Quelgiorno,
il giorno della guarigione conclamata, torniamo a casa dichiarando a tutti che P è guarito, che le piastrine sono ormai ad un valore normale… il Mayer lo ha dichiarato guarito. In quell'occasione davanti a degli amici Giulio lo presenta come “il nostro guarito” e lui risponde molto innocentemente: “ed ecco i miei guaritori” … e ancora oggi, quando lo racconto a voce alta, mi sale un groppo alla gola e le lacrime iniziano a scendere a fiumi…
P è stato un bambino buono, pacioccone, affettuoso e bisognoso di tanto amore, infinito amore. E' stata per noi una grande grazia poterlo avere nella nostra famiglia. Ancora oggi, ogni tanto tra la vergogna e il timore, gli dico che mi dispiace che sia qui con noi, per quel motivo così terribile, ma per noi è stata una gioia infinita, è stato un dono. Noi con lui abbiamo ritrovato la voglia di fareaffidamento (da più grande anche P pronuncerà più o meno le solite parole, il solito concetto). Lui ne è soddisfatto, è contento delle dichiarazioni d'amore e di affetto che da parte nostra riceve. Nel suo percorso incontra anche la dottoressa-psicologa Neri. Con lei ha affrontato i primi momenti e i primi dolori, ha dato un nome a ciò che sapeva, ma non osava dire e dirsi. Ovviamente questo percorso psicologico è stato accompagnato da tutto il lavoro che noi abbiamo fatto con lui a casa. Con piacere, dolore e amore affrontiamo con P ogni momento della nostra e della sua vita. Tutto quello che dal suo viso traspare, che dai suoi occhi si intravede, sono parte di lui, sono parte di noi. Con la dottoressa-psicologa Neri prosegue il percorso per circa 4 anni.
Scuola…elementari e medie
Passano gli anni delle elementari, dove dobbiamo (soprattutto il primo anno) contenere anche le ansie dei genitori dei compagni di P. I genitori non riescono e non sanno (così ci dicono) come affrontare con i propri figli il dramma di P, chiedono a noi… ma oggi con il lume di una ragione diversa penso anche che in loro vi fosse soprattutto tanta curiosità, erano loro i diretti interessati più che avere un interesse vero per i propri figli… Si fa tutto per la tranquillità di un figlio, si è fatto tutto quel che doveva essere fatto per fare in modo che P non si sentisse troppo guardato e giudicato, ma in quinta elementare, dietro richiesta proprio del bambino, abbiamo deciso di cambiare scuola perché lì era diventato tutto troppo stretto e giudicante. Durante l’ultimo anno delle elementari P ha dovuto affrontare anche la ferocia e il giudizio di un compagno e la cattiveria degli adulti chehanno parlato attraverso la bocca del figlio e
del nipote… Sì, nipote di un nonno che conoscendo il babbo di P ha esordito dicendo che aveva fatto bene ad uccidere una moglie straniera e più giovane di lui, che sicuramente aveva avuto le sue ragioni per farlo. Siamo ovviamente intervenuti affrontando con la famiglia in questione quanto era stato affermato dal figlio, che si è vergognata e scusata, addossando la responsabilità di tale giudizio ad un nonno anziano. Passano anche le medie, con le distrazioni di P, con l'atteggiamento di chi vive con la testa tra le nuvole e che viene frainteso nei propri modi di fare. In seconda media alcuni bambini danno fuoco in bagno a della carta igienica. P che passa di lì trova l'accendino e lo mette in tasca dei pantaloni, e come al solito con il suo solito modo di fare infantile e soprattutto ingenuo, lo mostra ai compagni di classe. Il preside entra in ogni classe e chiede ai ragazzi chi sia stato e chi abbia l'accendino in tasca… i compagni di P lo indicano. Paolo ingenuamente lo mostra e non riesce a sostenere altro. Da lì a poco ci convocano in direzione e alla presenza del preside e di alcune insegnanti ci fanno un quadro di P per come noi non lo conosciamo e io con tutta la forza di una madre che conosce il proprio cucciolo, controbatte e non accetta la loro versione dei fatti. Soprattutto delineano un quadro caratteriale e comportamentale di P che non lo rispecchia… ma non mi credono, anzi mi informano che i genitori sono sempre gli ultimi a conoscere i propri figli e che i figli fuori casa sono altro… In terza media l'insegnante che più lo accusava e lo credeva un mezzo furbetto calcolatore, durante un primo colloquio mi chiede scusa e mi dichiara che la ragione era la mia. P, a detta sua, è semplicemente meraviglioso, se ne era innamorata per la bontà e l'intelligenza di questo nostro figlio. Io ho pianto. Ho pianto stupidamente durante il colloquio con la professoressa. L'ho ringraziata per l'umiltà dimostratami e per la grande gioia che mi aveva restituito nel comprendere chi P fosse veramente. Grazie prof…
Tecnici decidono e pretendono….
In tutti questi anni trascorsi ci siamo sempre stati, P c'è sempre, lui ci cerca sempre tanto, noi loaccogliamo sempre, è nostro, di noi famiglia. Il babbo biologico dal carcere chiede di vederlo, P è ancora alle elementari e noi non vogliamo, non crediamo sia una cosa positiva per il bambino. P non vuole incontrarlo e quindi ci muoviamo insieme al suo tutore e alla psicologa per proteggerlo e per rispettare la sua volontà. Il giudice di allora per non prendere decisioni in prima persona chiede una perizia psicologica alla “Stella Maris”, dove il bambino sarebbe dovuto essere ricoverato 15 giorni.Quindi per
non lasciarlo in quell’ambiente, chiediamo di poterlo accompagnare tutti i giorni dalla mattina alla sera senza ricovero e ci viene accordato… Non ci piace l'ambiente, ne rimaniamo sconvolti… Giulio mi chiama per telefono quasi sconvolto per ciò che vede, per ciò che sente. P sembra non rendersi conto di niente, va a colloquio con i vari medici, disegna, scrive e viene osservato un po’ da solo, un po’ in compagnia di altri bambini. P prende le distanze da ciò che lo disturba, da ciò che è brutto, è particolare, sembra non capire o non voglia capire. Conclusa l'osservazione dopo circa 15 giorni, viene stabilito che il bambino non può incontrare il padre biologico perché ha subito un grave shock ed è per questo motivo che viene negata al padre la possibilità di incontrare il figlio.Tiriamo un grande sospiro di sollievo perché temevamo per P, il giudice accetta la perizia e il pericolo, almeno quel pericolo, è scampato… Avremmo fatto di tutto per tutelare P e la sua salute psichica e fisica, nessuno lo poteva obbligare…
Io osservo tanto P, sempre, leggo le sue espressioni del volto, la pelle che cambia, gli occhi che guardano fissi, gli occhi sgranati… cerco di comprendere le cose che non dice, ma che potrebbe pensare, temere e desiderare senza più poterle avere. Nel nostro vivere ogni tanto facciamo qualche accenno alla vita precedente, alle cose che faceva con la madre, con il padre, le cose buone (poche tutti insieme), le cose negate e quelle terribilmente tristi che lo confondevano e spaventavano tanto. P va molto d’accordo anche con Francesco e Alessandro, si assomigliano fisicamente, il volto in qualche modo ricorda anche quello degli altri miei figli… se non diciamo chi è nato da noi e chi no, nessuno li sa distinguere, sono fratelli nel cuore e nell’anima da sempre, da subito. Con Alessandro è più facile, è dolce e disponibile, e Paolo lo cerca tanto, si cercano tanto. Tra di loro corre solamente un anno di differenza… insieme sono di una dolcezza che scalda il cuore. Con Francesco il rapporto è tra fratello minore e fratello maggiore. Francesco è forte, deciso, protettivo e sicuro di sé… Paolo si appoggia a lui, si fa sostenere quando serve, lo ammira, guarda le sue destrezze e marachelle. Sono stati superati gli anni del timore che il babbo biologico in qualche modo si potesse fare avanti con qualche richiesta, e il condividere per due volte all’anno le giornate con la nonna materna. Sì, perché P aveva una nonna materna: Lucia. Lucia è una donna anziana, malata, che piange ancora tanto la figlia morta e che nutre disprezzo (comprensibile) per il suo carnefice… Lucia viene due volte all’anno dalla Romania, non parla italiano, ci capiamo tra gesti e qualcheparola in qua e là, ma tutto è sempre
molto vago e mai certo. Le volte che viene a trovarlo fa un lungo viaggio in autobus per vedere il nipote, ma lui non sembra apprezzarlo più di tanto. La rispetta, sicuramente le vuole anche bene, ma non è la sua famiglia. Forse lo è stata di riflesso quando la madre era viva, ma non è più la suafamiglia, non rappresenta per lui il presente, ne è il ricordo. Col passare del tempo anche i racconti di Lucia si fanno più dolorosi, brutali, non conosciuti da P e sicuramente neanche da parte nostra… Racconta di sua figlia già sposata in Romania da giovane, con un altro uomo, violento. Questo la picchiava e lei ebbe il coraggio di lasciare il paese e venire poi in Italia. Ci racconta di quanto non abbiano voluto vedere le violenze di un uomo brutale come il signor Bianchi, come tutto doveva essere fatto poi alla fine con i tempi giusti… la separazione… la casa alla mamma con il bambino… la nonna che doveva venire qui ad aiutarla e il padre che nonostante tutto tiene il figlio per la maggior parte del tempo, visto che ormai era un uomo in pensione. Ma i tempi e i modi non sono stati quelli giusti, anche se la legge li aveva ben dettati: casa alla madre con il minore, il padre chevede il minore per maggior tempo, il padre che lascia la casa i primi di settembre… l’atto della separazione è nelle loro mani, ma quest’uomo non ha accettato la volontà di un’altra persona, di una donna, della madre di suo figlio. Queste rappresentano la volontà di privare un’altra persona del rispetto e della libertà. Questo non è altro che un uomo che non ha mai saputo cosa volesse dire amare. Lui detta la sua legge e lo fa per tutti, per tutti decide lui, per la madre e per il figlio. Ho sempre cercato di tutelare P in tutto quello che era nelle mie corde, anche dai racconti di Lucia, troppo forti anche per me, di una figlia-madre raccontata in un modo così poco protettivo per se stessa e per la sua creatura… Una donna che non ha saputo vedere il pericolo per la propria vita e per quella di suo figlio.
Dopo tutto questo trascorso, Paolo, prima che divenisse maggiorenne, espresse la propria volontà di essere da noi adottato. Si sentiva parte della nostra famiglia, si sentiva di appartenerci e noi diappartenergli. Grazie ad un grandissimo lavoro di tutte le persone che hanno lavorato per lui e per il suo benessere, P fu ufficialmente adottato nel mese di luglio, prima che diventasse maggiorenne, in un’atmosfera di profonda commozione e rinascita”.
Sabrina racconta come ha vissuto le prime fasi dell’accoglienza con Filippo e Giorgia, e come tuttora la loro relazione stia proseguendo.
“Due fratelli maschio e femmina di 13 anni e 15 anni quando avvenne il femminicidio. Entrambi chiusi, entrambi sofferenti, lei risponde a mono sillabe sempre triste, musona, scontrosa. Ha avuto bisogno di tempo, di raccontare tanto anche di quella notte, delle botte, della paura, del padre padrone, di una madre che era assente da casa e che aveva perso anche lei il senso della famiglia. La ragazza chiede aiuto, va per poco più di un anno da una psicologa, si fa aiutare, accetta anche un piccolo aiuto farmacologico. La scuola è un impegno per lei esagerato che la disorienta continuamente, ci prova, ci riesce, una tappa importante per una persona che ha sempre avuto poca autostima. Con noi genitori affidatari instaura un buon rapporto, sembra che stia imparando a fidarsi, si confida anche sul suo orientamento sessuale, trovando in noi e nei ragazzi presenti in casa,persone disponibili ad accoglierla per come è e per ciò che sente. Il ragazzo invece, poco espansivo e molto introverso, si mantiene sempre alla giusta distanza da me, come se il “lasciarsi andare” conla figura femminile lo potesse in qualche modo allontanare dal ricordo della madre. Segue molto di più mio marito, lo guarda, lo imita, impara tante cose da lui e con lui, nel corso di questi anni, si misurerà per le cose quotidiane anche con piccoli litigi. Io devo aspettare quasi tre anni prima che il ragazzo inizi con me una nuova relazione fatta di fiducia e racconti personali, chiedendo anche consigli per l’amore nutrito nei confronti di una ragazza. Attraverso il suo modo e le sue parole utilizzate per presentarmi alla ragazza, capisco quanto abbia camminato in questi anni, silenziosamente, piano piano e quanto spazio mi abbia fatto nel suo cuore e nella sua vita. A volte non riusciamo a vedere immediatamente i progressi di questi ragazzi. A volte abbiamo paura a sperare che questo avvenga. Quindi dopo un po’ di tempo, anche il ragazzo inizia a raccontare della loro famiglia, di cosa non andava in casa, delle compagnie sbagliate che frequentavano, di come fossero soli, di come questo padre per lui non rappresenti più nulla. Se la ragazza in qualche modo ogni tanto racconta anche qualcosa di positivo del padre, il ragazzo non lo fa mai. Dal ragazzo è emerso che continua a sentirsi in colpa per non aver aiutato la madre quella notte, loro che erano in casa, di notte nella loro camera. Noi adulti educatori, lavoriamo tanto su questi punti, rafforziamo la loro autostima, li raccontiamo visti dai nostri occhi (per noi sono eroi sopravvissuti ad una vera e propria guerra), li ammiriamo, li consideriamo molto forti, interessanti e unici, e con il loro permesso, davanti a loro, esprimiamo tutti i nostri pensieri leggendo nei loro occhi una certafierezza. Sentirsi
raccontare da chi ha stima in loro e da chi li ama, fa sì che possano rinascere sotto una nuova luce. Riescono a vedersi per come li vediamo noi e nell’osservarsi da questo nuovo punto di vista, imparano ad amarsi senza colpevolizzarsi.
Ciò che abbiamo potuto appurare in tutti questi anni è che l’avere una progettualità di vita con loro, con ognuno di loro, permette al bambino di sognare, spingendosi lontano e per tanto tempo, senza temere e/o avere una scadenza di questo tempo”.
APPENDICE BPaolo, quasi 8 anni, quando il padre, durante una notte, uccise sua madre a colpi di mazza da baseball. Il bambino vide la madre sdraiata sul letto con il volto tumefatto, immersa in un mare di sangue. Rimasto orfano di entrambi i genitori (il padre fu arrestato e messo in carcere), chiese alla famiglia affidataria di essere adottato, dopo aver sconfitto una malattia del sistema immunitario, scatenatasi conseguentemente al trauma subito. La sua richiesta fu felicemente soddisfatta e adesso P è a tutti gli effetti un figlio della coppia e un fratello per Francesco e Alessandro.
Diamo voce al dolore e ai ricordi di quel bambino di 8 anni, che adesso ne ha quasi 24.
Come stai in questo momento e come sei stato conseguentemente all’omicidio, tenendo conto dei domini di funzionamento psicologico, sociale, fisico e accademico?
P: “allora… penso di essere sempre stato un bambino abbastanza socievole, sicuramente dapiccino parlavo di più, in generale. Con gli amici parlo anche ora sempre tanto, però con la gente che non conosco non ci parlo molto volentieri, sono diffidente. Quando la mamma è stata uccisa avevo 8 anni, e a livello psicologico ero forse… senza forse, ero debole. Qualunque cosa mi dicessero reagivo piangendo o me la prendevo a male… tenevo il broncio e mi rovinavo la giornata, sia prima che dopo quanto è successo. A livello scolastico son sempre andato abbastanza bene, tranne in terza e in quarta elementare, cioè da quando la mamma è morta. Non facevo più i compiti”.
A livello fisico invece? Differenze fra prima, dopo e tutt'ora?
P: “Prima manco mi rendevo conto, ero un bambino, correvo sempre, credo stessi bene… dopo che è successo l’accaduto invece mi sono ammalato… mi sentivo più stanco… ero fermo perché non potevo fare certe cose, perché a livello fisico non ce la facevo. E ora… ora sto bene. Mi sento anche abbastanza stabile psicologicamente, sono tranquillo, anche confrontandomi con altre personemi sento bene, niente da nascondere, sicuro di me più o meno.
Hai avuto dei periodi che son stati peggiori di altri?
P: “è stata dura quando prendevo il cortisone come cura per la malattia, ma perché ero gonfio.Poi quando andavo alle scuole medie, sia a livello fisico che psicologico, è
stata dura. Poi da dopo quello che è accaduto mi sento molto più diffidente nei confronti delle altre persone, e non mi aspetto mai niente da nessuno… penso molto di più alle cose negative che alle cose positive che potrebbero succedere e quindi sono anche più preparato mentalmente al peggio. Questo probabilmente credo che sia dovuto all’omicidio. É come se fossi già predisposto al rifiuto e alla parte negativa, così non mi creo nemmeno troppe aspettative positive”.
In famiglia, prima che avvenisse l’omicidio, erano presenti delle violenze o fattori di stress?
P: “allora… io in casa mi sembra non ci stessi tanto, non trascorrevo molto tempo lì. Il poco tempo che passavo in casa mi ricordo che stavo in camera chiuso a giocare con i modellini, però sentivo litigare i miei molto spesso. A me, mio babbo, non mi ha mai picchiato… non mi ricordo nemmeno se ho assistito quando mia mamma veniva picchiata, ormai ho rimosso quasi tutto. So per certo che succedeva… mi ricordo che lo faceva molto a livello verbale, cedrano tante violenze verbali e psicologiche. Non voleva nemmeno che usassi i vestiti o le cose che mi comprava la mamma. Mi teneva più lui sotto custodia se così possiamo dire, mi vestiva lui, mi gestiva lui, decideva sempre lui per me. Era quasi come se mi volesse manipolarmi, voleva farmi cambiare idea sulla mamma. Io mi ricordo ancora bene che dissi a un'amica di mio babbo che era quasi meglio lei come mamma rispetto alla mia, però era certo che non era vero, io stavo bene con lei. Quando mi portava a lavoro per esempio mi divertivo. Era come se mi volesse allontanare volontariamente dalla mamma e inculcarmi una sua immagine totalmente diversa da come realmente era”.
In che misura sei stato esposto all’omicidio?
P: “mmm… allora, non direttamente, ma subito dopo. Era durante la notte, mi svegliai e non mi ricordo se c'era già mio babbo in camera mia oppure no… comunque ho visto mia mamma, che dormiva in una stanza separata dal babbo in salotto… le ho visto la faccia distrutta… al buio fortunatamente tale immagine sia adesso meno vivida. Quindi sono stato esposto direttamente, ma non nel compimento dell’omicidio”.
Quindi l'hai scoperto te o ti è stato detto della morte della mamma?
P: “lì per lì non pensavo potesse morire. Ho visto che stava male, che la situazione era tragica, ma pensavo poi sarebbe stato tutto uguale. Mio babbo mi ha portato via subito dopo, quindi non honeanche visto poi com'è andata a finire ed essendo stato
portato in un'altra famiglia (amici del padre, in cui ci è stato per circa una decina di giorni) cercavano di tirarmi su il morale deviavano sempre il discorso. Non hanno mai parlato direttamente dell’accaduto.
Ti eri reso conto quindi della gravità della situazione?
P: “sì e no, non completamente… io pensavo fosse un calabrone, mi ero fatto l'idea che l'aveva punta un calabrone perché avevamo i calabroni di fronte casa nostra.
Quanto sono stati caotici i giorni immediatamente successivi all'omicidio per il bambino?
P: “in realtà non ho visto nessuno. Le forze dell'ordine credo di non averle mai viste, almeno all'inizio, anche se c'era un poliziotto che in realtà, disse che mi aveva conosciuto tramite questa storia, ma io non me la ricordo… quindi non sono sicuro di avere avuto rapporti con lui. È stato caotico il trascorrere le giornate, stavo male dalla mattina alla sera, mal di pancia forte, mi si stringeva lo stomaco e basta, mi ricordo questo… giocavo poco, stavo da solo, non mi ricordo nemmeno cosa facessi tutto il giorno, stavo in casa e basta. Anche se non pensavo alla mamma, non riuscivo a mangiare e stavo male, a prescindere da cosa stessi facendo”.
Come stanno e che importanza hanno avuto per te i nuovi caregivers, che sono poi diventati anche i tuoi genitori adottivi?
P: “eh… son stati fondamentali, tipo la figura della mamma ovviamente mi mancava, ed avere trovato Sabrina è stato importantissimo per me, è stato un vero e proprio appoggio, avevo ritrovato una figura femminile. Non mi è mai mancato l’affetto da parte sua, la sentivo vicina sempre, anche quando mi svegliavo la notte e andavo da lei… andavo sempre da lei… mi sentivo a mio agio conlei. Giulio invece mi ha formato come ragazzo e come uomo, ha permesso la mia crescita più a livello personale. Io come punto di riferimento ho lui, anche se per la parte affettiva gran parte l'ha fatto S… anche da parte di G ne ho sempre ricevuto tantissimo, entrambi mi hanno sempre dato tantissimo amore… Con G ho capito come stare al mondo, se vogliamo metterla così, e con S ho potuto riscoprire l’amore materno”.
Come hai vissuto il fatto che avresti dovuto instaurare un nuovo rapporto con una madre nuova che non era la tua?
P: “è venuto da sé, non che io l'abbia cercato, però era boh… forse quello di cui avevo bisogno,quindi è venuto da sé… poi forse son stati tutti molto bravi e aperti
nell’accogliermi, anche i fratelli e le sorelle, per cui non ho avuto neanche troppe difficoltà a prendere quello di cui necessitavo. Sono stati tutti molto altruisti nei miei confronti.
C'è stato qualche conflitto tra parenti in relazione all'omicidio e/o la tua situazione?
P: “io di parenti che mi ricordo c'era solamente la nonna, ovvero la mamma della mamma. Credo che sia stata male, ma non penso abbia avuto qualche conflitto, con me no sicuramente e da parte di mio babbo non c'erano parenti, non ho mai conosciuto nessuno”
C’è mai stata una qualsiasi forma di contatto tra te e tuo padre?
P: “mi ricordo che gli scrissi una lettera, ma sinceramente non mi ricordo neanche il perché… mi ricordo un giorno mi sedetti alla scrivania e ho scritto varie cose che mi tenevo dentro da tempo. Ricordo che volevo chiedergli soprattutto il motivo per cui l'ha fatto… ma non gliel’ho mai voluto spedire. Non volevo avere più contatti con lui. Da parte sua invece non ho mai ricevuto niente, forse mi ha cercato tramite amici suoi, però non ho mai avuto contatti, neanche dei nostri conoscenti ovicini della casa dove abitavo prima”.
Quale assistenza per la salute mentale ti è stata fornita prima, dopo e tuttora (e quali sono stati i risultati)?
P: “tutto quello che ho avuto mi è servito, soprattutto la terapia con la mia psicologa. Con lei ho elaborato il lutto per anni, delle volte si chiacchierava di qualsiasi cosa e delle volte si parlava proprio della scena dell’omicidio, attraverso i giochi mi ricordo. Si parlava molto dettagliatamente, e posso dire che mi sia servito… anche il riuscire a parlare è stato un passo avanti, anche grazie alla S, G e ai ragazzi della casa famiglia, tutti hanno partecipato a darmi questo sostegno. Tutto è servito, qualunque rapporto mi ha fatto bene, aprirmi ed elaborare il dolore ha fatto sì che adesso ne possa parlarne liberamente e in modo aperto.
Ti ha mai dato noia o è stato per te un problema il fatto che gli altri potessero sapere di quanto fosse accaduto all’interno della tua famiglia?
P: “un problema non lo è mai stato, però mi scocciava far loro sapere le mie cose, soprattutto perché mi dispiaceva raccontare una storia brutta e loro, di conseguenza, sarebbero potuti starmale. Era un dolore che preferivo tenere io, era meglio che lo
sapessi io e pochi altri.
Che sensazioni ed emozioni hai provato conseguentemente all’accaduto?
P: “sensi di colpa no, anche rimpianti no, rabbia forse l'ho avuta quando ero più piccino… anzi forse ad essere sincero un senso di colpa ce l’ho avuto… mi sono quasi sentito responsabile di avere voluto la mazza da baseball (oggetto attraverso il quale il padre ha ucciso la madre), e se non ci fosse stata in camera mia, magari la mamma sarebbe stata ancora viva. Per quanto riguarda invece le emozioni che ho nutrito nei confronti del babbo, all’inizio era quasi un odio, poi dopo, quando frequentavo la prima e la seconda superiore, era come se il mio babbo non fosse mai esistito. Ero indifferente a lui e a qualunque cosa gli potesse capitare… il che penso sia un bene”
Come hai vissuto l'adozione e come stai in questo momento?
P: “ora credo di stare bene, quasi in equilibrio con me stesso, quasi perché devo crescere ancora in molto, ho i miei difetti da migliorare… però credo sia del tutto normale. L'adozione sicuramente mi ha aiutato a lasciarmi ancora più alle spalle tutto quello che è accaduto, tutta la storia. È stato molto importante per me anche aver cambiato il cognome, un cognome dentro il quale non mi ci ritrovavo, un cognome che non era più il mio. L'adozione è stata la consacrazione dell’attaccamento che nutrivo, e tuttora nutro, nei confronti della mia nuova famiglia e del legame con tutti loro. Sono riuscito a ritrovare un senso di appartenenza a qualcosa e soprattutto a qualcuno”.
Hai mai avuto il timore o la paura di poter seguire le orme di tuo padre?
P: “ci ho pensato… pensare ci ho pensato più volte, però mi son sempre tranquillizzato da solo perché io sono un'altra persona, non ho niente a che fare in realtà con mio babbo e con mia mamma su quell’aspetto. Inoltre, non sono mai stato né un bambino né un ragazzo violento, quindi fortunatamente ho ancor meno probabilità di fare la sua fine (si riferisce al padre). Mi sono sempre percepito come distinto e diverso da lui. Col tempo mi è venuta la consapevolezza che comunque siamo persone diverse, forse alcuni atteggiamenti ce li ho simili a loro, ma per me io sono unico, anzi credo che io sia più simile per abitudini, modi di fare e di parlare, alla famiglia di ora più che a quella vecchia”.
Come ti senti nei confronti del femminicidio inteso come fenomeno?
P: “ci saranno sicuramente altri bambini che in questo momento o in questi giorni subiranno ilmio stesso trauma e sicuramente mi sento molto vicino a loro. So che
dolore sia, so cosa vuol dire provarlo e viverlo sulla propria pelle… non so dire se è meglio che succeda quando si è più piccoli o quando siamo più grandi… certo è il fatto che quando siamo più piccini non abbiamo i mezzi per elaborare il dolore, quindi è sicuramente più difficile, però devo dire che a me, nel male e nel dolore, alla fine è andata bene… Penso che sia fondamentale parlare di questo fenomeno, perché pur quanto lontano pensiamo esso sia, è sicuramente molto più vicino a tutti noi. È bene sensibilizzare tutti e fare in modo che non continuino a verificarsi episodi come quello che ho dovuto vivere anche io. Dovremmo riuscire a fare in modo che i casi diminuiscano e credo che attraverso l’informazione e le testimonianze possiamo essere più vicini e a sostegno di chi vive violenze continue nelle proprie vite”
Ti saresti mai aspettato che tuo padre potesse commettere un fatto così grande e così violento?
P: “mi verrebbe da dire di no… però ripensandoci adesso e vedere come vivevo, probabilmente direi di si. Era diventata quasi la normalità che il babbo alzasse le mani, o comunque la voce, contro la mamma. Era normalità anche che la trattasse male. Per me era talmente quotidiano che era normale, non ci facevo nemmeno caso. Era normale vivere nella violenza. Quindi direi che con gli occhi di prima non me lo sarei aspettato, ma con gli occhi e la maturità di adesso invece sì”.
Vuoi dire qualcos’altro?
P: “sì… avrei due cose da aggiungere… la prima riguarda il rapporto che ho avuto e ho instaurato con le ragazze, ma soprattutto con il genere femminile, da dopo l’accaduto. Mi rendo conto di non sapere come interagire con loro, mi sento a disagio. Da quando è morta la mia mamma è come se avessi costruito un’immagine della donna con la quale non mi riesce rapportarmi. Mi sento a disagio, è come se avessi paura di entrare in contatto con l’immagine da me creata…
La seconda cosa invece è un pensiero che ho fatto e riguarda il fatto che se tornassi indietro e dovesse succedere lo stesso episodio, mi andrebbe anche bene viverlo e accettarlo… non perché nonmi interessasse della mia mamma, ma per tutta l'evoluzione che è successa dopo… perché ho avuto la fortuna di trovare questa mia nuova famiglia, ho potuto crescere e trovarmi accudito da una mamma unica, un babbo meraviglioso e dei fratelli stupendi”.
APPENDICE CFilippo e Giorgia, fratello e sorella rispettivamente di 17 e 19 anni, sono due orfani speciali. Il padre, uomo siciliano adesso detenuto in carcere, quattro anni fa, durante una notte decise di sferrare numerose coltellate in tutto il corpo alla madre, uccidendola. Furono i due ragazzi, la mattina seguente, a chiamare i carabinieri e a dare l’allarme, non vedendo la madre e trovando il padre sul letto dopo che aveva tentato il suicidio.
Adesso questi piccoli adulti vivono con Sabrina e Giulio all’interno della casa famiglia, dopo nove mesi di affidamento al nonno paterno.
Proviamo a dare voce, attraverso il loro racconto e la loro storia, al dolore che li accompagna da questi anni e a calarsi nei loro panni cercando di comprendere le conseguenze ingenti che il femminicidio porta con sé.
Come state attualmente, tenendo conto dei domini di funzionamento psicologico, sociale, fisico e accademico?
G: “Io mi ricordo non mangiavo, avevo smesso di mangiare praticamente per un bel po' di tempo. Anche il dormire, non dormivo mai. Per nove mesi finché non sono arrivata qui (in casa famiglia) non ho mai dormito la notte, dormivo due ore a notte… qualche volta quattro… massimo quattro/cinque ore. A me non sembrava vero quel che è successo, mi sembrava di vivere un sogno, un incubo. Per un bel po’ di tempo l'ho sempre detto. Poi ora invece no, sto realizzando ancora. Non è comunque semplice ecco. Mi sento tuttora di stare elaborando la scomparsa della mamma. A livello scolastico invece… ehm… faceva schifo, cioè facevo schifo. Nel senso già prima non erochissà come poi dopo, almeno l'ultimo anno alle superiore prima di cambiare scuola, quindi il secondo anno da quando è successo alla fine della scuola, boom… tutte materie sotto... non studiavo. Da quando sono arrivata qui invece meglio. Non è stato per niente facile, ci ho messo del tempo, ma alla fine sono riuscita a studiare e a diplomarmi bene”
F: “Io dopo il fatto fisicamente son stato male, per un anno avevo sempre acidità di stomaco, non so perché… mangiavo e subito dopo stavo male, andavo in bagno e vomitavo. A livello sociale per me è stato difficile, soprattutto distaccarsi da tutti gli amici e tutto quello che fino a quel momentoera la nostra vita. Quando son venuto qui
non è stato per niente facile all’inizio, ho dovuto praticamente riniziare tutto da zero. Una nuova vita, non conoscere nessuno, nulla…
A scuola invece normale, come sempre, andavo abbastanza bene… cioè andavo bene…”
Qual è la storia familiare, in particolare per quanto riguarda le precedenti violenze e fattori di stress?
G: “In famiglia c’erano già le violenze, prima che avvenisse il fatto. Mi ricordo un evento… ce l'ho ancora stampato qui in testa. Ero all'asilo, tornai a casa e tipo non so se papà o mamma avevano litigato o io avevo fatto qualcosa, ma ero piccina. Avevo uno zainetto delle “Winx” e mio babbo me lo strappò, poi mi prese da qui (indicandosi la maglia tirata all’insù tra il petto e la gola), mi alzò e boom: mi sbatacchiò sul letto, ma forte. Comunque, mio babbo ci ha sempre picchiato fin da piccoli, anche se F, nell'ultimo periodo, l'ha picchiato di più rispetto a me”
F: “nulla quando ha iniziato a alzare le mani... vabbè c'era sempre un'aria pesa in casa quindi io a 10 anni ho iniziato a uscire da solo, tornavo tardi la sera alle 23, poi nulla stavo sempre lontano da casa, evitavo di tornare perché c'era un'aria pesa”
G: “si, cioè, proprio entravi dentro casa e sentivi proprio tutto addosso tutto molto pesante, stressante…”
F: “io a cena non c'ero mai, soprattutto a 13 anni, anche a 12. Prima quando cenavamo insieme ai miei genitori litigavo sempre con papà, mi alzava sempre le mani, praticamente tutte le volte che tornavo da scuola, dalle medie, ero alle medie… Quindi c’è stato un periodo che tornavo da scuola a pranzo, mangiavo e poi uscivo… tornavo alle 2 di notte a casa per evitare di vederlo, quindi cenavo qualche volta alle 2 o sennò non cenavo proprio…”
In che misura siete stati esposti all’omicidio?
G: “ahh allora io… io mi ricordo… sì me lo ricordo ancora… Stavo dormendo e sentivo dei rumori, tipo ahh ahh (cerca di riprodurre l’ansimare, dovuto allo strangolamento), così, però non capivo, perché ero mezza addormentata. A un certo punto ho sentito un rumore, come se una bottiglia di plastica fosse caduta per terra… boom… e mi è venuta in mente subito la mamma, subito. Non sapevo cosa fare, se alzarmi o rimanere sdraiata, poi ho detto: “no vabbè”, dovevo anche andare in bagno, ma ho lasciato perdere. Tanto stavo anche registrando… non so perché, maquella sera
si decise di registrare quello che si dicevano nella notte mamma e papà, e abbiamo registrato tutto… Quindi ho detto: "vabbè non mi alzo sento domani mattina la registrazione”.
F: “Io non ho sentito nulla… vabbè poi la mattina G si è svegliata e doveva...
G: “Si poi io mi son svegliata e dovevo prendere dei soldi che aveva mia mamma per comprare delle scarpe. Vado di là (in camera della mamma), perché dormivano separati, apro la porta, ma non vedo la mia mamma e lì per lì non mi rendo conto di niente. Poi butto l'occhio per terra e vedo il mio quaderno di grammatica e non capivo cosa ci facesse lì. Sono andata a prenderlo e c'erano tante goccioline di sangue… ho guardato per terra e poi li ho capito tutto. Sono andata poi in camera di mio babbo e anche lì era pieno di sangue… aveva provato a tagliarsi le vene”.
Come siete stati informati dell’accaduto?
G: “Io pensavo che inizialmente la mia mamma fosse andata fuori, fosse uscita… questo però lo credevo fino a quando non avevo visto il sangue… fortunatamente non l’abbiamo vista dopo che papà l’ha uccisa. Vivendo quella situazione mi è venuto di chiamare subito i carabinieri, l’ambulanza… quando sono arrivati, i carabinieri ci hanno spostato in cucina e mentre eravamo tutti lì, a un certo punto, è arrivata una guardia… Quelli dell'ambulanza quando sono entrati in casa sono andati ad assistere il mio babbo che si era tagliato le vene. Ad un certo punto, anche i carabinieri non trovavano la mamma e dicevano tipo: “non sappiamo dov’è la madre” … quelli dell'ambulanza quindi rispondono che l’avevano trovata loro e che però i bambini era meglio se non la vedessero… Però io, lì, non pensavo che fosse morta, pensavo che la portassero all’ospedale… per mesi ho pensato che fosse all’ospedale… sognavo di andare a trovarla all’ospedale… poi sono venuta a scoprire che era morta tramite un messaggio che mi ha mandato la mamma di una mia vecchia compagna di calcio… mi disse : “mi dispiace per quello che è successo, ti faccio le mie condoglianze, vorrei prendere il tuo dolore, tutto il tuo dolore ma non posso farlo, fammi sapere quando ci sarà il funerale”. Dopo questo messaggio non l’ho mai più vista e nemmeno sentita…”
F: “io invece l’ho scoperto guardando il telegiornale… mi sono messo a guardare il telegiornale e l'ho saputo. Siamo andati a dormire dal nonno, dopo che i carabinieri lo hanno chiamato e ci hanno accompagnati fino a casa sua. Non è venuto a prenderci lui perché i carabinieri avevano paura chesi potesse fare un incidente e ci hanno voluto
portare loro… siamo rimasti a pranzo lì, dopo pranzo lei è uscita (G), io invece mi sono messo a guardare la tv perché volevo guardare il telegiornale per sapere cosa fosse realmente successo…”
G: “ecco io la tv… mmm… i social… questa roba così non li ho proprio considerati… dopo parecchio tempo sono andata a vedere che cosa avevo su Instagram… avevo più di 500 messaggi e avevo paura di leggerli. Facevo finta di non aver capito, che non mi interessasse…”
Il nonno come si è comportato nel periodo che siete stati da lui?
G: “poverino come si doveva comportare, è anziano, non sapeva come comportarsi…”
F: “esatto, non ne abbiamo mai parlato di quanto accaduto, solamente all’inizio ma pochissimo… alla fine no non ne abbiamo parlato”
G: “all'inizio quando io stavo male, cercavo di non farmi mai vedere che stavo male, perché sennò lui mi chiedeva come stessi e dovevo per forza fare finta di stare bene. In realtà ero nervosa, rispondevo male a tutti, non dormivo, lui si arrabbiava se durante il sabato e la domenica mi svegliavo verso le 11:30/12:00. Mi diceva che dovevo dormire la sera, ma io non ce la facevo, non riuscivo proprio a dormire… quindi facevo finta di stare bene per non far preoccupare lui, però in realtà stavo male”
Quanto sono stati caotici i giorni immediatamente successivi all'omicidio?
G: il giorno successivo all’accaduto siamo andati in tribunale accompagnati e scortati dal capitano dei carabinieri del nostro paese. Eravamo seguiti da tanti poliziotti e carabinieri vestiti in borghese, con macchine nere. Sempre scortati siamo entrati dentro il tribunale e abbiamo parlato con il PM. Hanno fatto prima entrare me. Sono entrata lì, con il capitano dei carabinieri e per un'ora e mezzo/ un'ora e un quarto, ho spiegato tutto quello che avevo visto e tutto ciò che riguardava la nostra vita precedente, prima dell’omicidio… insomma tutti i problemi. Non è stato semplice… non è stato semplice essere buttati così li dentro il giorno subito dopo all’omicidio… non conoscevamo
F: “il giorno dell’udienza, qualche mese dopo, ci hanno fatto testimoniare nuovamente, a loro importava soprattutto che confermassimo quello che avevamo detto il giorno dopo l’omicidio… le stesse cose pari pari, che non era una cosa inventata insomma”
G: “ci hanno fatto delle domande anche da giù (loro si trovano in una stanza sopra
l’aula della sentenza) e però non è stato semplice nemmeno quello. Praticamente dovevamo, cioè almeno io, testimoniare contro il babbo”
Quanto è stato differente essere stati affidati al nonno in precedenza e poi essere affidati a due genitori in casa famiglia?
G: “è diverso”
F: “un nonno non ti può dare una stessa educazione che ti dà come si può dire… che ti danno due genitori… ovviamente… mmm… non riusciva a darci le attenzioni, le cure e quello di cui aveva bisogno in quel momento. Vabbè anche un babbo e una mamma non lo facevano, quindi…”
G: “ma più che altro non si rendeva conto che alcune cose non ce le poteva dire in quel momento. Non ha saputo prenderci nel dire le cose, non aveva empatia. Non è che lo facesse con cattiveria, però non ci pensava, ma ancora adesso lui ci dice delle cose… ci ha detto delle cose… che in realtà non ce le puoi dire ancora. Dovrebbe tutelarci tuttora sotto un certo aspetto”.
Invece a proposito dei nuovi caregivers?
F: “è stato… come si può dire, è stato tanto e incisivo”
G: “la prima volta che abbiamo conosciuto S, lei era con la psicologa Anna. Non conoscevamo nessuna delle due. Da quel momento è stata sempre presente, anche quando ancora non sapevamo di andare poi ad abitare insieme a lei e alla sua famiglia. È stata davvero importante per noi, sia lei che G, e lo sono tuttora”
C'è stato o c’è ancora qualche conflitto tra parenti in relazione all'omicidio e/o la situazione del bambino?
F: “i parenti della mamma sono scomparsi tutti, nessuno si è più fatto vedere. Il nonno era morto quando noi eravamo piccoli, è rimasta la nonna, cioè la mamma della mamma, ma anche di lei non sappiamo niente… non sappiamo nemmeno se è ancora viva o se è morta”
Quale assistenza per la salute mentale vi è stata fornita finora (e quali sono stati i risultati)?
F: “io son stato tipo un paio di volte dallo psicologo, ma non mi è piaciuto e non ci andavo volentieri… anche ora non ci andrei… c’è, ci andrei, ma non ce la faccio ad aprirmi in questo modo con un'altra persona. Ce la faccio a parlare con un mio amico, ma con uno psicologo così no, non mi riesce”
G: “io invece ho fatto un percorso con una psicologa. Per i primi 9 mesi, finché ero dal nonno, ci andavo una o due volte a settimana. Ci andavo volentieri perché dopo mi rendevo conto che stavo meglio, mi liberavo, mi sentivo di avere la mente più libera”
Quali sentimenti o emozioni vi hanno invaso dopo che tutto ciò è avvenuto?
G: “io ho avuto tantissimi sensi di colpa, veramente troppi… continuavo a ripetermi che avrei potuto fare qualcosa… avrei potuto evitare che la mia mamma fosse uccisa se mi fossi alzata dal letto… io avevo sentito… però alla fine mi è rimasto tanto senso di colpa per tanto tempo. Misentivo in colpa anche per come trattavo la mamma, perché in casa la trattavo male… negli ultimi tempi era diverso con lei il rapporto… però si sensi di colpa perché la trattavo di merda, perché ci son stata poco, perché potevo fare qualcosa ma non l'ho fatto”
F: “anche io ho provato tanto senso di colpa, ma perché non sono mai stato in casa per colpa di quell’altro (il padre) … ci dovevo stare di più e invece non c'ero quasi mai… sentivo sensi di colpa perché non abbiamo mai passato del tempo insieme dopo quegli anni, da quando avevo dieci anni fino ai 14 anni… abbiamo passato troppo poco tempo insieme alla mamma”
Invece che considerazione avete del babbo e di quello che è accaduto? G: “per me è una merda e rimane una merda “
F: “anche per me, è sempre stato una merda”
R e G: “quello che ha fatto non ha giustificazioni”
Come avete vissuto il fatto di cambiare città, relazioni e abitudini?
G: “è stata una cosa positiva perché quando camminavamo in città, ogni passo, ogni volta che uscivamo dalla macchina o prendevamo un gelato, tutti ci guardavano, parlavano. È proprio una cosa fastidiosa. Tutte le persone passavano, ci fissavano e parlavano tra di loro. Ora me ne frego di più, ma prima mi faceva stare male questa cosa… ora so perché guardano e la vivo diversamente. Comunque sì… è stato un cambiamento che ci ha aiutati molto. Cambiare mi ha aiutato anche con il fatto che a sette minuti da casa del nonno c'era il carcere, dove c'era papa… anche quello per me era una fonte di sofferenza e disagio”
F: “per me è stato faticoso ricominciare, senza nessuno che conosci, farsi una vita nuova, anche ora è un po' difficile. Non riesco ad aprirmi facilmente e quindi instaurare nuove amicizie non è stato semplice all’inizio…”
G: “poi senti la mancanza degli amici perché comunque almeno quelli che frequentavo io, la Martina... anche loro ci son sempre stati, fin da prima che succedesse questo, fino ad adesso… ci sono ancora quindi c'è sempre questo legame, mi piacerebbe vederle più spesso, anche se mi rendo conto che non è facile”
Com'è stato il fatto che il babbo ha ucciso la mamma e come è stato instaurare un nuovo legame con una madre che non è la vostra, ma che assume appunto il ruolo e il punto di riferimento materno?
F: “all' inizio devi prendere confidenza, quindi, è un po' difficile… soprattutto iniziare a fidarsi di nuovo di una persona che fino a quel momento non avevi mai visto”
G: “anche io l’ho vissuta simile a F, all’inizio ero diffidente e facevo fatica, adesso invece bene. Anche se comunque da quel giorno, non riesco a fidarmi molto delle persone, è una cosa difficile da spiegare… è come se mi sentissi tradita dentro da qualcosa che apparteneva anche a noi, che era anche nostra…”
F: “io all'inizio do sempre poca fiducia agli altri, sono un ragazzo che appunto non si apre molto, infatti non ho molti amici e sono sempre gli stessi…”
Hai mai avuto il timore o la paura di poter seguire le orme del babbo?
F: “ad essere sincero sì, mi è passata per la mente questa cosa… ho avuto paura di commettere la stessa cosa… all’inizio la vivevo male, poi quando sono arrivato nella casa famiglia sono stato meglio, non ho più avuto questi pensieri. Adesso mi rendo conto che siamo proprio due persone diverse. So di non essere come lui”.
Avete mai avuto paura o timore di poter rivivere una relazione come quella dei tuoi genitori?
F: “mm io no sinceramente”
G: “io invece sì… la mia paura era quella di trovare dall’altra parte un uomo che potesse essere come mio babbo, iniziare una relazione con qualcuno che poi si rivelasse come lui”.
Com'è stato approcciarsi ai ragazzi o alle ragazze dopo che si è verificato questo episodio?
F: “mah per me… è rimasto uguale più o meno. Ho avuto più timori e problemi nel rapportarmi l'aspetto del babbo… ecco questo sì, più che relazionarmi con ragazzi e ragazze. Parlare così, anche con G, all’inizio era veramente difficile, preferivo parlare con S, invece adesso va molto moltomeglio anche il nostro rapporto. È come se la
figura del mio babbo mi avesse fatto avere difficoltà a parlare con altri uomini”.
G: “anche io ero abbastanza tranquilla, non avevo tanti timori… la mia preoccupazione ricadeva sempre sul fatto che magari, dopo una discussione o una litigata non avrei saputo che reazioni o comportamenti aspettarmi dall’altra parte. Un’altra cosa che ho notato è che, ancora adesso, ho difficoltà a relazionarmi con gli uomini grandi, adulti insomma… mi ricordo ad esempio una volta che andai a fare ripetizioni da un ragazzo grande a casa sua, eravamo solamente io e lui, e da quando arrivai, fino a che non andai via, non sono riuscita a dire niente… non parlavo. Mentre col genere femminile sono tranquilla”.
Come vi sentite nei confronti del femminicidio inteso come fenomeno?
F: “ogni volta che succede è come se sentissi sempre un piccolo vuoto che mi ritorna dentro… nel senso che dal giorno che è successo ho avuto un vuoto, un vuoto che sembra un peso da quanto è grande, e ogni volta che sento qualcosa che mi ricorda quel giorno, o notizie alla radio o alla tv, quel peso ritorna e poi se ne va via. È come se tutte le volte rivivessi lo stesso evento, tutte le volte ci ripenso… mi viene da pensare anche ad altri ragazzi che hanno subito la stessa cosa nostra…
È come se esistesse un legame tra noi che abbiamo vissuto più o meno tutti lo stesso trauma.
Penso soprattutto a quei bambini più piccoli di me che hanno vissuto la perdita della loro mamma, sarà sicuramente più difficile affrontarla. Per me essere stato già autonomo mi ha aiutato”.
G: “quello che mi viene da pensare è che comunque non siamo soli, noi abbiamo avuto la fortuna di trovare questa nuova famiglia e spero che anche altri ragazzi o bambini a cui è successa la nostra stessa cosa, possano essere fortunati quanto noi. Anche se mi ricordo i primi momenti, erano davvero difficili e la solitudine era l’unica cosa che faceva compagnia al dolore… quello che fa anche male è pensare ad altri bambini o ragazzi come noi che possano vivere questo lutto… è un qualcosa che non si può spiegare. Credo che il femminicidio non dovrebbe esistere, non è accettabile che ancora oggi si debba assistere a queste cose”.
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RINGRAZIAMENTI
Vorrei ringraziare tutti coloro che hanno speso il loro tempo per aiutarmi nella stesura di questo elaborato.
Ringrazio la mia relatrice Barbara Giangrasso per la disponibilità mostrata nei miei confronti, per la sua gentilezza e costante presenza, ma soprattutto la ringrazio per aver fin da subito sposato questo argomento a me molto caro.
Ringrazio tutta la mia famiglia, sia per il sostegno che mi hanno sempre dato, sia per essersi concessi a interviste, aprendosi e smascherando i propri dolori.
Grazie anche a mia mamma, immensa donna, che si batte attivamente contro il femminicidio e contro la violenza.
Se due anni fa, dopo non essermi iscritto al test della magistrale, qualcuno fosse venuto da me e mi avesse detto: “non ti preoccupare, ce la farai ugualmente”, forse non ci avrei creduto. Mi ricordo i giorni trascorsi tra Milano e Firenze, tra le chiamate alla segreteria dell’università e quella alla Ile, tra lo sconforto del pianto e la positività di continuare a credere che sarebbe potuto andare bene.
Sono iniziati così questi ultimi due anni di università. Sono stati molto particolari, con gli esami svolti seduto davanti ad un computer e l’impossibilità di poter uscire. Sicuramente questo periodo mi ha concesso la possibilità di rivalutare il concetto di normalità e quotidianità che tutti noi, tutti i giorni, diamo per scontato. Siamo dovuti arrivare ad essere chiusi in casa per comprendere e ridare valore alla libertà che tutti i giorni abbiamo la possibilità di vivere. Quella libertà che risiedeva costantemente al bancone di Beppe, di fronte alla Bea che scekerava drink a fiumi.
Sembra incredibile come tutte le volte che penso o che mi viene chiesto della mia università, mi scorrono davanti agli occhi le immagini di quelle folli serate trascorse insieme, abbracciati davanti ad un bar che se non fosse stato per noi, se non fosse stato per tutti quegli sguardi, non avrebbe suscitato in me nessun interesse.
Ma tutte le volte, sia che ci passi davanti in macchina fisicamente che mentalmente, vedo Gabri, Berni e Massi con il drink in mano che si tuffano in discorsi profondi con un tasso alcolemico da non invidiare. Riesco a vedere la Fede mentre consuma sigarette insieme alla Caro e alla Dienni, sempre avvinghiata a Paiona, e viceversa. Nel frattempo, dalla via giungono Simo, la Vio e Albe, che con la sua camminata strana pure in mezzo a chi sa chi l’avrei riconosciuto… intanto la Serena non sa da chi andare a parlare, così nel dubbio intrattiene giusto quelle 4-5 conversazioni, mentre Luchino incanta, con le sue esperienze di mondo, tante damigelle assuefatte dalla sua bellezza. Gli occhi con cui sto guardando queste indelebili scene, non sono soli, sono accompagnati da quelli della Vale e dal cuore che non potrà che rimanere lì, oltre che in torretta, in piazza Alberti.
Questi ricordi che sanno di long island, risate e grida credo che non potranno mai essere cancellati, credo che vivranno sempre in me e risiederanno sempre nel groppo in gola che tutte le volte mi si crea…
Quindi non posso dirvi altro se non Grazie!
È grazie a tutte quelle serate trascorse in macchina in castellina, a bere birre e a fumare, che mi hanno fatto credere all’importanza dell’amicizia. Sono i pranzi e le cene a casa mia, che mi hanno permesso di comprendere la presenza. Sono le vigilie di Natale da Chicco che mi hanno fatto vivere la spensieratezza. Le nostre altalenanti abitudini costantemente immutevoli che ci caratterizzano e fanno sì che noi siamo e resteremo semplicemente noi, il team Lenci. Siete voi che avete tirato fuori parte della migliore parte di me, voi che siete ormai da tanto, parte di me.
Grazie a te, che anche quando non abbiamo potuto vederci, ci siamo sentiti e percepiti come appartenenti alla stessa famiglia.
Alla vale, che è riuscita a farmi aprire gli occhi riguardo tanti argomenti ed è riuscita a far sì che potessi condividere e credere fermamente in altri. Grazie a te che in questi anni di magistrale mi hai trasmesso la voglia, il desiderio e la forza di andare avanti e portare a termine tutto ciò che iniziassi. Grazie per aver preso la macchina alle 11 la sera, quando a mezzanotte scattava il lockdown e nessuno sapeva quanto sarebbe potuto durare. Grazie perché attraverso la tua tenacia e la tua determinazione riesco a ritrovarmi e a respirare. Grazie perché nei miei momenti più bui, tristi e difficili, anche senza saperlo, ci sei sempre stata. Grazie perché ogni volta mi guardi con quegli occhi che sprigionano amore e mi permetti di rinnovarlo e riscroprirlo ogni giorno, sempre di più.
Poi ci sono loro, la mia famiglia, quella biologica e quella acquisita, sorretti dalla Ile e Gerry, sempre presenti e sempre attenti ai bisogni di tutti. Non ho mai conosciuto persone che si spendessero per gli altri tanto quanto voi. Voi siete il mio esempio, e dovreste essere l’esempio per tanti. Chissà se sarò mai capace di fare solamente un briciolo di tutto quello che siete stati capaci di costruire voi due, da soli, in mezzo a migliaia di persone accecate dalla sordità dell’indifferenza.
A Jechi che attraverso le sue esperienze e mille lavori riesce a battere la strada dietro di sè, lasciandomi la possibilità di capire quale sia quella che devo percorrere io.
A Riccardo, Roger e Gioia, che attraverso la loro testimonianza hanno reso possibile la realizzazione di questa tesi e la voglia di comprendere e sentire la propria sofferenza.
A tutti i ragazzi e ragazze della casa, che a modo loro, rendono unico questo posto e questa famiglia.
Grazie anche ai miei nonni, gli unici nonni da me sentiti tali. Anche se distanti e vissuti poco, siete e resterete per sempre il nonno e la nonna migliori di tutti. Ogni chiamata non renderà mai giustizia al bene che nutro nei vostri confronti. Le vostre rughe e i vostri dolori sono i segni di chi il lavoro, l’onestà e l’umiltà hanno rappresentato i saldi principi e valori in cui credere.
Grazie a te che ci sei stato. Grazie per le serate trascorse insieme. Grazie per il vino bevuto e per quello versato. Grazie per i giorni trascorsi insieme consecutivamente tra grigliate e drink alle 11 di mattina. Grazie a te che mi hai dato l’opportunità di conoscerti e mi hai permesso di entrare nella tua intimità. Grazie a te, che con un tuo sorriso mi hai illuminato, con una tua parola sorretto e con uno sguardo salvato.
Grazie a te, che oggi, in uno dei momenti più importanti della mia vita, sei qui, accanto a me.
Credo che nella vita nulla avvenga a caso e che tutto ciò che quotidianamente facciamo abbia un senso. Qualsiasi incontro ha un suo perché. Ognuno di noi ha un compito. Ognuno di noi ha la propria missione. La speranza è quella di riuscire a capire quale sia la nostra e avere il coraggio e la determinazione nel portarla a termine.
Grazie a tutti, vi voglio bene! Andrew
Che cosa c'è Di più celeste Di un cielo che
Ha vinto mille tempeste
A.O.