Università degli Studi di Firenze
Facoltà di Scienze Politiche
“Cesare Alfieri”
Corso di Laurea in Scienze del Servizio Sociale
Tesi di Laurea in
Biografia, Cultura e Servizio Sociale
Comunità familiari come risorsa di elezione nell'affidamento di minori:
la casa-famiglia “Io sono mio”
Relatore: Bini Laura Candidato: Farris Valentina
Anno Accademico 2010/2011
INDICE
5
INTRODUZIONE
PARTE PRIMA
8
L'AFFIDAMENTO IN ITALIA
17
TIPOLOGIE DI ACCOGLIENZA PER I MINORI IN AFFIDAMENTO E REALTÀ TOSCANA
18
LA FAMIGLIA AFFIDATARIA
21
L'AFFIDAMENTO PRESSO STRUTTURE
21
Centro di pronta accoglienza per minori
22
Casa di accoglienza e gruppo appartamento
22
Comunità a dimensione familiare
23
Gruppo appartamento per adolescenti e giovani
23
Comunità familiare
29
IN QUALI CASI CONSIDERARE LA COMUNITÀ FAMILIARE COME SCELTA D'ELEZIONE
PARTE SECONDA
35
LE COMUNITÀ FAMILIARI NELLA REGIONE TOSCANA
36
L'ASSOCIAZIONE “LE C.A.S.E.” E LA CASA FAMIGLIA “IO SONO MIO”
36
L'ASSOCIAZIONE “LE C.A.S.E.”
41
LA CASA FAMIGLIA “IO SONO MIO”
49
La coppia genitoriale
52
I figli naturali
53
I minori in affidamento presso la casa-famiglia “Io sono mio”
64
La famiglia di origine dei minori in affidamento
PARTE TERZA
66
RIFLESSIONI
66
LA QUOTIDIANITÀ
70
GLI INTERVENTI SPECIALISTICI
74
LAVORARE PER PROGETTI PSICO-EDUCATIVI
78
IL RAPPORTO CON I SERVIZI
82
IL LAVORO DI RETE
84
IL TERRITORIO
86
LA GENERATIVITÀ SOCIALE
89
LE MOTIVAZIONI DEL RICORSO ALL'AFFIDO PRESSO LA CASA-FAMIGLIA “IO SONO MIO” DEI MINORI
91
CONCLUSIONI
98
BIBLIOGRAFIA
Dedicato a mio padre
e a tutti coloro che mi hanno aiutato e sostenuto
nel raggiungimento di questo traguardo
INTRODUZIONE
Non sempre il bambino trova all'interno del suo nucleo familiare la comprensione e l'affetto che gli sono indispensabili, anzi proprio fra le pareti domestiche è possibile che trovi molteplici problematiche che ostacolano seriamente la possibilità di uno sviluppo armonico della sua personalità. Quando tali rischi, e i disagi che ne possono derivare, sono conosciuti e portati alla luce è dovere ai sensi della nostra legislazione provvedere, attraverso gli organi competenti, alla protezione del minore.
L'allontanamento dalla famiglia di origine è una tra le diverse possibilità di tutela previste dall'attuale normativa da intraprendere quando, nonostante gli interventi di sostegno predisposti, non è possibile che il minore continui a vivere all'interno del nucleo.
Nei casi in cui la situazione si rilevi particolarmente gravosa e non si ritenga possibile optare verso un affidamento ad una famiglia affidataria, allora si ricorre al collocamento presso strutture come le comunità familiari.
Tale soluzione si pone come una valida opportunità di accoglienza extra familiare, in cui la professionalità degli operatori, l'ambiente e il calore familiare convivono in modo costante, condizione ideale per la complessità, la multiproblematicità e la fragilità dei casi accolti. (FUSI S.M.L., 2010)
La casa-famiglia, in particolare, è una comunità socio-educativa residenziale con il compito di accogliere persone prive di un ambiente familiare idoneo, in particolare bambini e adolescenti di età compresa tra gli zero e i diciassette anni; può ospitare al massimo sei minori, (compresi gli eventuali figli naturali della coppia accogliente) e suddetta capacità può essere elevata di due posti dedicati alla pronta accoglienza.
Tale tipo di comunità è caratterizzata dalla convivenza stabile e continuativa di almeno due adulti, preferibilmente una coppia con figli, adeguatamente preparati che, attraverso la condivisione di un legame diretto con minori in difficoltà, offrono a quest’ultimi un rapporto di tipo genitoriale personalizzato ed un ambiente familiare idoneo. La particolare dimensione di ospitalità che caratterizza la casa-famiglia è finalizzata alla salvaguardia del benessere dei bambini e dei ragazzi accolti, in relazione alle loro problematiche e a quelle degli altri ospiti.(CALCIOLARI A., CICOGNANI C., 2007.)
L'intento di questo elaborato è di mostrare come il ricorso a questa modalità di affidamento non sia da considerare come ultimo intervento da porre in essere, ma anzi, in alcune situazioni particolarmente complesse, sia da ritenere l'intervento più efficace e sia quindi da prediligere.
Per rafforzare la mia tesi, ho condotto a titolo esemplificativo uno studio sull'associazione toscana “Le C.A.S.E.” e nello specifico sulla casa-famiglia “Io sono mio”, con una particolare attenzione alla ricostruzione delle storie di vita dei minori che quest'ultima accoglie.
L’opportunità di conoscere e osservare questa realtà mi è stata offerta dall'esperienza di tirocinio che ho svolto all'interno di tale comunità lo scorso anno e che mi ha mostrato una modalità di fare accoglienza che mi ha stupito positivamente.
Nella prima parte del mio lavoro ho presentato brevemente l'istituto dell'affidamento, tralasciando lo studio delle metodologie per la valutazione delle problematiche che portano a tale provvedimento in quanto non rientra nell’obiettivo di questo elaborato. In seguito ho illustrato le varie tipologie di accoglienza alle quali si può ricorrere per tutelare il minore in difficoltà, cercando di ipotizzare in quali casi l'accoglienza presso strutture residenziali coma la comunità familiare possa risultare un valida soluzione a cui ricorrere.
Nella seconda parte, a testimonianza di questa ipotesi, ho raccontato il caso particolare dell'Associazione “Le C.A.S.E” e della casa-famiglia “Io sono mio” che ne fa parte. In seguito ho descritto brevemente i soggetti che ruotano attorno a questa comunità familiare, con particolare attenzione ai minori in affidamento dei quali ho riportato le storie di vita.
Nella terza parte infine ho effettuato alcune riflessioni sulle principali tematiche emergenti dallo studio di questa realtà, cercando di capire in conclusione le motivazioni del ricorso all'affido presso la casa-famiglia “Io sono mio” dei minori raccontati.
Stendere questo elaborato per me si è rivelato un lavoro arduo, dopo due anni impegnativi e passati lontani dai libri, è stato difficile trovare la giusta strada per realizzare una riflessione sulla realtà della casa-famiglia e cercare di evidenziare come queste possano essere una valida opportunità per alcuni minori. Sicuramente non ho la presunzione di avere esaurito il tema affrontato, spero però di stimolare una riflessione sull'argomento in coloro che leggeranno le seguenti pagine.
PARTE PRIMA
L'AFFIDAMENTO IN ITALIA
L'ordinamento giuridico italiano riconosce espressamente il diritto del minore ad avere una propria famiglia, come sancito nell'articolo 1 della Legge 4 maggio 1983, n. 184 “Diritto del minore ad una famiglia” (così come modificato dalla Legge 28 marzo 2001, n. 149).
Il bambino è quindi titolare di un diritto soggettivo ad avere una famiglia, diritto che lo riguarda in quanto persona, non più riconducibile a “legami biologici”. Da ciò derivano due riflessioni: l'allontanamento del minore dalla propria famiglia può essere legittimato solo quando le carenze del nucleo familiare, possono, per la loro problematicità, provocare un pericolo per l'armonico sviluppo psicofisico del minore; inoltre, prima di effettuare qualsiasi intervento drastico nei confronti della famiglia è necessario impegnarsi per sostenerla con il fine di evitare di dover ricorrere ad un allontanamento del figlio.
Infatti nei casi in cui la famiglia non riesce a prendersi cura in modo adeguato dei minori in essa presenti, si dimostra necessario mettere in atto una serie di interventi che mirino alla loro tutela, fino a quando possibile, attuabili all'interno del nucleo familiare di origine.
Autori come Bastianoni e Fruggeri (2005) distinguono vari interventi realizzabili:
- Interventi di sostegno, dei quali le famiglie usufruiscono principalmente durante fasi di transizione successive ad accadimenti critici non previsti. Questi sono utilizzati per fronteggiare i disagi delle famiglie compensando le risorse in loro carenti;
- Interventi di controllo e tutela, attuati quando una famiglia presenta al suo interno problemi di violenza, abuso e incapacità grave. In questo tipo di interventi viene aiutata prioritariamente la vittima e in seguito vengono posti in essere interventi finalizzati all'interruzione della violenza e alla riattivazione dei processi evolutivi delle persone coinvolte;
- Interventi terapeutici, intrapresi nei confronti di persone con situazioni di disagio psicopatologico.
Al fine di delineare il miglior progetto di intervento è innanzitutto necessario provvedere ad una valutazione del possibile danno che il minore può subire permanendo all'interno del proprio nucleo familiare, valutazione condivisa e coordinata con tutta l'équipe multidisciplinare.
In seguito a questo processo di valutazione possono essere posti in essere percorsi diversificati, caratterizzati da modelli di intervento conformi alla specificità della situazione in cui si trova la totalità dei componenti della famiglia problematica.
Risulta importante intervenire al fine di interrompere la potenziale situazione dannosa, scongiurare ricadute e provare ad evitare la trasmissione della violenza fra le generazioni.
Anche qualora venga disposto l'allontanamento del minore, solo raramente ciò corrisponde ad un taglio netto dei legami familiari. Tale separazione dovrebbe, infatti, possedere un carattere terapeutico e prevedere il recupero di un rapporto con la famiglia di origine.
Questo provvedimento rappresenta sicuramente un evento spiazzante per il nucleo familiare, e conseguentemente la famiglia di origine deve essere sostenuta nel potenziamento delle sue risorse di fronteggiamento. Se aiutata in maniera adeguata infatti, la famiglia potrà essere in grado di scoprire al suo interno risorse che fino a quel momento non era stata in grado di utilizzare.
Autori come Cipolloni e Cirillo (1994) individuano quattro possibili forme di allontanamento di un minore:
- Allontanamento d'urgenza, a protezione dell'incolumità del minore;
- Allontanamento cautelativo, che può essere temporaneo e viene intrapreso nei casi in cui vi è la necessità di ulteriori indagini;
- Allontanamento per evitare lo strutturarsi di disturbi psico-affettivi, quando il minore dimostra condizioni psicologiche precarie e si dimostra la necessità di allontanarlo per sottrarlo ad ulteriori fonti di stress;
- Allontanamento definitivo, da intraprendere quando tutti gli interventi per consentire la sua permanenza presso la famiglia di origine hanno avuto esito negativo.
L'allontanamento non necessariamente comporta il decadimento dalla potestà genitoriale, nonostante il comportamento di uno o ambedue i genitori si dimostri pregiudizievole nei confronti del figlio; è possibile quindi che venga applicata una sola limitazione a tale potestà ai sensi dell'articolo 333 del Codice Civile.
Quando viene messo in atto l'allontanamento del minore viene privilegiata la tutela di quest'ultimo, al di là delle aspettative e dei bisogni dei genitori. Infatti, nonostante all'interno dei nuclei familiari multiproblematici verosimilmente anche i suoi componenti adulti abbiano bisogno di sostegno, l'ordinamento riconosce al minore ed altri soggetti deboli la priorità della tutela.
È bene comunque ricordare che tale provvedimento di per sé non è sufficiente ad affrontare e risolvere le condizioni che hanno generato la condizione di bisogno nei nuclei di origine.
Pertanto, anche nei casi nei quali l'allontanamento viene programmato, deve essere comunque considerato come un intervento temporaneo da inserire in un più ampio programma di recupero. (FUSI S.M.L., 2010)
Esistono due diverse modalità di affidamento, che variano a seconda delle diverse situazioni familiari e delle problematiche per le quali viene disposto l'allontanamento: l'affidamento consensuale e quello giudiziario.
L’affidamento consensuale viene disposto dal servizio sociale territoriale, che individua la soluzione più idonea per il collocamento del minore, in presenza del consenso dei genitori e sentito il minore stesso. Tale istituto è reso esecutivo da un decreto del giudice tutelare competente per territorio, che effettua un solo controllo di mera legittimità, ha durata massima di ventiquattro mesi e non è prorogabile.
Il provvedimento con il quale il servizio sociale richiede al giudice tutelare la disposizione dell'affidamento deve prevedere la definizione del problema e degli obiettivi da raggiungere, la formulazione di un piano di lavoro dal quale emergano azioni e strategie, e l’indicazione degli interventi riguardanti la famiglia d‘origine e quella affidataria.
È importante che il minore non sia escluso da questa procedura, ma anzi ascoltato e informato sull‘evoluzione della stessa nei modi e nelle forme più adeguate alla sua età. (BACHERINI A. M., ARRIGHI G., BOGLIOLO C., 2003)
Sono considerati affidamenti giudiziari, i provvedimenti che sono disposti per gravi motivi di protezione e di difesa del minore che si trova in una situazione di pericolo a causa della condotta pregiudizievole di uno o di entrambi i genitori. (ICHINO PELLIZZI F., ZEVOLA M., 2002)
L’allontanamento non consensuale pertanto è disposto dal Tribunale per i Minorenni. “Quando il minore è moralmente e materialmente abbandonato o allevato in locali insalubri o pericolosi, oppure da persone che per negligenza, immoralità, ignoranza o per altri motivi incapaci di provvedere alla sua educazione, la pubblica autorità, a mezzo degli organi di protezione dell'Infanzia, lo colloca in un luogo sicuro, sino a quando non si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione”. (COLOMBO D., 2001)
I genitori naturali in tali circostanze non sono ritenuti in grado di agire nell’interesse del figlio in quanto non mettono in atto nei suoi confronti le funzioni di tutela che sono richieste loro dalla legge.
(BACHERINI A. M., ARRIGHI G., BOGLIOLO C., 2003)
L'allontanamento può essere disposto in casi di estrema urgenza, immediato pregiudizio o condizione di abbandono anche dall'autorità di pubblica sicurezza o dal servizio sociale, ai sensi dell'articolo 403 del Codice Civile; tale provvedimento ha comunque carattere di temporaneità e deve essere immediatamente seguito da segnalazione al Tribunale dei Minorenni competente.
In questi casi, che presentano ovviamente difficoltà sul piano etico e metodologico, le linee guida nazionali sull'allontanamento (CNOAS, 2010) suggeriscono che l'assistente sociale favorisca comunque “la comprensione degli obiettivi e degli interventi posti in essere” e che anche qualora non vi sia consenso o collaborazione da parte della famiglia di origine è consigliabile evitare l'utilizzo della forza pubblica o, qualora sia effettivamente indispensabile, è opportuno che questo avvenga nel modo meno traumatico possibile per il minore (ad esempio utilizzando personale in abiti civili).
Il tipo di affidamento che più interessa in questo elaborato è quello giudiziale, regolato dall'articolo 4 secondo comma della Legge n. 184/1983, in seguito modificato dalla Legge n. 149/2001.
Mentre è compito dei servizi sociali reperire il luogo in cui collocare il minore e il successivo monitoraggio della situazione, oltre al sostegno della famiglia di origine, al Tribunale per i Minorenni compete la vigilanza sul lavoro effettuato dai servizi sociali e dalla famiglia affidataria.
L'accompagnamento del minore, anche quando viene messo in atto un affido giudiziale sarebbe auspicabile, dove possibile, che avvenisse con la presenza di uno o di entrambi i genitori nella nuova famiglia insieme ai servizi sociali, nella convinzione che il minore in questo modo possa sentirsi meno abbandonato e ostacolato dal proprio nucleo di origine. (FUSI S.M.L., 2010)
In alcuni casi di affidamento giudiziale invece è possibile che il minore debba essere collocato all'insaputa della famiglia e con urgenza; tale precauzione viene attuata per evitare situazioni di alta aggressività e tensione emotiva che potrebbero mettere a grave rischio l'incolumità psico-fisica del minore.
Quando non emerge tale urgenza è preferibile valutare varie possibilità di collocamento: il minore infatti può essere ospitato in una struttura oppure presso una famiglia affidataria e tale scelta dovrebbe essere effettuata attentamente tenendo presente la sua storia passata, le sue necessità e le sue prospettive future.
Il minore dovrà in ogni caso essere collocato in un ambiente che si dimostri idoneo alla sua tutela e che gli offra la possibilità di affrontare il difficile periodo che sta attraversando.
Un'ultima riflessione interessante prima di passare a un breve approfondimento della parte legislativa, riguarda l'opportunità o meno che l'allontanamento venga effettuato da un operatore già conosciuto dal minore e dalla sua famiglia.
Autori come Fusi ritengono che nella maggior parte dei casi sia preferibile che l'allontanamento venga eseguito da un operatore noto al minore, in quanto in presenza di una situazione che probabilmente provoca ansia, avere la possibilità di essere seguiti da una figura conosciuta può aiutare a moderare il timore per un futuro ignoto e dare la possibilità di mantenere un collegamento anche con la propria famiglia di origine. (FUSI S.M.L., 2010)
Altri autori come Verticale invece sostengono che sia preferibile dividere i ruoli di chi allontana e di chi sostiene, per non creare difficoltà nell'attuazione del progetto di allontanamento. Si sostiene in breve che non sia consigliabile coniugare le funzioni di aiuto e di controllo, che sono presenti nelle situazioni di allontanamento, in un medesimo professionista. (VERTICALE A., 1999)
Per quanto riguarda la parte legislativa è la Legge n 149/2001, che dopo aver sancito nell'art. 1 il diritto del minore di crescere ed essere educato all'interno della propria famiglia, prevede la possibilità che il bambino o ragazzo costretto a vivere al di fuori di essa possa essere inserito in una famiglia affidataria.
Nei casi in cui tale inserimento non risulti possibile, il legislatore nell'art. 2 prevede la possibilità di ricorrere ad una struttura residenziale. Vengono poi presi in esame le tipologie di adozione che non sono però oggetto di questa Tesi.
Del tema si era già interessata precedentemente la Legge 28 agosto 1997 n. 285 “Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l'infanzia e l'adolescenza”, la quale incentiva la possibilità di diffondere sul territorio nazionale risposte opportune per soddisfare i bisogni di crescita dei minori, partendo da servizi finalizzati al contrasto della povertà e al ricovero in istituti educativo-assistenziali, prevedendo anche essa, tra le varie possibilità di intervento in situazioni di disagio, l'affidamento presso strutture residenziali.
Ancora la Legge n. 328/2000 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” prevede all'art. 22 comma 2 lettera c, che vengano intrapresi interventi di aiuto per minori in situazioni di disagio attraverso il sostegno al nucleo familiare di origine e l'inserimento presso famiglie, persone e strutture comunitarie di tipo familiare.
Infine il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 308/2001, stabilisce i “Requisiti minimi strutturali e organizzativi per l'autorizzazione all'esercizio dei servizi e delle strutture a ciclo residenziale, a norma dell'art. 11 della legge 328/2000”; esso costituisce il riferimento normativo nazionale a cui devono adeguarsi le strutture di accoglienza per minori e di conseguenza la tipologia particolare di comunità che tratteremo di seguito. Seguendo tali linee guida le regioni sono tenute a definire i parametri delle proprie strutture comunitarie per quanto riguarda il numero di minori accolti, la struttura fisica, la tipologia di accoglienza, i progetti che riguardano i minori e le loro dimissioni.
Tali normative si sono sviluppate in quanto negli anni si è dimostrata la necessità di regolamentare nuove strutture, diverse dagli istituti educativi ed assistenziali, che fossero maggiormente in grado di prendersi cura di quei minori che non possono rimanere nella loro famiglia di origine fornendo loro la possibilità di averne una sostitutiva.
Anche nei casi in cui sembrerebbe preferibile il ricorso ad un nucleo familiare “tradizionale” in realtà ciò non risulta possibile in ogni eventualità; le famiglie affidatarie non sempre hanno una adeguata formazione e di conseguenza possono non avere la capacità necessaria per affrontare le difficoltà dei minori allontanati e delle loro famiglie. (FUSI S.M.L., 2010)
Problematiche molto gravi possono, infatti, rendere difficoltoso il provvedimento di affido di un minore a causa delle complesse dinamiche esistenti e delle successive problematiche che si potranno verificare.
Sono questi i casi in cui le strutture residenziali possono risultare la collocazione più idonea, come si avrà modo di discutere abbondantemente nella seconda parte della Tesi.
La soluzione ideale parrebbe quella di ricorrere all'accoglienza in strutture quali la comunità familiare, tipologia che verrà analizzata in seguito, all'interno delle quali la professionalità degli operatori che vivono con i minori, si coniuga con l'esigenza del bambino a vivere in un luogo familiare, tentando così di fornire al minore in affidamento una risposta accogliente che gli consenta di vivere in un ambiente che sia comparabile ad una famiglia.
Crescere in un ambiente familiare dovrebbe essere considerato un diritto del minore e le strutture per minori, in particolar modo le comunità familiari, dovrebbero essere una risorsa creata nell'ottica di rispondere a tale diritto. (Ibidem)
TIPOLOGIE DI ACCOGLIENZA PER I MINORI IN AFFIDAMENTO E REALTÀ TOSCANA
Come si è già avuto modo di evidenziare i principi sanciti dalla Legge n. 149/2001 sull'affidamento privilegiano il ricorso all'affidamento familiare rispetto all'accoglienza in struttura.
La Regione Toscana, la cui realtà verrà brevemente analizzata in questo elaborato, risulta allineata a tali principi, infatti al 31 dicembre 2010 i minori accolti in famiglie affidatarie risultavano essere in numero maggiore rispetto ai minori presenti nelle strutture operanti sul territorio, come è possibile notare dai dati riportati di seguito:
Minori in affidamento familiare
Minori presenti in struttura
Totale minori fuori dalla famiglia
1.138
606
1744
65,30%
34,70%
100,00%
(CENTRO REGIONALE DI DOCUMENTAZIONE PER L'INFANZIA E L'ADOLESCENZA, 2011, pag. 18)
Nonostante ciò le strutture dedicate all'accoglienza di minori allontanati temporaneamente dalla propria famiglia rappresentano una realtà consistente, che la Regione Toscana ha disciplinato attraverso la Legge Regionale n. 41/2005 e il successivo Decreto del Presidente della Giunta Regionale del 26 marzo 2008 n. 15/R che distingue cinque diverse tipologie:
- Centro di pronta accoglienza per minori;
- Casa di accoglienza e gruppo appartamento;
- Comunità familiare;
- Comunità a dimensione familiare;
- Gruppo appartamento per adolescenti e giovani.
Nelle pagine seguenti verrà effettuata una breve rassegna delle diverse soluzioni di collocazione del minore appena accennate, ponendo particolare attenzione alla tipologia della comunità familiare, sulla quale sarà incentrato il lavoro di Tesi.
LA FAMIGLIA AFFIDATARIA
Nei casi in cui un minore non possa essere allevato dalla propria famiglia di origine, la soluzione più opportuna che viene indicata anche dal legislatore è il suo affidamento presso una famiglia affidataria.
(LENTI L., LONG J., 2011)
I nuclei familiari che decidono di fare accoglienza sono persone che vogliono impegnarsi ad accogliere temporaneamente un minore che si trovi a vivere in un ambiente familiare “non idoneo”, con lo scopo di assicurargli l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui questo ha bisogno.
Secondo una ricerca effettuata dalla Regione Toscana e dall'Istituto degli Innocenti nell'anno 2008, le caratteristiche di coloro che scelgono di compiere questo atto di solidarietà, accogliendo nella propria famiglia un minore in difficoltà per un periodo di tempo determinato, possono essere individuate in una coppia di coniugi, con figli naturali, con un titolo di studio medio-alto.
Dalla ricerca emerge che si tratterebbe di persone che riescono a superare le difficoltà connesse alla mancanza di informazione e ad abbattere le barriere di accesso alla conoscenza dei requisiti necessari per accedere al percorso da intraprendere per diventare affidatari, grazie alla loro conoscenza dei mezzi di informazione e di comunicazione.
Il possesso di un buon titolo di studio sembra, allo stesso tempo, segnale di preparazione culturale, di conoscenza delle problematiche che possono colpire gli altri e di maggior benessere economico, tutti fattori che secondo gli autori possono contribuire a compiere tale scelta di solidarietà.
I servizi sociali territoriali riconoscono comunque alla famiglia affidataria un contributo economico e una specifica copertura assicurativa, fornendo pertanto una sicurezza economica che può costituire un prerequisito per avvicinarsi all’accoglienza di minori in difficoltà. (REGIONE TOSCANA E ISTITUTO DEGLI INNOCENTI, 2009)
Per potersi rendere disponibili all'affidamento di un bambino è necessario ottenere una idoneità educativa ed affettiva, che però non è subordinata (come nel caso delle adozioni) a nessun vincolo riguardante lo status coniugale, né ad una differenza precisa d'età rispetto al minore, con la motivazione che tale famiglia dovrebbe affiancarsi solo temporaneamente alla famiglia di origine e non prenderne il posto.
Nella scelta della famiglia affidataria, un elemento favorevole che viene tenuto particolarmente in considerazione è la presenza al suo interno di figli naturali minorenni. Tale orientamento è motivabile da un lato per la constatazione che la presenza di altri bambini facilita l'integrazione del minore in affidamento sia sociale che familiare, dall'altro per la convinzione che la presenza di figli propri, protegga i genitori affidatari da un uso distorto dell'affidamento, che potrebbe essere orientato verso il soddisfacimento del proprio desiderio di maternità e paternità.
È presente inoltre la possibilità che il bambino venga affidato all'interno della propria famiglia allargata.
Nonostante nei casi di affidamento a un parente entro il quarto grado, la legge non preveda nessuno intervento pubblico e la conseguente mancanza di preventiva valutazione all'idoneità educativa ed affettiva, né alcuna verifica della conformità in concreto della misura di protezione all'interesse del minore, è comunque frequente che siano gli affidatari stessi a richiedere la formalizzazione dell'affidamento, per lo più per ragioni di chiarezza relazionale.
Il ricorso a tale modalità di affidamento dovrebbe essere valutata ancora più attentamente, in quanto il bambino potrebbe trovarsi al centro di conflitti familiari e rimanere esposto ai medesimi fattori che avevano in precedenza compromesso la sua permanenza con i genitori naturali. (LENTI L., LONG J., 2011)
L'AFFIDAMENTO PRESSO STRUTTURE
Nei casi in cui non sia possibile ricorrere ad un affidamento presso una famiglia, si ricorre al collocamento del minore in difficoltà presso strutture residenziali socio-educative.
Il termine è generico e raccoglie cinque diverse possibilità di accoglienza regolamentate dalla Legge regionale n. 41/2005 e dal Decreto del Presidente della Giunta Regionale del 26 marzo 2008, n. 15/R, che riporteremo brevemente.
(CENTRO REGIONALE DI DOCUMENTAZIONE PER L'INFANZIA E L'ADOLESCENZA, 2011)
Centro di pronta accoglienza per minori
Il centro di pronta accoglienza per minori è una struttura con funzione prevalentemente assistenziale e tutelare.
Gli utenti accolti al suo interno sono minori in situazione di abbandono o in condizione di urgente bisogno di pronto accoglimento e di protezione da rischi per l’integrità psico-fisica. Tali giovani e bambini sono accolti sulla base di un provvedimento o intervento disposto dall’autorità giudiziaria, dalle forze dell’ordine o dai servizi sociali del comune competente.
La capacità ricettiva massima della struttura è di dieci posti letto e prevede la presenza di un operatore per la complessità dei minori ospiti.
Tali strutture sono caratterizzate da media intensità assistenziale e media ed alta complessità organizzativa. (D.P.G.R Toscana 26 marzo 2008, n. 15/R)
Casa di accoglienza e gruppo appartamento
La casa di accoglienza e il gruppo appartamento sono strutture finalizzate ad una funzione assistenziale ed educativa.
All'interno di tali strutture vengono accolte donne in difficoltà, gestanti e/o madri con figli minori, che necessitano di tutela e di appoggio nel periodo della gravidanza e/o durante i primi anni di vita del figlio e padri in difficoltà con i propri figli.
I minori ospiti sono accolti sulla base di un provvedimento oppure di un intervento disposto dall’autorità giudiziaria, o ancora dai servizi sociali del comune competente.
La capacità ricettiva massima della struttura è di cinque nuclei familiari e prevede la presenza di un operatore. (Ibidem)
Comunità a dimensione familiare
La comunità a dimensione familiare è una struttura con funzione socio-educativa.
Gli utenti che accoglie al suo interno sono minori per i quali la permanenza nella famiglia di origine risulta temporaneamente impossibile, accolti sulla base di un provvedimento e/o di un intervento disposto dall’autorità giudiziaria o dai servizi sociali del comune competente.
La capacità ricettiva massima della struttura è di dieci minori che può essere aumentata di due posti dedicati alla pronta accoglienza; l'organizzazione della struttura prevede la presenza di un operatore per la totalità dei minori ospiti. (Ibidem)
Gruppo appartamento per adolescenti e giovani
Il gruppo appartamento per adolescenti e giovani è una struttura dedicata ad adolescenti di età non inferiore a sedici anni e giovani fino ai ventuno anni, che non possono rimanere o tornare nella propria famiglia, già accolti in affidamento e inseriti nella struttura sulla base di un provvedimento e/o intervento disposto dall’autorità giudiziaria, o dai servizi sociali del comune competente.
La capacità ricettiva massima della struttura è di quattro posti letto e prevede la presenza di un operatore per la totalità dei minori ospiti. (Ibidem)
Comunità familiare
La comunità familiare è una struttura con funzione socio-educativa, caratterizzata dalla presenza di due o più adulti che convivono in modo continuativo e stabile con bambini o ragazzi fuori dalla propria famiglia di origine.
Gli utenti accolti in questo tipo di comunità sono giovani e bambini minori di diciotto anni per i quali la permanenza all'interno della famiglia di origine risulta temporaneamente impossibile, con i quali viene instaurata una relazione di tipo familiare da parte delle figure adulte di riferimento che assumono funzioni genitoriali.
I minori sono accolti sulla base di un provvedimento e/o intervento disposto dall’autorità giudiziaria oppure dai servizi sociali del comune competente.
La capacità ricettiva massima della struttura è di sei minori, compresi gli eventuali figli naturali degli adulti di riferimento. (FUSI S.M.L., 2010)
Le tipologie di problematiche accolte in questo tipo di struttura si sono negli anni modificate. Frequentemente si tratta di casi in cui i minori allontanati giungono da situazioni familiari complesse, in cui alle problematiche dei genitori si intrecciano relazioni affettive disfunzionali, che possono sviluppare nei bambini importanti difficoltà nell'attaccamento.
Queste ultime possono provocare nei bambini atteggiamenti di instabilità psico-motoria, comportamenti provocatori e disturbi relazionali comportando la probabilità che nei minori si possano presentare ritardi evolutivi, disarmonie di personalità e distorsioni relazionali. (Ibidem)
È in questi casi che il ricorso ad una comunità familiare viene ritenuto preferibile in quanto queste ultime possiedono le capacità necessarie per rispondere adeguatamente a bisogni specifici importanti, fornendo un ambiente familiare adeguato sia sul piano affettivo che su quello professionale.
Nella letteratura il termine comunità familiare è spesso usato come sinonimo di casa-famiglia e anche in questo elaborato verranno utilizzati ambedue in maniera indistinta.
Questi tipi di comunità, grazie alla presenza di una coppia di adulti di riferimento e al ridotto numero di minori accolti, sono caratterizzate da organizzazione e da rapporti interpersonali simili a quelli di una famiglia tradizionale.
La famiglia accogliente è formata da una coppia di operatori, generalmente coniugi, di cui almeno uno dei due dovrebbe possedere il titolo di educatore professionale, solitamente con figli propri, che apre la propria vita e la propria abitazione a minori in situazioni di disagio.
Gli operatori della comunità impostano la loro vita e la loro professionalità nella convinzione che ogni bambino abbia diritto ad una famiglia.
La famiglia che vive in questo tipo di comunità è un nucleo che cerca di educare alla responsabilità i propri figli, sia quelli naturali che quelli in affidamento e che cerca di proporre interventi basati su un accoglienza di tipo familiare.
Le figure genitoriali simboliche della casa-famiglia sono presenti costantemente all'interno della struttura nell'arco di tutta la giornata per tutti i giorni; al suo interno non ci sono assenze ma costanti e rilevanti presenze.
Si tratta di comunità caratterizzate da un alto profilo professionale degli operatori e dell'organizzazione che le comprende.
L'obiettivo perseguito è quello di creare un ambiente a dimensione familiare in cui si abbia la possibilità di favorire il rispetto delle idee dell'altro, mediante uno stile di vita aperto alla condivisione e l'instaurarsi di relazioni affettive positive tra genitori e figli.
Le relazioni, che raramente sono state sperimentate in modo pieno all'interno delle famiglie di origine dei minori accolti, aiuteranno i bambini in affidamento a recuperare un equilibrio personale, in modo tale da crescere consapevoli delle proprie risorse e dei propri limiti e in grado di compiere responsabilmente libere scelte.
Questo fattore -ovvero la capacità di unire a un contesto familiare competenze professionali specifiche-, come si avrà modo di analizzare con completezza nella parte successiva, può essere considerato uno dei motivi principali per ritenere la casa-famiglia una scelta di elezione per minori con problematiche e storie particolarmente gravi.
Gli aspetti che caratterizzano queste comunità sono molteplici: innanzitutto la coppia genitoriale deve essere d'accordo nell'intraprendere una esperienza di pluri-accoglienza nel lungo periodo, mettendo così in gioco la propria famiglia con i suoi relativi equilibri; inoltre si deve impegnare ad essere residente nell'abitazione, coinvolgendo i propri figli naturali (se ne hanno e sono presenti) per la durata del progetto del servizio, infine è necessario che rivisiti il concetto di distanza relazionale tra minori e operatori, vertendo verso un'esperienza di condivisione di vita quotidiana.
I minori accolti all'interno di case-famiglia, hanno spesso problematicità e incertezze riguardanti il proprio futuro e la possibilità o meno di un rientro all'interno della propria famiglia di origine.
Per questi giovani il domani rappresenta un interrogativo forte insieme alla durata della loro permanenza all'interno della comunità.
Gli adulti di riferimento della struttura dovrebbero quindi impegnarsi per aiutare i bambini e i ragazzi a gestire questo loro periodo della vita, anche per quanto concerne il rapporto con la famiglia di origine.
(FUSI S.M.L., 2010)
Questo tipo di comunità rappresenta la famiglia simbolica per i bambini che accoglie o meglio il luogo in cui poter dare senso alla propria storia familiare e confrontarla con un modello alternativo più funzionale, dove poter sperimentare relazioni affettive e di cura continuative tra i componenti della famiglia e in cui realizzare il proprio progetto educativo ed esistenziale. (Ibidem)
Tale struttura offre ai bambini e ragazzi che ospita un'esperienza educativa importante in cui la famiglia, composta dai minori e dalla coppia professionale, trasmette valori, modelli relazionali e affettivi, ruoli sociali e parentali, dove le relazioni sono veicolate da prossimità spaziale e temporale continuativa. (ZAPPA M., 2008)
All'interno di queste comunità sono i minori fra zero e undici anni che trovano maggiore giovamento, perché ancora in un’età in cui il bisogno di accudimento e l'appartenenza familiare riveste un ruolo importante. Nonostante questo anche gli adolescenti possono trarvi giovamento in quanto gli viene offerta la possibilità di cercare e trovare la propria identità attraverso il gruppo dei pari e nella famiglia.
Le case-famiglia, per le loro peculiarità sia strutturali che di offerta, nella pratica si prestano bene a progetti a lungo termine indirizzati a quei minori che non rientreranno mai in famiglia e per i quali vi è il bisogno di un impegno massiccio e continuativo nel periodo di accoglimento che li accompagni verso un'autonomia totale. In questo tipo di comunità la soggettività del minore riveste molta importanza e rappresenta il cardine del suo progetto educativo. (Ibidem)
In verità, l'accoglienza all'interno di una casa-famiglia, dovrebbe rispondere ad un criterio di temporaneità, che può essere più o meno lungo dal punto di vista progettuale, ma che dovrebbe rimanere come dato ineliminabile nel progetto di accoglienza. Riconoscere la temporaneità del bisogno e del progetto, permette di rappresentare il minore come persona in divenire che sovente ha bisogno di percorrere più strade per potersi ritrovare nei percorsi compiuti. (Ibidem)
Un ulteriore aspetto importante delle case-famiglia è la loro territorialità.
Gli operatori di queste strutture, vi abitano stabilmente e mantengono quotidianamente legami con i diversi soggetti del territorio, facendone così a loro volta parte. La comunità assume in questo modo un aspetto insolito in cui la scelta esistenziale del risiedere e quella professionale di occuparsi di disagio invoglia la comunità ad informarsi e ad interrogarsi sul proprio impegno sociale (Ibidem).
In un momento di crisi della famiglia, quello che il territorio percepisce entrando in contatto con le comunità per minori, sono nuclei familiari che non temono ad aprirsi all'accoglienza.
Grande importanza rivestono poi le relazioni che intercorrono tra la comunità familiare e i diversi livelli istituzionali. Gli interlocutori di queste strutture sono rappresentati non solo dai servizi, dalle famiglie di origine, dal territorio e dai minori, ma anche dall'organizzazione in cui la comunità familiare è inserita e che ne favorisce l'esistenza, con il proprio supporto economico, organizzativo e formativo.
Molto raramente infatti le casa-famiglia sono amministrate da istituzioni pubbliche ma vengono invece gestite più frequentemente dal privato sociale. La relazione che sussiste generalmente tra l'organizzazione e la comunità familiare è improntata sul riconoscimento dell'autonomia e dell'autodeterminazione della famiglia che regge la struttura, che può condividere la filosofia dell'organizzazione, seguirne le prassi e le metodiche, ma che può anche non sottostare a logiche organizzative che non condivide.
(Ibidem)
IN QUALI CASI CONSIDERARE LA COMUNITÀ FAMILIARE COME SCELTA D'ELEZIONE
La necessità di riscontrare esiti positivi nei provvedimenti di affidamento anche in riferimento a indicatori di qualità e di efficacia, nonché le scelte di politiche sociali che hanno determinato il rifiuto dell'istituzionalizzazione, hanno innescato un dibattito che ad oggi contraddistingue il panorama dell'accoglienza residenziale dei minori allontanati dalla propria famiglia di origine.
Nell'immaginario collettivo, infatti, l'inserimento di bambini e ragazzi all'interno di strutture residenziali come la casa-famiglia viene spesso considerato alla stregua di un intervento istituzionalizzante e per questo si pone in contrasto con l'opinione condivisa del diritto di ogni minore ad avere una famiglia.
Per queste motivazioni le strutture di questo tipo vengono considerate talvolta come l'ultima possibilità alla quale ricorrere nei casi in cui non è possibile orientarsi verso un'adozione oppure verso un affidamento familiare.
Inoltre, anche in termini economici, l'accoglimento di un bambino da parte di una famiglia “tradizionale” risulta effettivamente una soluzione con un dispendio minore di risorse per la società e di conseguenza maggiormente incoraggiato. (BASTIANONI P., TAURINO A., 2009)
Questa posizione però non è universalmente condivisa e per contrastarla negli ultimi anni si sono espressi svariati autori, fra i quali Davidson, che nel 2008 ha affermato come i sostanziali progressi nella qualità dell'erogazione dell'assistenza residenziale nei paesi sviluppati siano in larga parte il risultato di uno spostamento da un rifiuto rigido all'assistenza di gruppo a una considerazione della stessa come scelta valida e positiva per una parte dei minori che si trovano in difficoltà.
Ancora, gli anglosassoni Knorth, Harder, Zanberg e Kendrick nel 2008, in seguito a un'accurata analisi sui risultati dell'assistenza residenziale internazionale, hanno dimostrato che non vi sarebbero ad oggi prove empiriche sulla mancanza di efficacia degli interventi di tipo residenziale. I risultati di 27 studi pubblicati nel periodo 1990-2005 relativi allo sviluppo di circa 2500 minori accolti all'interno di strutture residenziali, hanno permesso di evidenziare un livello di cambiamento moderato e una riduzione di svariate criticità, prime fra tutte le problematiche di tipo comportamentale e le difficoltà nella socializzazione dei minori accolti. Inoltre, la ricerca ha mostrato come gli inserimenti in contesti residenziali possano contribuire allo sviluppo psicosociale positivo di alcuni bambini e delle loro famiglie. (KNORTH, HARDER, ZANBERG, KENDRICK, 2008)
Sempre a livello europeo, nel 2005 è stata emanata da parte del Comitato dei ministri degli stati membri dell'Unione Europea la Raccomandazione Rec (2005)5 sui diritti dei minori che vivono in strutture residenziali, la quale ha affermato alcuni principi fondamentali in materia. Viene sottolineato innanzitutto come non si possa prescindere dall'attuare adeguati interventi di supporto e di sostegno alla famiglia di origine; inoltre, dove è possibile, la famiglia deve essere coinvolta nella pianificazione e organizzazione del collocamento all'interno di una struttura residenziale del proprio bambino; quando le circostanze lo permettono poi, si dovrebbe cercare di far sì che il bambino sia inserito in un contesto ambientale il più vicino possibile a quello di origine, per consentire ai genitori di esercitare le proprie responsabilità parentali e mantenere una relazione genitoriale.
Nella Raccomandazione europea si stabiliscono inoltre tre importanti principi che devono rappresentare la base di ogni intervento a tutela dei minori che vivono fuori dalla propria famiglia e in strutture residenziali:
- il principio della multidisciplinarietà dell'intervento;
- il principio della personalizzazione dell'intervento;
- il principio della continuità dell'intervento.
A partire da essi si deve tener conto della necessità di agire considerando il bambino in base alle diverse esigenze che esprime, dell'opportunità che l'azione si sviluppi tenendo conto della sua specifica situazione e con la consapevolezza che solo un intervento che possa protrarsi nel tempo può dare risultati duraturi.
Sempre lo stesso comitato ha precisato che devono obbligatoriamente essere superate le istituzioni tradizionali e incoraggiate le politiche di progettazione, realizzazione, gestione e valutazione delle nuove realtà di accoglienza, per non dare inizio a nuovi sistemi di esclusione sociale.
Da una parte il riconoscimento dei limiti dei vecchi istituti ha orientato l'opinione pubblica e la letteratura a ricondurre i medesimi a tutte le forme di residenzialità di gruppo, sollecitando l'idea che le strutture residenziali per minori siano una risorsa da superare o da utilizzare solo come ultima risorsa disponibile. Da un'altra parte il riconoscimento dei limiti dell'accoglienza ha portato gli operatori a ritenere le strutture come la casa-famiglia che abbiamo approfondito in questa Tesi, come uno strumento adeguato per far fronte alle problematiche del minore e delle loro famiglie, capace di sostenere e “riparare” i sistemi familiari in crisi.
Proprio i fallimenti dell'affido familiare hanno aperto la via a nuove influenze ed il panorama dell'accoglienza residenziale si mostra quindi dibattuto soprattutto attorno a due posizioni: le strutture residenziali come scelta d'elezione oppure comunità intesa come ultima risorsa a cui ricorrere.
Valutando le varie argomentazioni, la corrente di pensiero che appare più condivisibile e che cercheremo di argomentare in questo elaborato è quella che ritiene le strutture residenziali per minori e in particolare la comunità familiare (per le motivazioni già accennate in precedenza) la scelta preferibile per alcuni minori, con problematiche rilevanti, che si trovano in difficoltà e non possono permanere all'interno del proprio nucleo familiare di origine. (BASTIANONI P., TAURINO A., 2009)
Fra questi minori potremmo trovare coloro che provengono da storie drammatiche che si dimostrano arrabbiati, incapaci di relazionarsi, confusi e ostili.
Per bambini e ragazzi con queste caratteristiche il solo affetto di una famiglia affidataria potrebbe dimostrarsi insufficiente per dare loro la possibilità di riuscire a portare a termine in modo adeguato il proprio percorso di crescita, ma al contrario si rileva necessario l'intervento di operatori professionisti.
È in situazioni come queste appena descritte che piccole strutture di accoglienza come la casa-famiglia rappresentano la soluzione ideale da porre in essere in quanto forniscono ai minori percorsi di sostegno e di tutela, uniti a interventi finalizzati alla ricostruzione della personalità. (PISTACCHI P., GALLI J., 2006)
I minori che sono accolti all'interno di questo tipo di strutture in molti casi non hanno mai sperimentato cure materne oppure le hanno ricevute per brevissimi periodi o ancora, le hanno ricevute in maniera non adeguata. Come sostiene Di Blasio, nei casi di inadeguatezza familiare risulta di importanza fondamentale per i bambini essere inseriti prontamente in un contesto che promuova il benessere e la protezione, un ambiente che fornisca una base sicura per poter sperimentare relazioni alternative a quella instaurata con la madre inadeguata. La certezza di sentirsi sicuro promuove nel minore un adeguato sviluppo e la crescita della stima in sé stesso, insieme a un giusto sviluppo delle competenze sociali. (DI BLASIO P., 2000)
Si tratta pertanto di intervenire su bambini e ragazzi che hanno attraversato nel loro passato esperienze che possono risultare prive dell’interiorizzazione della sicurezza. (CENTRO REGIONALE DI DOCUMENTAZIONE PER L'INFANZIA E L'ADOLESCENZA, 2011)
L’acquisizione di quest'ultima o la sua assenza è strettamente collegata al legame di attaccamento che si instaura tra il minore e la persona che si prende cura di lui in modo continuativo. La sicurezza rappresenta la consapevolezza di poter contare sulla figura di attaccamento nei momenti di maggior pericolo, disagio o paura; la certezza che nel momento di difficoltà si può avere un punto fermo al quale fare riferimento. (Ibidem)
La presa in carico di questi ragazzi da parte delle strutture come la casa-famiglia permette l'applicazione di interventi di cura e la possibilità di un ambiente tutelante, che può essere in grado di fornire la possibilità di superare le difficoltà provocate dal danno subito nella loro precedente esperienza familiare. (Ibidem)
In conclusione, in seguito a quanto riportato sopra, si può concludere che l'accoglienza di minori all'interno di comunità di tipo familiare, o case-famiglia, rappresenti una risorsa particolarmente adeguata da porre in essere nei casi più complessi, grazie alla sua capacità di rispondere adeguatamente a problematiche e bisogni specifici rilevanti, in particolare riuscendo a mettere in atto interventi professionali congiunti ad un ambiente familiare adeguato sia sul piano affettivo che su quello professionale.
PARTE SECONDA
LE COMUNITÀ FAMILIARI NELLA REGIONE TOSCANA
Come si è già avuto modo di osservare nella prima parte di questa Tesi, il termine “casa-famiglia” non indica un corrispondente giuridico esatto. All'interno del sistema integrato dei servizi sociali della Regione Toscana si individua la tipologia della “comunità familiare”.
Secondo gli ultimi dati resi disponibili dal Centro Regionale di documentazione per l'infanzia e l'adolescenza (2011), sono state rilevate cinque comunità familiari accreditate in Regione Toscana.
Di queste, quattro appartengono all'associazione Le C.A.S.E. sul cui modello di accoglienza ci si soffermerà in questa Tesi, mentre una -nel territorio pisano- afferisce ad una associazione di volontariato denominata Associazione Famiglia Aperta.
Tale associazione è stata costituita da un gruppo di famiglie proveniente da esperienze di affidamento familiare di minori con lo scopo primario di costituire una rete di supporto e contribuire alla formazione di una cultura dell’accoglienza e, tra i vari progetti promossi, vi è anche la gestione di una casa-famiglia.
Si riportano quindi i dati sintetici:
Strutture residenziali disciplinate dalla LR 41/2005 e dal regolamento 15/R (dati al 31 dicembre 2009)
Tipologia di struttura
n. strutture
% sul totale
Centro di pronta accoglienza per minori
5
10,9
Gruppo appartamento per adolescenti e giovani
2
4,3
Casa di accoglienza e gruppo appartamento
3
6,5
Comunità familiare
5
10,9
Comunità a dimensione familiare
31
67,4
Totale
46
100
(CENTRO REGIONALE DI DOCUMENTAZIONE PER L'INFANZIA E L'ADOLESCENZA, 2011, pag. 113)
L'ASSOCIAZIONE “LE C.A.S.E.” E LA CASA FAMIGLIA “IO SONO MIO”
L'ASSOCIAZIONE “LE C.A.S.E.”
Dopo aver cercato di ricostruire, alla luce delle norme e della letteratura in merito, le possibili caratteristiche della “casa-famiglia” e delle differenze concettuali, organizzative e metodologiche con l'affidamento familiare, ritengo necessario analizzare l'associazione “LE C.A.S.E.”: comunità per l’accoglienza, la solidarietà e contro l’emarginazione, un'esperienza toscana che sembra poter rappresentare il modello di casa-famiglia proposto.
Si tratta di un’associazione di volontariato che si occupa di affidamento familiare e accoglienza in case-famiglia di minori e persone in stato di disagio, che nasce nel 1997 ad opera di un gruppo di famiglie con una lunga esperienza nel volontariato sociale, proponendosi come strumento operativo per quelle coppie o famiglie che vogliono operare all’interno di case-famiglia come figure “genitoriali simboliche“ di riferimento.
L’attività di accoglienza ha il suo inizio con la creazione della casa-famiglia “Il melograno” in cui i fondatori, Graziella e Silvano, ospitano il primo gruppo di minori adolescenti in situazioni di disagio. La struttura ospitante viene fornita in comodato d’uso gratuito da una Diocesi della provincia di Firenze, all’interno del movimento Unione Familiare Santa Maria dell’accoglienza.
Per sei anni l’associazione partecipa al progetto S.V.E. (Servizio di Volontariato Europeo) attivato dall’Unione Europea, per l’accoglienza di giovani volontari europei, attraverso la preparazione e lo svolgimento di un periodo di volontariato sociale residenziale. Nel periodo in esame, vengono ospitati 15 volontari, per la maggioranza giovani tedesche per periodi di un anno, in collaborazione con l’Istituto Tedesco I.C.E. (Intervento Cristiano Europeo).
Inoltre l'associazione è intervenuta per due anni come centro di prima accoglienza per donne vittime di tratta in collaborazione con il C.I.P. (Coordinamento interventi prostituzione) e con l’Associazione Arcobaleno titolare dell’intervento stesso.
Ancora ha operato effettuando interventi para-scolastici su minori a rischio collaborando con alcuni comuni del territorio toscano nell’accompagnamento di minori in messa alla prova giudiziale per i quali ha attivato percorsi personali di apprendimento di competenze, collaborando con artigiani, artisti e istruttori sportivi della zona.
Infine ha collaborato con il progetto HELP di comuni toscani consorziati per interventi di sostegno scolastico.
Dopo due anni dall’avvio della prima struttura, nel 1999, nasce la casa di accoglienza di Baroncelli. Inizialmente la struttura si è occupata di giovani maggiorenni in fase di distacco dalle case-famiglia, in seguito si è trasformata in casa per l’accoglienza dei migranti, ma nel 2005 ha cessato la propria attività
Nel 2001 è partita l’attività della casa famiglia di Pomino che per sette anni si è occupata di donne, gestanti e madri con figli. Anche questa struttura è stata ottenuta in comodato d’uso gratuito da una Diocesi toscana per un periodo di nove anni rinnovabili. La casa è stata ristrutturata grazie al lavoro degli Universitari Costruttori di Padova, di gruppi Scouts, di artigiani e volontari dell’associazione, a finanziamenti della Regione Toscana, di Mani Tese, del gruppo Hemmaus e dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze.
In seguito, dalla disponibilità di Silvia e Geraldo, nel 2004 nasce la Casa famiglia “Io sono mio”, la struttura che approfondiremo in questo elaborato.
Nel 2005 viene inaugurata la Casa Famiglia “I girasoli”, data in affitto dall’Istituto di Sostentamento del Clero di una Diocesi toscana. La struttura è stata ristrutturata grazie al lavoro dei componenti dell'associazione, ad un finanziamento concesso dalla cooperativa finanziaria MAG 6 e dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze e arredata con mobili donati dall’IKEA.
Nel 2007 è stato avviato il progetto di riqualificazione per il centro sperimentale polifunzionale “I piani”, una struttura rurale situata sempre nel territorio toscano, ottenuta in concessione dalla Comunità Montana. Il progetto prevede la realizzazione di interventi in diversi ambiti: da quello socio-sanitario rivolto alla disabilità, alla marginalità e al disagio giovanile, fino a quelli riguardanti la salvaguardia, la valorizzazione e la promozione ambientale.
Infine nel 2008, come prosecuzione della decennale esperienza del Centro Si.e.CI (un centro teorico-pratico sullo sviluppo sostenibile, accoglienza e formazione di un comune toscano costretto alla chiusura per la cessata disponibilità della locazione dell’immobile utilizzato) nasce il progetto “Aia Santa” con l'acquisto di una struttura agevolato dal contributo di Mani Tese.
La missione dell'associazione Le C.A.S.E. si può individuare nella promozione e nella realizzazione di progetti di accoglienza familiare di persone in stato di bisogno, rivolti soprattutto a minori, gestanti e madri con figli, senza distinzione di nazionalità, razza, sesso, religione e stato di salute.
L'Associazione propone un'ampia concezione di accoglienza, intesa non solo nel suo valore di scelta di vita e di esperienza personale ma anche di valenza sociale. Rifiuta l'idea di assistenzialismo a favore dello sviluppo di reti comunitarie che coinvolgano gli utenti in attività lavorativa a scopo formativo ed educativo. In tal senso i settori che vengono privilegiati sono: l'agricoltura biologica, l'artigianato manuale, il riciclaggio e recupero di materiali usati, l'utilizzo e sviluppo di tecnologie appropriate, l'attività di protezione civile e di interventi in calamità naturali.
In particolare per quanto riguarda i cittadini extra-comunitari accolti, l'associazione cerca di favorire le occasioni per l'individualizzazione e l'elaborazione di progetti di sviluppo che coinvolgano e che portino beneficio ai loro paesi di origine.
L'Associazione le C.A.S.E. pone particolare attenzione ai rapporti che si costituiscono nella società attuale, multietnica e multiculturale, alle relazioni Sud-Nord e ai fenomeni legati alla globalizzazione della vita economica, promuovendo la cooperazione con altri popoli.
I valori che guidano l'azione di questa associazione, che sono inseriti all'interno del loro statuto, possono essere sintetizzati come di seguito:
- Autonomia e libertà: ogni casa-famiglia è sovrana nelle proprie decisioni rispetto all'Associazione, laddove siano condivisi i valori espressi, e si assume la responsabilità delle proprie scelte, delle quali informa comunque l'Associazione. Le decisioni vengono prese nell'ambito di un “comitato di lavoro“ al quale possono partecipare tutti gli operatori;
- Accoglienza: sintetizzabile nel non riuscire a fare a meno “dell'Altro non desiderato”. Chi accoglie è co-protagonista in uno scambio che permette di dare e ricevere. “L'Altro non desiderato” è il vero ed unico limite all'inviolabilità della propria libertà e del proprio spazio vitale;
- Contaminazione: come azione pratica quotidiana vissuta nell'essere se stessi con quanti entrano in contatto con la realtà di accoglienza dell'Associazione. Tale azione viene indirizzata a sollecitare domande, esprimere ciò che si vive, spingere a mettersi in gioco;
- Confronto: basato sul riconoscimento e sulla condivisione di una stessa situazione di vita;
- Territorialità: in quanto è sul territorio prossimo che si riesce a costruire e sviluppare relazioni di rete delimitando l'impegno e lo sforzo a garanzia della qualità del proprio lavoro;
- Stile di vita comunitario: con la proposta di figure di riferimento quanto più stabili possibile in quanto la turnazione del personale educativo, oltre ad un certo livello fisiologico, non consente di impostare azioni educative ma costringe ad una mera e inadeguata assistenza;
- Vivere la quotidianità: radicando nella propria esistenza quei contenuti e quelle dimensioni che si scoprono nella vita di ogni giorno;
- Vivere a misura d'uomo: riconoscendo i propri limiti e proponendo sul piano dei mezzi, un percorso che tenga presenti i punti di partenza di ognuno ed esprima una progressività del rapporto e una provvisorietà degli strumenti;
- Vivere l'affettività: come elemento determinante di ogni relazione, ricreando la voglia di vivere l'amicizia, il protagonismo, la creatività, il rispetto degli altri, la solidarietà, l'utilità sociale e la dignità lavorativa. (STATUTO DELL'ASSOCIAZIONE DI VOLONTARIATO LE C.A.S.E.)
Di seguito parleremo più approfonditamente della casa-famiglia “Io sono mio”, elemento centrale di questo elaborato.
LA CASA-FAMIGLIA “IO SONO MIO”
La casa-famiglia che intendo prendere in esame è una delle case-famiglia che fanno parte dell'associazione Le C.A.S.E..
La casa famiglia “Io sono mio” è una grande casa colonica collocata in una zona collinare del territorio toscano, circondata da ampi spazi verdi che permettono ai minori accolti di avere una buona libertà di movimento.
L’edificio si sviluppa su due piani, nei quali si distribuiscono le zone comuni e le stanze da letto.
Il numero massimo di minori che la struttura ha la capacità di accogliere è di sei (compresi i figli naturali) da zero a diciotto anni, di entrambi i sessi.
Le figure genitoriali che gestiscono la struttura sono due persone sposate, Silvia e Geraldo che vi risiedono insieme ai figli naturali di quindici e diciassette anni.
Il progetto educativo della casa prevede l’interazione dei minori accolti, con animali di piccola e grossa taglia per l'attuazione di programmi di Pet therapy. A tale scopo lo spazio verde che circonda la struttura ospita un “piccolo zoo“ composto da cavalli, cani, capre, oche, galline, alpaca, maiali, asinelli, pecore... che rappresentano una risorsa nei processi di crescita dei minori ospiti e un’attrattiva per il territorio.
Gli utenti della struttura attualmente sono cinque: due sorelle di nove e quattordici anni, due ragazzi di quattordici e quindici anni e una bambina di tre anni, tutti in affidamento giudiziario presso la casa famiglia.
Al momento la casa-famiglia non può ospitare altri minori in quanto ha già oltrepassato il numero massimo di ragazzi che ha la possibilità di accogliere.
Ogni minore accolto ha il proprio spazio personale all'interno della casa e una camera che condivide con uno degli altri minori della famiglia, o in affidamento o figlio naturale.
La zona verde intorno alla casa è molto estesa ed al suo interno è possibile scorgervi oltre all'ampia zona dedicata all'accoglienza di animali, campi di ulivo e terreni dedicati alla coltivazione.
La coppia affidataria si occupa dei minori nell'attività quotidiana e nei diversi aspetti di tutela, coadiuvata da specialisti che incontrano quest'ultimi periodicamente.
Gli adulti, figure genitoriali di riferimento e gli altri che gravitano intorno alla comunità con funzioni e caratteristiche diverse, sono di stimolo a esperienze di appartenenza e di distinzione, di accoglienza e di autonomia. La comunità invoglia adulti e minori a rapportarsi tra loro, non a partire da routine predeterminate e rassicuranti, ma a giocarsi ogni giorno nella relazione con gli altri.
La vita di comunità è un'esperienza che si realizza attraverso i gesti quotidiani e costituisce il presupposto attraverso il quale i minori possono riuscire a mettere in campo aspetti di sé che rilevano il bisogno e allo stesso tempo permettono il procedere dell'intervento educativo.
Tale struttura rappresenta un luogo che si dimostra allo stesso tempo fisico, relazionale, emozionale e mentale. I tempi, gli spazi e i gesti quotidiani rappresentano lo sfondo necessario per l'incontro tra gli individui che abitano all'interno della comunità: questo allenamento costante di ascolto, comprensione e riconoscimento che la quotidianità può stimolare, e che l'adulto deve necessariamente saper condurre senza predeterminarne gli esiti, facilita la crescita, l'individuazione e la scoperta di sé e degli altri. (GABRIELLI, 1996)
All'interno della casa-famiglia però non si esaurisce la vita di chi la abita e la costituisce: ognuno al suo esterno ha le sue attività, i suoi luoghi e le sue relazioni.
La vita di comunità rappresenta, pertanto, sia un luogo in cui elaborare le relazioni, le esperienze e le attività che hanno origine al suo interno, sia un'occasione per affrontare e comprendere i sentimenti, le relazioni e le esperienze che si sviluppano all'esterno della struttura.
Osservata dal di fuori la vita all'interno della casa-famiglia “Io sono mio” risulta simile a quella di tante altre famiglie, ad una “classica” vita familiare in cui lo scorrere del tempo viene scandito dall'accompagnamento dei minori nei loro impegni scolastici, sportivi e religiosi; la quotidianità rappresenta un elemento importante per i minori in affidamento in quanto si configura come la prima occasione per costruire la propria identità, per orientarsi nello spazio, nel tempo e verso gli altri.
Tale comunità rappresenta un luogo di incontro in cui bambini e ragazzi che si trovano in difficoltà possono confrontarsi con figure paterne e materne che portano con se una propria storia ed una propria vita. In questo luogo non si trovano nuovi genitori per i ragazzi e bambini in affido, ma figure genitoriali che rimettono in gioco le relazioni possibili tra adulti e minori, che riescono a creare in quest'ultimi nuovi modi di guardare se stessi e gli altri. (Ibidem)
I giorni, all'interno della casa famiglia “Io sono mio”, sono scanditi da tempi ed attività diverse da quelle a cui questi bambini erano abituati quando vivevano all'interno della propria famiglia di origine; tale diversa organizzazione riesce a rispondere contemporaneamente ai loro bisogni di accudimento e ad operare in senso socializzante, instaurando relazioni attraverso le quali i minori accolti possano rivisitare e ridefinire l'immagine che hanno di sé e del mondo che li circonda.
Tale differenza può offrire ai bambini la possibilità di avere una nuova visone della propria storia passata e futura: essere immersi in ritmi ed esperienze quotidiane profondamente diverse da quelle sperimentate in precedenza costringe il bambino e il ragazzo a “guardare” al suo percorso in una prospettiva diversa. Le evidenze scientifiche in merito all'approccio biografico in riferimento alle storie personali dei minori in affido meriterebbe un approfondimento specifico, che però non è oggetto di questa Tesi.
La comunità rappresenta un ambiente di relazioni e accudimento; al suo interno, il procedere pedagogico utilizza il linguaggio delle cose: gesti, spazi e tempi rappresentano allo stesso tempo modalità di relazione e ambito di comunicazione. Ciò che la comunità trasmette ai suoi membri e al territorio è rappresentata da ciò che mette in atto. I bambini accolti al suo interno, vivono la relazione con gli adulti accoglienti, che ogni volta si dimostra essere nuova e impegnativa. (Ibidem)
Ciò che si verifica all'interno di questa comunità è l'accoglimento di minori in difficoltà, con le loro esigenze e i loro sentimenti, attraverso i gesti più semplici e quelli più eclatanti, dando ad ognuno di questi la giusta importanza e interpretazione.
All'interno di questo luogo i bambini possono incontrare adulti in sintonia con ciò che vivono, che li aiutano ad interpretare le loro esperienze, sé stessi, il mondo che li circonda e soprattutto a riconoscere ed accettare la propria storia non come un percorso a senso unico, ma come una strada da tracciare.
Si potrebbe dire che il lavoro della coppia accogliente nei confronti dei minori che accoglie è in larga parte un percorso di accompagnamento di questi ultimi nella loro vita.
Le situazioni di questi minori sono però talmente complesse che il compito della famiglia accogliente rimane soprattutto quello di sostenere ed aiutare questi bambini e ragazzi a elaborare ciò che succede ed è successo loro in passato, per cercare di evitare che vengano sopraffatti dalla situazione in cui si trovano: essere stati allontanati da una famiglia che non riesce ad occuparsi adeguatamente di loro e non sapere cosa gli succederà nel prossimo futuro.
È necessario però che esista anche un progetto educativo sul minore, in quanto non è sufficiente porre esclusivamente attenzione alla vita quotidiana; la permanenza in comunità dovrebbe risultare infatti finalizzata a un dopo che dovrebbe arrivare in tempi brevi e che rappresenti una scelta risolutiva o quantomeno sostenibile e non improvvisata: il tema del futuro e del riscatto è certamente centrale in un percorso di autonomia e di sostegno a un minore con una storia passata difficile. (Ibidem)
La famiglia accogliente dovrebbe cercare quindi di impegnarsi a sostenere nel minore il peso della perdita, temporanea o in alcuni casi definitiva, della propria famiglia di origine nell'attesa di un domani sconosciuto.
Gli adulti di riferimento lavorando a stretto contatto con i minori, inevitabilmente compiono anche un lavoro su se stessi e mentre intraprendono e modificano la relazione con i minori, rielaborano anche l'universo delle loro relazioni. Infatti ogni intervento educativo è una relazione che ne rivisita altre in cui le tappe e gli obiettivi di tali interventi coinvolgono i minori e la coppia, influendo di riflesso su quanto avviene fra questi soggetti e il mondo che lo circonda. (Ibidem)
Il rapporto tra la casa famiglia “Io sono mio” e il territorio rappresenta un ulteriore aspetto interessante da analizzare.
In generale la comunità familiare nel suo rapporto con il territorio ricopre un duplice ruolo: utilizza nel suo lavoro le risorse che il territorio offre loro e contemporaneamente ne è anch'essa una risorsa.
Uno dei compiti che sono affidati alla coppia genitoriale della comunità è rappresentato proprio dalla scoperta e attivazione delle capacità delle persone che costituiscono una parte delle risorse che possono convertire una situazione di difficoltà in una di funzionalità, autostima e autonomia. (BABOLIN L., BARTELLINI S., FIGINI C., GABRIELLE G., IZZO G., TOFFANIN J., 2000)
Inevitabilmente una delle risorse principali della comunità familiare è proprio rappresentata dalle persone che la conducono. Sono quest'ultimi che svolgono un ruolo importante nella promozione e nell'avvio di protocolli di intesa e nei momenti di confronto pubblico, consci della funzionalità della rete e dei possibili strumenti da utilizzare per renderla efficace.
Nella vita quotidiana il lavoro della coppia accogliente, si sviluppa in un impegno genitoriale, attento a ciò che succede nei vari ambienti frequentati dal bambino, fino ad arrivare ad un impegno di cittadinanza attiva che la vede in continua ricerca di aggiornamento in materia di legislazione, di progettazione, di cultura sociale, per poter tutelare i minori che accoglie e far valere il proprio punto di vista negli svariati contesti della società.(Ibidem)
A testimonianza di questo impegno, risulta significativo riportare alcune delle numerose attività svolte all'interno della casa famiglia “Io sono mio” volte sia a sostenere i ragazzi ospiti che a far conoscere all'esterno la dimensione dell'affidamento:
- Gli animali accolti nel terreno circostante alla casa vengono accuditi giornalmente dalla coppia affidataria e dai loro ragazzi che si alternano nelle svariate mansioni, con l'obiettivo di responsabilizzare i minori ed insegnare loro a prendersi cura degli altri;
- Vengono promossi incontri con vari gruppi: scouts, centri estivi, scuole, famiglie che frequentano le parrocchie e gruppi universitari con l'intento di far conoscere la realtà della casa-famiglia e l’istituto dell’affidamento, cercando di fortificare il legame con il territorio e di sensibilizzare la cittadinanza;
- Frequentemente la coppia affidataria offre il proprio sostegno e condivide la propria esperienza con le famiglie che si affacciano al mondo dell'accoglienza e che stanno intraprendendo un percorso di adozione o di affidamento.
A quanto appena elencato si aggiungono altri progetti che sono in corso di realizzazione: come l’apertura di uno stabile centro di ascolto per far conoscere l’istituto dell’affidamento e per sostenere le famiglie che hanno intenzione di intraprendere questa esperienza e la realizzazione di un percorso nel verde, da attivare con la Provincia, in cui poter rappresentare in modo divertente la storia dei bambini e le fasi dell’accoglienza.
Per agire sulle risorse in un sistema comunicativo efficace è necessario che la comunità faccia parte degli enti che si occupano dei servizi alla persona e che la famiglia che coordina la comunità, pur mantenendo le sue funzioni, rappresenti un partner nelle fasi di programmazione e realizzazione di ogni progetto educativo individuale e territoriale. (BABOLIN L., BARTELLINI S., FIGINI C., GABRIELLE G., IZZO G., TOFFANIN J., 2000)
In sintesi sarebbe utile che gli operatori della casa-famiglia “Io sono mio”, e quelli delle comunità familiari in genere, fossero in grado di conciliare il compito di saper stare e saper essere all'interno della relazione educativa con competenze comunicative e saperi indispensabili per interagire con gli altri soggetti del territorio.
Ciò che viene chiesto a queste famiglie accoglienti non è certamente la messa in atto di missioni salvifiche nei confronti dei minori che accolgono all'interno delle loro strutture, ma la volontà di mettersi in gioco per il raggiungimento di una finalità complessa, mediante un percorso professionale e etico, in cui il sé personale e professionale dell'operatore lavorino insieme. (Ibidem)
La coppia genitoriale
Silvia e Geraldo, i due coordinatori della casa-famiglia “Io sono mio”, si occupano da venti anni di minori in difficoltà, tanto che si sono conosciuti facendo volontariato come educatori in una struttura di accoglienza religiosa che opera nel comune di Firenze.
La coppia, dopo essersi sposata ed aver avuto due figli, ha deciso di dedicarsi a tempo pieno all'accoglienza di minori attraverso l'istituto dell'affidamento. In prospettiva di ciò, dopo una prima esperienza in qualità di famiglia affidataria, ha deciso di lasciare l'appartamento in cui abitava in città per fondare una casa-famiglia.
Si è trasferita in una colonica in campagna dove, oltre alle attività educative della casa-famiglia, ha deciso di sperimentarsi in alcuni progetti di pet therapy e ortoterapia.
Negli anni si è organizzata per accogliere molte specie di animali anch'essi bisognosi di cure, come cavalli non più in grado di essere cavalcati ed alpaca provenienti da allevamenti dismessi, nonché per la coltivazione e produzione di modeste quantità di vino, olio e altri prodotti agricoli.
L'obiettivo di Silvia e Geraldo nei confronti dei minori che accolgono è quello di garantire loro un contesto di vita familiare caratterizzato da un clima affettivo, modelli relazionali e modalità di conduzione rispondenti alle esigenze proprie dell’età e al livello di maturazione di ciascun soggetto. Tale obiettivo si raggiunge offrendo loro tempi e spazi adeguati per esprimere se stessi, valorizzando le risorse personali e stimolando il riconoscimento delle proprie capacità, favorendo la maturazione dell’autostima e l’assunzione di responsabilità, sostenendoli nel processo di socializzazione e scolarizzazione. (MARTINI V., 2000)
Inoltre la famiglia accogliente si occupa di tutte le attività che riguardano i minori che accoglie come accompagnarli nel loro percorso scolastico e in attività extra-scolastiche, favorendo l'emergere dei loro interessi e delle loro attitudini senza che queste vengano frustate da offerte standard che non tengono conto della loro storia personale.
Inoltre la coppia si pone come facilitatore nella relazione con la famiglia di origine e al contempo garantisce l'assistenza necessaria per far valere i diritti acquisiti che questi minori hanno nei confronti di terzi. (BASTIANONI P., TAURINO A., 2009)
Infine Silvia e Geraldo promuovono nei bambini e nei ragazzi che accolgono la partecipazione alla gestione delle regole, delle attività e dei tempi della casa, stimolando in loro la partecipazione alla vita di comunità e a quella del territorio. (BABOLIN L., BARTELLINI S., FIGINI C., GABRIELLE G., IZZO G., TOFFANIN J, 2000)
La coppia affidataria riesce a fare tutto ciò, in quanto è dotata non solo di una forte propensione all'accoglienza nei confronti di minori in difficoltà, ma anche perché detiene una professionalità e preparazione che mantiene viva effettuando periodicamente momenti formativi e di confronto volti prevalentemente a consolidare l’impianto organizzativo delle strutture e a sostenere lo sviluppo della propria professionalità.
Silvia e Geraldo si dedicano altre sì a programmi di formazione su tematiche riguardanti problemi specifici facilmente riscontrabili all'interno della casa accogliente.
Tale formazione, come previsto dall'Associazione Le C.A.S.E., è mirata in particolare al raggiungimento di tre obiettivi principali:
ü Sviluppare le capacità personali e di gruppo per riconoscere, elaborare e contenere situazioni di notevole tensione e di emergenza;
ü Collocare il lavoro svolto nella casa-famiglia all’interno di quadri teorici di riferimento, per individuare ed approfondire ipotesi sullo sviluppo della personalità, sui processi educativi e sulla comunità come luogo di contenimento;
ü Sostenere la costruzione ed il mantenimento di un quadro organizzativo in modo che la casa-famiglia sia capace di proteggere i minori e gli operatori, contenendo le ansie dei suoi membri e favorendo il raggiungimento degli obiettivi prefissati.
I figli naturali
I figli naturali delle coppie che decidono di dedicarsi ad una modalità di accoglienza come la casa-famiglia possono essere considerati come una risorsa, in quanto rappresentano coloro che rendono possibile ad ogni minore, accolto all'interno del loro nucleo familiare, l'opportunità di sperimentare una relazione positiva fra figli e genitori e un'apertura verso l'altro.
Essi rappresentano una preziosa occasione per i giovani in affidamento di elaborazione di un modello da poter sperimentare con le figure genitoriali, aiutando i minori accolti ad avvicinarsi agli adulti, attraverso la loro disponibilità nel dividere i propri spazi familiari, il loro affetto verso i genitori e le loro cose materiali.
(ZAPPA M., 2008)
Certamente, dal punto di vista dei figli naturali, essere coinvolti nella scelta dei propri genitori risulta un'esperienza educativa che richiede l'elaborazione dei propri sentimenti ed emozioni. La condivisione dei propri genitori e il confronto con problematiche importanti possono far sorgere alcune difficoltà in questi ragazzi che si trovano esposti ogni giorno a problematiche gravi che devono essere spiegate loro dalla coppia accogliente.
Non bisogna, infatti, dimenticare che i bambini e ragazzi accolti all'interno di comunità familiari provengono da situazioni molto complesse, che necessariamente vengono affrontate da giovani che non hanno scelto di fare accoglienza e che hanno una maturità diversa, proprio per motivi anagrafici, da quella dei propri genitori. (BARBERO AVANZINI B., 1997)
Nello specifico la coppia accogliente che gestisce la casa-famiglia “Io sono mio” ha due figli naturali di quindici e diciassette anni che vivono all'interno della struttura con i propri genitori.
I figli naturali della coppia hanno caratteristiche diverse tra loro e ambedue sostengono con impegno la scelta dei genitori, collaborando attivamente alla vita familiare e occupando una posizione particolare all'interno della casa-famiglia di fratellanza nei confronti dei ragazzi in affidamento e di “figliolanza” nei confronti dei propri genitori.
Nonostante le difficoltà che possono derivare dal vivere in una famiglia così particolare comunque i figli della coppia si dimostrano sereni e sono riusciti a instaurare buone relazioni con tutti gli altri minori in affidamento presso la casa-famiglia, riuscendo a condividere con loro i propri genitori, i propri spazi e in generale la loro vita.
I minori in affidamento presso la casa-famiglia “Io sono mio”
I minori accolti all'interno della casa-famiglia “Io sono mio” provengono da storie difficili e come tutti gli altri bambini in affido si trovano ad avere due sistemi familiari di riferimento: la famiglia di origine e la famiglia affidataria. I servizi svolgono altre sì funzioni molto importanti e sono coinvolti in decisioni significative. (GRANA D., 2005)
Questi due sistemi sono rappresentati dalla famiglia di origine con la quale dovrebbero mantenere rapporti ed essere riaccolti al termine del loro allontanamento e quella affidataria che li sostiene in questo periodo difficile della loro vita. (LENTI L., LONG J., 2011)
I minori, in conseguenza alle drammatiche esperienze vissute, possono provare sentimenti diversi come: la paura per il futuro, l'apprensione per la propria famiglia di origine, il senso di colpa per il proprio inserimento in comunità... infatti la famiglia accogliente, prima ancora di accompagnarli verso il loro futuro fuori dalla comunità, dovrebbe essere capace di sostenerli nelle loro incertezze e nelle contraddizioni della loro vicenda. (GABRIELLI G., 1996)
Un elemento di criticità presente nei minori che si trovano all'interno della casa-famiglia “Io sono mio” e che accomuna parte dei giovani che vengono accolti all'interno di comunità familiari, è la loro mancanza di fiducia: compito dell'educatore risulta quindi anche essere in grado di accogliere tale mancanza e farvi fronte. (Ibidem)
I minori ospiti della struttura sono stati allontanati dal nucleo familiare per aver subito gravi trascuratezze e talvolta violenze, che rappresentano un’esperienza traumatica incisiva per la crescita di un bambino, con il rischio di incorrere in gravi conseguenze psicopatologiche per lo sviluppo delle competenze relazionali e sociali. (CENTRO REGIONALE DI DOCUMENTAZIONE PER L'INFANZIA E L'ADOLESCENZA, 2001)
Autori come Di Blasio, sostengono che l’esposizione a un evento traumatico, l’omissione di cure o l’indifferenza nei confronti di un bambino possono comportare effetti come: ostilità, aggressività, bassa stima di sé, problemi scolastici e di apprendimento, isolamento sociale e carenza di capacità empatica ed alcuni dei minori ospiti di questa struttura ne sono un esempio lampante. (DI BLASIO P., 2000)
Nonostante quanto appena riportato, i minori ospiti all'interno di “Io sono mio” riescono a svolgere una vita comune a quella di molti altri bambini e ragazzi e sembra che le loro competenze relazionali e sociali non siano compromesse in maniera evidente.
Il loro rapporto con i coetanei ad esempio rappresenta una possibilità positiva e costruttiva. Le relazioni con il gruppo dei pari permettono una maggiore distanza di sicurezza rispetto a quelle che si instaurano con i familiari, che si rileva utile a tenere sotto controllo le intense emozioni, frequentemente negative, che possono essere suscitate dall'intimità.
Anche lo sport e le attività extrascolastiche in genere rappresentano un ambito interessante; alcuni dei bambini in affido presso questa struttura praticano attività sportive, generalmente di squadra. (GABRIELLI G., 1996)
Di seguito, come esempio di quanto appena scritto, saranno riportate le storie dei minori accolti all'interno della casa-famiglia “Io sono mio” ricostruite attraverso colloqui particolari con gli operatori della struttura; i nomi attribuiti ai minori sono tutti di fantasia e inoltre sono state modificate le informazioni che avrebbe potuto rendere le storie riconoscibili. La biografia di un minore, data la particolare gravità della storia è stata solo brevemente accennata, per la volontà di tutelare non solo la riservatezza ma anche la sicurezza di tale minore.
Prima di ciò riporteremo una tabella riguardante l'età dei minori al loro arrivo presso la casa-famiglia “Io sono mio” e la loro età attuale, dati interessanti riguardanti la durata di questi affidamenti.
MINORE
ETÀ ALL'ARRIVO IN STRUTTURA
ETÀ ATTUALE
VALENTINA
3 ANNI
14 ANNI
ILARIA
1 ANNO
9 ANNI
MATTEO
8 ANNI
14 ANNI
ANGELO
9 ANNI
15 ANNI
ALESSIA
2 ANNI
3 ANNI
Valentina
Valentina nasce nel nord dell'Europa da madre straniera e padre italiano. Inizialmente viene riconosciuta esclusivamente dalla madre, mentre all'arrivo in Italia della donna e della bambina avviene il riconoscimento anche del padre.
La madre è una donna che soffre di gravi disturbi alimentari e da alcool, mentre il padre presenta una patologia psichiatrica diagnosticata che lo ha portato a subire molteplici trattamenti sanitari obbligatori.
I genitori della minore hanno convissuto per i primi sei mesi della bambina, ma dopo un episodio di violenza in cui il padre fa cadere dalle scale la figlia e la compagna, i due si separano. Il padre si stabilisce in un appartamento da solo, mentre la madre viene accolta, insieme alla bambina, in un istituto.
Nonostante i tentativi dei servizi di separare la coppia in considerazione delle ripetute esplosioni di violenza, questa dopo una adesione formale, non mantiene questa intenzione, tanto che la minore racconterà in seguito di essersi recata più volte con la madre dal padre e di aver dormito a casa di quest'ultimo.
La denuncia della situazione della minore viene portata alla luce dalla zia paterna, che però non stata disponibile a essere coinvolta ulteriormente nella situazione e non è presente attualmente nella vita della bambina.
Valentina intraprende così un percorso di affidamento parziale.
Inizialmente la minore frequenta la scuola materna presso un istituto, nel pomeriggio viene affidata ad una casa-famiglia, mentre nelle restanti ore del giorno continua ad essere accudita dalla madre.
La madre naturale però trova difficoltà ad occuparsi della bambina e lo dimostra attraverso alcuni comportamenti come: vestendola con indumenti non adatti alla stagione in corso e mandandola a letto molto presto la sera e senza cena.
Valentina viene così affidata totalmente alla casa-famiglia ”Io sono mio”.
La donna in seguito rimane nuovamente incinta, ma continuano a permanere i suoi problemi con l'alcool tanto che dopo sette mesi dalla nascita della secondogenita viene trovata per strada di notte ubriaca insieme alla piccola.
In seguito a tale episodio viene stabilito l'allontanamento anche della seconda figlia dalla casa materna e il suo trasferimento presso la struttura che già accoglieva la sorella maggiore e l'interruzione degli incontri tra ambedue le bambine e i genitori naturali. In questo periodo la madre viene accolta in una comunità nel tentativo di risolvere i suoi problemi con l'alcool, ma il percorso si interrompe prima della sua conclusione.
Valentina si dimostra una bambina molto fragile, soprattutto nel primo periodo in cui viene accolta presso la casa famiglia, è fortemente stressata e perde molti capelli.
Successivamente a un lieve miglioramento della situazione dei genitori naturali, gli incontri tra quest'ultimi e la minore vengono ripristinati con frequenza mensile.
Attualmente avvengono in sede separata, in luoghi protetti e in presenza di un'educatrice.
Il padre della minore si rende conto dei propri limiti e prova sentimenti di riconoscenza nei confronti della coppia affidataria; la madre al contrario vorrebbe un rapporto più stretto con ambedue le figlie e ha dimostrato questa sua volontà ripetutamente anche al servizio sociale e attraverso ricorsi al Tribunale per i Minorenni.
La minore vive attualmente tali incontri con ansia, tanto che al ritorno da questi spesso piange manifestando la paura al pensiero di tornare a vivere con la madre che oggi vive da separata in casa con il padre del suo terzo figlio e quest'ultimo, il quale è affetto da una grave patologia neurologica.
Nonostante un miglioramento nel tempo la situazione di Valentina attualmente rimane complessa: la ragazzina mostra difficoltà nell'apprendimento e conseguentemente nel rendimento scolastico, tanto che ha anche ripetuto la terza elementare. Anche il rapporto con i pari è problematico, soprattutto per quanto riguarda le relazioni con le ragazze della sua età.
In famiglia invece la situazione è migliore anche se i rapporti con gli altri ragazzi accolti nella casa-famiglia non sono sempre sereni.
Ilaria
Ilaria è la sorella di Valentina; la sua storia si rivela complessa fin dall'inizio: durante la gravidanza la madre viene picchiata in una piazza del centro di Firenze e successivamente, al momento del parto, la bambina nasce in crisi alcolica, dovendo affrontare per questo una terapia disintossicante. Al termine di tale cura e al ritorno dall'ospedale la minore rimane comunque affidata alla madre.
La permanenza della minore con i genitori risulta breve in quanto all'età di 7 mesi la bambina viene allontanata dalla madre dopo essere stata trovata di notte per strada insieme alla donna ubriaca. Viene quindi ospitata temporaneamente in un istituto e contemporaneamente il Tribunale per i Minorenni ne dispone l'affidamento presso la casa-famiglia in cui è accolta anche la sorella. Il trasferimento della bambina non è immediato, infatti per tre mesi la minore rimane presso l'istituto in cui viene seguita assiduamente da una famiglia di volontari che aveva perso una figlia, che però interrompe bruscamente i rapporti quando Ilaria lascia la struttura.
La bambina arriva così alla casa-famiglia all'età di un anno. Inizialmente la minore ha avuto qualche reticenza nel farsi accudire dalla madre affidataria molto probabilmente in conseguenza al comportamento della sorella maggiore che le diceva che doveva essere la sola a potersi occupare di lei, dietro suggerimento della madre naturale.
Diversamente dalla sorella la minore vive gli incontri con i genitori naturali con sentimenti di indifferenza e dimostrando il suo apprezzamento esclusivamente nel caso in cui le vengano fatti dei regali.
Nonostante la situazione complessa Ilaria è una bambina allegra, intelligente e presente all'interno della famiglia affidataria, ha un buon rendimento scolastico e un buon rapporto con il gruppo dei pari.
Non ha molta fiducia negli altri ed ha una vena manipolatrice che la porta ad ottenere abbastanza spesso ciò che vuole e ad avere un facile rapporto con le persone che la circondano.
Matteo
Matteo nasce in un comune nella provincia di Firenze nel 1997, da padre italiano e madre dell'est Europa di molti anni più giovane.
Il rapporto fra i genitori era critico, la coppia era in grave crisi da molti anni e il bambino era oggetto di contesa fra i due.
Il padre, in pensione, si occupava quotidianamente del bambino mentre la madre lavorava.
La situazione era talmente critica che era conosciuta da tempo dai servizi sociali del loro comune di residenza.
Il 3 agosto 2005 la madre di Matteo viene uccisa dal marito, padre di Matteo
L’omicidio avviene di notte, il padre di Matteo sveglia il bambino e lo abbraccia, comportamento che avveniva di frequente nel cuore della notte. Dopo aver preso una mazza da baseball, si dirige verso la moglie che dormiva sul divano nel salotto di casa e la uccide con 12 bastonate.
Il bambino intravede tutto dalla propria camera, si alza e si avvicina alla stanza per vedere cosa fosse successo, ma il padre gli dice di vestirsi e lo porta a casa di amici. Mentre escono il bambino è costretto a vedere la madre e ancora adesso ricorda che in quel momento era ancora viva e aveva il viso sfigurato, tanto che a lui sembrava invecchiata.
Arrivati da una famiglia di amici il padre comunica a Matteo che la madre sta male e che lui si occuperà di lei fino a che non guarirà, avverte gli amici di aver combinato un grosso guaio e poi chiama la polizia.
Matteo rimane fino al 6 agosto a casa della famiglia amica dei suoi genitori, ma non riesce a dormire, non mangia e sta male fisicamente. Nel frattempo il 4 di agosto viene richiesta la disponibilità della casa famiglia “Io sono mio” ad accogliere il bambino che arriverà poi nella struttura due giorni dopo.
Al momento dell’arrivo il bambino ha otto anni, piange, non dorme e ha paura degli animali; vorrebbe vedere la madre ma sa che non è possibile perché è malata.
Il primo periodo per il minore è molto difficile: tutte le notti si sveglia alla stessa ora e rimane sveglio per ore, sudato, impaurito e con la pressione alta.
Al momento del suo arrivo in casa vivono marito e moglie, i due figli naturali della coppia e le due sorelle in affidamento; la persona che preferisce è la madre affidataria, la vede bella ed è terrorizzato dalla possibilità che anche lei invecchi proprio come la madre.
Dopo quindici giorni, durante un incontro con la psicologa, viene comunicato a Matteo che la madre è morta, ma lui in realtà ne era consapevole e se ne ha la conferma quando ne parla in seguito con il figlio più piccolo della coppia.
Il minore ha molta paura del padre e teme che possa trovarlo e voglia ucciderlo. Il mese successivo viene accolto dalla casa famiglia un altro bambino dell’età di Matteo e per problemi riguardanti la storia personale del nuovo arrivato vengono installate delle inferriate alle finestre, ma ciò non tranquillizza del tutto Matteo tanto che una notte sogna addirittura che il padre diventando liquido, riesca ad entrare dalle finestre, materializzandosi davanti a lui.
Trascorsi sei mesi, un giorno Matteo al ritorno dalla scuola viene trovato pieno di ematomi, viene così portato all’ospedale per accertamenti e gli viene diagnosticata una piastrinopenia, ovvero un abbassamento delle piastrine che lo costringe ad un ricovero in ospedale e ad un lungo ciclo di trasfusioni per i due anni successivi.
La malattia inizialmente ritenuta cronica si risolve dopo due anni, accompagnata anche da un miglioramento dell’umore del ragazzo e da una sua maggiore accettazione della nuova famiglia.
Negli anni il padre di Matteo, attualmente detenuto, ha richiesto di incontrare il figlio, ma fino ad oggi ciò è stato impedito, in quanto non desiderato dal bambino e non ritenuto favorevole per il benessere di quest’ultimo, anche grazie ad una consulenza significativa di Stella Maris.
Ad oggi Matteo ha una vita tranquilla, vive ormai da anni all’interno della casa-famiglia ed ha un ottimo rapporto con la famiglia accogliente. Il ragazzo è molto riservato, a tratti sembra più piccolo della sua età effettiva; ha comunque un buon andamento scolastico e un carattere mite che gli consente di avere delle buone relazioni con il gruppo dei coetanei e con i ragazzi accolti insieme a lui all’interno della casa-famiglia.
Alessia
Alessia nasce in un comune toscano da genitori italiani. La madre è una donna violenta, tossicodipendente, che ha a carico diversi procedimenti giudiziari ed ha molti anni più del padre, poco più che maggiorenne alla nascita della bambina.
Per capire la situazione familiare di Alessia risulta importante fare un breve accenno alle vicissitudini della madre.
La donna passa la sua infanzia e adolescenza in un istituto e a diciassette anni ha la prima figlia.
Il rapporto con il padre della primogenita si interrompe presto; poco dopo la ragazza si riaccompagna con un altro uomo e rimane nuovamente incinta.
Durante la gravidanza, la prima figlia muore e in seguito ad una autopsia si rileva che la bambina aveva subito gravi maltrattamenti e molestie sessuali. Per tali comportamenti viene indagato il nuovo compagno della giovane, ma non si arriva a nessuna condanna.
Anche il rapporto con quest'uomo termina, ma i due continuano a vivere insieme ai figli in un alloggio popolare.
La donna in seguito conosce un nuovo uomo, che si trasferisce anch'esso nell'appartamento.
Con il nuovo partner la donna concepisce altre due bambine di cui la minore è Alessia e continua a vivere anche con il precedente compagno e gli altri due figli maggiori.
Anche la relazione con quest'uomo termina e la donna trova un nuovo compagno che anch'esso si trasferisce nell'appartamento.
Quando la donna rimane nuovamente incinta decide di lasciare la casa in cui viveva con i figli e i partner precedenti e di trasferirsi, esclusivamente con il nuovo compagno, in un altro comune.
I figli vengono così allontanati dai rispettivi padri, non in grado di occuparsi di loro e affidati a strutture diverse.
Alessia, che al momento ha due anni, viene affidata alla casa-famiglia “Io sono mio”.
Ad oggi la madre di Alessia è tornata a vivere nel vecchio comune di residenza in cui abita con il nuovo compagno e il bambino che è nato da questa unione, mentre il padre vive con una nuova compagna con la quale si è sposato nell'ultimo anno.
Gli incontri tra Alessia e i genitori avvengono separatamente.
La madre incontra la minore in luoghi protetti una volta al mese ma di frequente non si presenta agli appuntamenti; il padre invece, pur con evidenti difficoltà, rispetta gli incontri e ha un buon rapporto con la famiglia che si occupa di Alessia, per la quale dimostra riconoscenza.
Nonostante la difficile situazione familiare, Alessia è una bambina serena e intelligente. A distanza di un anno dal suo arrivo all'interno della comunità si dimostra ben inserita ed ha un buon rapporto non solo con la famiglia accogliente ma anche con gli altri minori accolti al suo interno.
Angelo
All'interno della casa-famiglia “Io sono mio” è presente un minore straniero, del quale per ragioni di sicurezza si preferisce non riportarne la storia. Del ragazzo, ad oggi adolescente, non si è a conoscenza della certa identità, ma è stato dimostrato che è stato oggetto di commercio sessuale e pedofilia internazionale avvenimento per il quale vi è attualmente un processo in corso.
La famiglia di origine dei minori in affidamento
La famiglia è caratterizzata da vincoli affettivi, sentimenti profondi, interdipendenza dei componenti e rappresenta la prima cellula sociale con cui l’individuo interagisce. Essa rappresenta il primo ambiente in cui il bambino si trova a vivere ed è per lui il luogo delle cure e della soddisfazione dei bisogni fondamentali. (DE LEO G., 2003)
I minori che vivono in comunità familiari, provengono da famiglie in situazioni critiche e gravi sofferenze che, se volessimo classificare, potrebbero essere ricondotte alle seguenti tipologie:
- Inadeguate. L'inadeguatezza può essere causata da difficoltà economiche, problemi di salute e difficoltà in ambito lavorativo. Si tratta di situazioni momentanee ed occasionali, che generalmente possono essere risolte con un aiuto temporaneo;
- Trascuranti. Sono famiglie che non si occupano a sufficienza dei propri figli e delle loro necessità emotive e fisiche. I genitori in questi casi non si dimostrano capaci di cogliere i bisogni dei loro bambini e li trascurano;
- Maltrattanti. All'interno di questa definizione si trovano, secondo la definizione di maltrattamento adottata dal Consiglio d'Europa al IV Colloquio criminologico di Strasburgo, l'insieme di quelle famiglie che mettano in atto comportamenti attivi nei confronti del figlio, che rientrano nella violenza fisica, nel maltrattamento psicologico e nell'abuso sessuale;
- Aventi gravi patologie. In questa categoria si possono inserire quei nuclei familiari con componenti che hanno patologie e devianze come l'alcolismo, la tossicodipendenza e le disabilità psichiatriche.
Nei casi in cui le famiglie siano particolarmente compromesse e non riescano a vedere il disagio che attraversa i propri figli, è possibile che esercitino azioni di disturbo, incoraggiando i loro bambini a boicottare i provvedimenti intrapresi nei loro confronti, attraverso continue telefonate o visite a sorpresa presso le strutture, spesso all'insaputa di coloro che seguono il minore e contro ogni divieto che era stato loro imposto. (BARBERO AVANZINI B., 1997.)
Discriminante si rivela anche l'atteggiamento dei genitori naturali nei confronti del futuro dei propri figli: se riescono a intravedere un domani almeno dignitoso per loro, e capiscono l'importanza del loro atteggiamento per il raggiungimento di questo scopo, alloro saranno più collaborativi con coloro che si occupano dei minori; altrimenti è possibile che cerchino di inglobarli nuovamente nella propria vita precaria. (Ibidem)
I racconti delle storie dei minori presenti presso la casa-famiglia “Io sono mio” sono rappresentativi della gravità di questi rapporti: i comportamenti dei genitori naturali di questi ragazzi e bambini non sono di facile gestione né per i minori né per la coppia accogliente, anzi richiedono un continuo sforzo in tutti i membri di questa relazione.
PARTE TERZA
RIFLESSIONI
Dopo aver analizzato la realtà della casa-famiglia “Io sono mio”, risulta interessante compiere alcune riflessioni sulle tematiche che emergono dallo studio e sulle connessioni di queste con i riferimenti teorici fin qui esaminati.
LA QUOTIDIANITÀ
Una comunità è un luogo in cui adulti e minori affrontano una vita in comune in una casa, che prende le sembianze di una comunità grazie all'intrecciarsi delle esistenze degli individui che vi abitano.
La descrizione che Gabrielli propone della vita in comunità sembra riassumere le diverse dimensioni che la quotidianità propone: “È proprio la possibilità di intrecciare la propria storia con quella degli altri presenti, senza sovrapposizione e senza confusioni, ma anche senza reticenze, ciò che caratterizza la vita di comunità. In comunità si ripropongono esperienze di intimità e di confine, di appartenenza e di distinzione, di accoglienza e di progettualità e di autonomia. La comunità provoca adulti e bambini a entrare in ballo, non a rapportarsi agli altri a partire da routine sclerotizzate e difensive, ma a rigiocarsi, piuttosto, quotidianamente nella relazione con gli altri.” ( GABRIELLI, 1996 pag. 91)
La vita di comunità è un'esperienza di appartenenza forte, che si realizza attraverso i gesti quotidiani e costituisce il presupposto attraverso il quale i minori possono riuscire a mettere in campo aspetti di sé che evidenziano i loro bisogni e, allo stesso tempo, permettono il procedere dell'intervento educativo.
I tempi, gli spazi e i gesti quotidiani rappresentano lo sfondo necessario per l'incontro tra gli individui che abitano all'interno della comunità: l’allenamento costante all’ascolto, alla comprensione e al riconoscimento che la quotidianità può stimolare, e che l'adulto deve necessariamente saper condurre, facilita la crescita e la scoperta di sé e degli altri. (Ibidem)
Osservata dall'esterno la vita all'interno di una comunità familiare risulta simile a quella di tante famiglie, ad una “tradizionale” vita quotidiana ed è questo uno degli aspetti maggiormente significativi, in quanto è la vita di ogni giorno la prima occasione per costruire la propria identità e per orientarsi nello spazio, nel tempo e verso gli altri.
I minori che sono accolti presso questo tipo particolare di comunità, come già scritto, sovente provengono da situazioni familiari caratterizzate da rapporti violenti, per questo all'interno della comunità familiare si potranno stupire di essere trattati in modo gentile.
È possibile quindi che il minore accolto cerchi di ricondurre questa nuova situazione alla sua passata esperienza, cercando di riproporre le modalità a cui era abituato in precedenza. Tutto ciò avviene probabilmente perché, di fronte a comportamenti noti, il minore riesce a capirne il significato e a comprendere in che modo poter reagire e soprattutto quale “potere” può esercitare. (Ibidem)
La prospettiva del minore di questa “insolita” modalità di rapporto può essere così chiarita: “cercherà di capire cosa sta sotto a questi modi gentili, quale raggiro da temere o quale debolezza di cui approfittare. Oppure potrà considerare questa nuova esperienza un'avventura piacevole ed affascinante, ma appunto perché tale, lontana, un sogno troppo bello per poterci credere, un privilegio sicuramente non riservato a lui ma a un altro bambino per il quale lui è stato scambiato.” (Ivi, pag. 97)
Tali impressioni potranno stimolare un sentimento di ansia nel minore ed è possibile che faccia di tutto per comportarsi nel modo in cui ritenga più idoneo per assecondare il volere degli adulti, indipendentemente da come lui vorrebbe in realtà comportarsi.
Per un bambino risulta difficile comprendere il proprio mondo, perché è il primo a farne parte: l'immediatezza di ciò che sperimenta, gli si impone come un dato di fatto ed è proprio a partire da ciò che il minore costruisce il suo modo di conoscere e comprendere l'universo che incontra.
È raro che un bambino si dimostri critico nei riguardi del suo mondo ed è anche difficile che possa riuscire a capirlo e a coglierne i punti deboli; è più frequente che vi aderisca e lo consideri in termini assoluti.
Il processo psicologico e cognitivo necessario alla maturazione tipica dell'età adulta richiede il confronto con nuove persone che mettano in atto atteggiamenti che si differenzino dalle sue precedenti esperienze. Tali comportamenti dovrebbero offrire la possibilità di compiere nuove esperienze, per non rischiare di “soffocare” nel bambino lo spazio per esprimersi.
Gli atteggiamenti dei nuovi adulti accoglienti, nonostante debbano necessariamente differenziarsi da quelle precedenti, non dovrebbero pertanto tradursi in una frattura fra il bambino e il suo mondo. Perché il minore comprenda e superi la parzialità della realtà di cui ha fatto parte fino a ieri senza frantumarsi, è necessario che venga accolto insieme alla sua esperienza passata senza giudicarla ne negarla. (Ibidem)
Come è stato possibile riscontrare nelle storie di vita riportate precedentemente, spesso le esperienze personali passate dei minori in affidamento sono molto forti e in questi casi la sfida che viene posta agli adulti accoglienti è quella di riuscire a non esserne spaventati e aiutare il minore non a dimenticare ciò che è successo, ma, al contrario, a considerarlo come una parte ormai passata della sua esistenza.
È possibile che le esperienze che hanno attraversato il minore siano talmente dolorose da lasciare gli adulti accoglienti senza parole, è necessario comunque che anche in questi casi al bambino o al ragazzo sia offerta la possibilità di essere accolto e di venire accompagnato nel percorso di rivisitazione, recuperando sentimenti di paura, di gioia, di ansia e desiderio.
Solo dopo questo percorso e con la vicinanza di un adulto accogliente il minore potrà sviluppare una nuova appartenenza che si potrà creare attraverso la possibilità di “mettersi in comune con persone disponibili ad accoglierlo, lui e la sua storia.” (Ivi, pag.98)
Il minore, rassicurato su se stesso, in questo modo potrà avere la possibilità di aprirsi alla nuova realtà che sta vivendo e crescere, diventando una persona in grado di elaborare e condurre autonomamente le esperienze che compirà.
Le situazioni di questi minori sono spesso talmente complesse che il compito della famiglia accogliente rimane soprattutto quello di sostenere il giovane e aiutarlo a elaborare ciò che gli succede e gli è successo in passato, per cercare di evitare che venga sopraffatto dalla propria situazione.
Agli adulti della famiglia accogliente è richiesto di impegnarsi a sostenere nel minore il peso della perdita della propria famiglia di origine e accompagnarlo nell'attesa di un domani sconosciuto.
La quotidianità è lo strumento significativo per non correre il rischio di formulare obiettivi educativi che non corrispondono alle esigenze del minore, ma bensì alle idealità e alle aspettative dell'operatore.
Pertanto prima di indirizzare il minore verso un futuro fuori dalla comunità è importante sorreggerlo nella vita di tutti i giorni, senza affrettarsi verso una risoluzione del caso. (Ibidem)
GLI INTERVENTI SPECIALISTICI
Nel paragrafo precedente è stato sottolineata la funzione della quotidianità e dei contenuti e funzioni, ma nelle situazioni di drammatici eventi, la quotidianità non può essere esaustiva delle “cure” e attenzioni che le storie richiedono.
L'importanza dei traumi e dello stress subito dai minori allontanati dalla propria famiglia di origine richiede l'intervento di un terzo esterno alla quotidianità che possa lavorare sulle dinamiche del minore con gli altri componenti della comunità.
Dalla letteratura (ABURRÀ A., BOSCAROLO R., GAETA A., DOGLIANI F., LICASTRO E., TUNRINO R., 2000) emerge che sovente la frequenza dei colloqui che i minori in affidamento presso una struttura educativa sostengono con questi professionisti hanno una cadenza quindicinale, in casi meno consueti settimanali, magari durante le fasi di intensa difficoltà oppure durante i processi penali che non raramente devono affrontare.
L'atteggiamento che i minori assumono nei confronti di tali professionisti varia molto a seconda della loro storia e della loro età.
“Si può dire che nessuno di loro impazzisca di gioia per andare dallo psicologo, come è comprensibile. I ragazzi si chiedono a cosa serva, nella speranza di poter mettere da parte i ricordi spiacevoli e non doverli più sentire. Questo atteggiamento difensivo è molto comprensibile, ma spesso l'incontro con lo specialista è uno dei pochi momenti nei quali possono affrontare le loro paure le loro risorse e il rapporto con gli adulti per loro importanti: la famiglia di origine e quella affidataria.” (Ivi, cap. 4.3)
Nelle ricerche effettuate (ibidem) si rileva che la partecipazione a queste sedute può essere vissuta come uno stigma sociale dai minori ed è possibile pertanto che tali incontri vengano abilmente mimetizzati con le altre attività sportive e artistiche, con lo scopo di proteggere la propria riservatezza e non metterne a conoscenza il gruppo dei pari.
Ci sono invece altri minori che non sentono la necessità di nascondere il loro ricorso a incontri con specialisti, anzi alcuni ragazzi parlano liberamente dei propri colloqui forse perché rappresenta per loro un segno di importanza.
Per quanto riguarda poi il rapporto che si instaura fra i minori e gli specialisti, gli Autori citati suggeriscono come, in linea generale, l'atteggiamento che questi bambini e ragazzi manifestano verso questi professionisti rispecchi il modo in cui quest'ultimi si rapportano con loro:
“se sono [gli specialisti] interessati agli affidi, se si fanno sentire regolarmente, se spiegano di volta in volta i cambiamenti del progetto e il loro significato, anche i ragazzi diventano bendisposti e mostrano di apprezzare gli adulti che appaiono sensati.” (ivi, cap. 4.3)
È possibile che i minori in affidamento si dimostrino critici nei confronti degli specialisti con i quali vengono in contatto; sono molto attenti al loro linguaggio, alla loro affettività, alla loro fermezza e alla loro capacità di assumersi delle responsabilità senza ripercuoterle su di loro.
Riuscire a intervenire in modo adeguato con i minori, rappresenta una attività complessa, in quanto si tratta di giovani con un bagaglio di storie difficili e di sofferenza in cui fare posto ad un estraneo diventa doloroso, sopratutto perché implica comunque ricordare i propri trascorsi di solitudine e dolore.
Secondo Aburrà ed altri (2000) è possibile che i giovani ospiti di queste realtà cerchino di ribellarsi ad ogni forma di consapevolizzazione della propria storia e del loro diritto ad una vita migliore, probabilmente per la sofferenza del ricordo e per la paura di un nuovo abbandono.
La famiglia accogliente spesso risulta essere consapevole dell'importanza della terapia intrapresa dai minori che accolgono; in alcuni casi si dimostra un po' refrattaria nei confronti di questo percorso di aiuto a causa della propria difficile organizzazione della giornata e dei rispettivi spostamenti, ma normalmente prova rispetto per questi professionisti, intromettendosi difficilmente nella loro terapia, anche nei casi in cui non la condivida pienamente.
Non è infrequente che gli incontri specialistici durino anni e che gli affidatari, a causa delle implicazioni etiche e deontologiche legate al segreto professionale, non abbiano riscontri esaustivi in merito agli argomenti affrontati in questi incontri dai minori, non diversamente da quanto accade a una famiglia naturale.
Quest'ultimo aspetto potrebbe risultare negativo agli occhi degli affidatari, in quanto possono perdere una occasione per poter capire meglio i comportamenti dei ragazzi che accolgono ed un'ulteriore opportunità per aiutarli nel loro recupero. Questa difficoltà può essere sanata attraverso incontri periodici con la famiglia affidataria e la capacità del terapeuta di proporre tematiche senza infrangere la regola del segreto professionale.
Altrimenti, può in alcuni casi, quindi, nascere il pericolo che i minori si trovino ad affrontare un percorso di elaborazione del proprio dolore in solitudine, senza il supporto delle persone che li hanno accolti.
Un caso particolare, secondo alcuni professionisti, come Sorrentino (in ABURRÀ et al. 2000, cap 4.3), è rappresentato dalle situazioni di estrema gravità, quando è possibile che i minori non riescano ad elaborare la propria storia. La decisione potrebbe allora essere per loro quella di aiutarli a scindere la propria vita, fino a quando non saranno pronti ad affrontare tutto quello che hanno vissuto, avvenimento che potrebbe anche non accadere mai, neanche in futuro.
Per questi minori è possibile che sia necessario non ripensare al proprio passato, nonostante questo non sia in linea con gli obiettivi che generalmente si pongono i professionisti come gli assistenti sociali e gli psicologi, proprio come accade ad alcuni medici, che esaurite le possibilità di cura del proprio paziente si concentrano sulla terapia del dolore. (ABURRÀ A., BOSCAROLO R., GAETA A., DOGLIANI F., LICASTRO E., TUNRINO R., 2000.)
LAVORARE PER PROGETTI PSICO-EDUCATIVI
L'allontanamento del minore , in quanto tale, non risolve i problemi che attraversano la famiglia in difficoltà; anche nei casi in cui tale provvedimento sia stato accuratamente preparato, costituisce solo il primo intervento d'urgenza a cui devono necessariamente seguire azioni successive.( GABRIELLI, 1996)
L'allontanamento del minore dovrebbe rappresentare pertanto come un momento di passaggio, come la tappa di un percorso; l'iter ideale da seguire prima di intraprendere questo provvedimento sarebbe avere già ipotizzato un ventaglio di ipotesi e le possibilità di realizzazione per la fase seguente di intervento.
Sul piano teorico sarebbe importante riuscire a delineare, sin dalle prime fasi dell'intervento, se per il minore sia necessario un allontanamento temporaneo, e quindi si profili la necessità di una valutazione in itinere che -seppur attenta- tenga conto delle notevoli variazioni dello scenario, oppure sussistano gli indicatori per inquadrare il progetto in un allontanamento definitivo.
Ipotizzare o meno il rientro del minore nella sua famiglia di origine comporta la necessità di creare progetti diversi, ognuno dei quali dovrebbe prevedere la scelta accurata di un contesto adeguato nel quale inserire il minore da tutelare.
Allontanare il minore dalla famiglia di origine, non risulta comunque sufficiente a “risolvere” la situazione problematica.
Non è possibile ignorare che la famiglia e il bambino debbano in ogni caso elaborare la loro separazione, anche nei casi in cui essa sarà definitiva. Nelle ipotesi in cui la separazione risulti temporanea, limitarsi ad allontanare il minore senza progettare altro, significherebbe ritenere che le difficoltà della famiglia si possano dissolvere da sole e, oltretutto, che semplicemente con la propria crescita il bambino risulti in grado di riuscire ad affrontare il nucleo familiare di origine altamente problematico. (Ibidem)
Avere un progetto con il minore e con la sua famiglia di origine significa cercare di capire insieme a loro quale siano i problemi che hanno portato alla crisi e in quale modo poter recuperare il benessere dell'intero nucleo familiare, in particolare quello del minore. Ciò significa comprendere e mettere in atto le risorse interne che siano in grado di favorire il cambiamento, stabilire con la famiglia e con il minore, obiettivi, tempi e ruoli, impegnandosi in verifiche che permettano di capire cosa succede e per quale motivo.
La comunità assume funzioni differenti in riferimento alla progettualità.
Può accadere in alcuni casi che tale progetto non sia redatto immediatamente e che per il minore, inserito in una comunità, non ne sia portatore al suo arrivo all'interno della struttura. In questi situazioni, la comunità, oltre ad essere per il minore un luogo di educazione ed accudimento, diviene uno strumento per comprendere meglio cosa avviene all'interno della famiglia di origine del minore e poter quindi delineare un nuovo percorso da svolgere, non necessariamente al suo interno. (Ibidem)
Per alcuni giovani il rientro in famiglia è ipotizzato fin dalle prime fasi del loro allontanamento; in queste ipotesi uno degli obiettivi che vengono posti è quello di lavorare all'interno della comunità al fine di sostenere la relazione fra il minore e il nucleo familiare di origine.
Per altri invece la permanenza all'interno della struttura è legata alla verifica delle possibilità di recuperare la famiglia di origine e le sue funzioni educative: in questi casi l'obiettivo non è rappresentato esclusivamente dal sostenere la relazione fra minore e famiglia di origine, ma anche dalla verifica del miglioramento della situazione di entrambi i soggetti.
Ci sono ancora minori per i quali la comunità costituisce un accompagnamento all'adozione: per questi bambini e ragazzi tale tipo di struttura rappresenta un luogo di passaggio dove poter rimettere insieme e rielaborare la propria difficile storia.
Infine possono esserci altri minori, probabilmente il numero più elevato, che la comunità accompagna verso una qualche forma di autonomia, rappresentando in questi casi un luogo di accoglimento da cui ripartire in vista di una vita diversa e per i quali non è ipotizzabile nessuna delle “uscite” elencate sopra.
È necessario sottolineare che ogni bambino o ragazzo è portatore di bisogni diversi che richiedono la flessibilità della comunità che lo accoglie, la quale deve essere, in grado di modificare il proprio ruolo, le proprie competenze e le proprie capacità a seconda delle situazioni.
Il progetto rappresenta una parte importante dell'accoglimento del minore in comunità e la sua esistenza avvantaggia sia la comunità che i minori che vi sono accolti.
Avere un progetto d'altra parte non significa irrigidirsi, ma avere chiaro ciò che deve essere intrapreso. (Ibidem)
L'accoglienza a tutto tondo è necessaria in molte situazioni ma richiede comunque una verifica riguardante le risorse necessarie per garantire un clima relazionale affettivo e rispettoso per i minori che arrivano in comunità e per coloro che già ci vivono.
Il progetto tenta di risolvere le diverse esigenze e aiuta a stabilire l'indirizzo di un percorso anche nella quotidianità e, se da un lato la comunità deve necessariamente riorganizzarsi in vista di ogni nuova entrata, è pur vero che la presenza di un progetto istituzionale prestabilito in partenza assume una forma di tutela per la complessità dei minori presenti. La presenza di progetti individualizzati per ogni minore comporta la necessità di formulare un ulteriore progetto globale della comunità familiare che offre la possibilità di dare uno spirito di azione unitario alla struttura. (Ibidem)
Come già accennato, il progetto dovrebbe essere alla base del lavoro sul minore e finalizzato ad accompagnare il minore in difficoltà verso il suo rientro in famiglia oppure verso il suo stabile collocamento presso la famiglia affidataria.
Il fine di tale accompagnamento dovrebbe essere quello di stimolare la crescita dell'autonomia del minore in previsione di una vita più dignitosa di quella che ha trascorso, la formazione di un'identità che pensi positivamente al futuro, l'emancipazione da forme di dolore e abuso a cui è stato sottoposto e l'autodeterminazione di una vita da adulto. (BABOLIN L., BARTELLINI S., FIGINI C., GABRIELLE G., IZZO G., TOFFANIN J, 2000)
Per riuscire nel compito di rendere autonomi i minori, la comunità familiare intraprende molteplici azioni con l'obiettivo di aiutarli ad affrontare e superare le difficoltà che hanno incontrato nel loro percorso di vita.
Pertanto, il compito di accompagnamento che pongono in essere queste strutture deve essere perpetuato tenendo costantemente presente ogni singolo minore con la sua personale storia fatta di abitudini, risorse, paure, limiti e abilità.
Questo lavoro inevitabilmente rappresenta una parte molto faticosa per la famiglia accogliente che dovrebbe riuscire a mettere in gioco nella propria attività di accoglienza sia l'affetto per i minori che il dolore derivante dal contatto con le loro storie disastrate, sia la competenza e il necessario distacco professionale.
Riuscire ad accompagnare questi minori è quindi anche un'abilità che viene appresa con il tempo, con l'esperienza, con la formazione e con il proprio personale vissuto di sofferenza. (Ibidem)
IL RAPPORTO CON I SERVIZI
I servizi sociali rivestono un ruolo importante nei provvedimenti di affidamento di minori in difficoltà.
Come già detto, nei casi in cui tali servizi vengano a conoscenza della condizione di problematicità di un minore, intraprendono insieme ad altri soggetti, adeguati accertamenti della situazione, predisponendo, se fosse necessario, in collaborazione con gli altri servizi del territorio, un programma di assistenza per il recupero delle capacità genitoriali della famiglia di origine del minore in questione.
Esistono situazioni particolarmente delicate nelle quali un mero aiuto alla famiglia di origine si ritiene insufficiente e si conviene nell'opportunità che il minore sia allontanato dal nucleo familiare di provenienza e affidato a una famiglia o presso una comunità di tipo familiare, come nel caso precedentemente esposto.
In alcune eventualità i servizi si attivano autonomamente, ad esempio su segnalazione della famiglia stessa oppure della scuola, altre volte invece il provvedimento viene posto in essere in seguito ad un incarico da parte dell'autorità giudiziaria.
Per valutare il procedere dell'intervento sul minore è importante che siano redatti sia il progetto educativo nei confronti della persona in difficoltà, sia il progetto sociale riguardante la famiglia di origine, entrambi stipulati in forma scritta.
Durante il periodo in cui il minore si trova all'esterno del proprio nucleo familiare di origine, i servizi sociali detengono il compito di occuparsi del progetto di recupero della famiglia di origine e contemporaneamente di assistere il minore e sostenere la comunità familiare che si occupa di lui
È sempre affidato ai servizi sociali il controllo dell'andamento dell'affidamento e il compito di riferire ogni nuovo evento rilevante al giudice tutelare, nei casi in cui ci si trovi in una situazione di affidamento consensuale, altrimenti al Tribunale per i Minorenni, se è giudiziale.
I servizi sociali hanno altre sì il compito di sottoporre periodicamente, alle autorità appena accennate, una relazione sull'andamento del programma di assistenza, sulla sua presumibile durata e sull'evoluzione della famiglia di origine del minore.
I servizi sociali detengono ancora il compito di gestire i contatti fra il minore, la comunità affidataria e la sua famiglia di origine, con l'obiettivo di agevolare i rapporti con quest'ultima in previsione di un rientro del minore al suo interno o comunque del mantenimento di una relazione significativa. (LENTI L., LONG J., 2011.)
Particolarmente rilevante e interessante è il rapporto che il servizio sociale mantiene con la comunità familiare. Questi due soggetti dovrebbero riuscire a lavorare insieme, seppur con ruoli differenti, anche se ciò non toglie che le scelte progettuali e operative riguardanti il minore in affido siano deputate al servizio sociale, il quale è direttamente incaricato dal Tribunale per i Minorenni.
Nella pratica solo attraverso una co-progettazione fra la comunità e il servizio è possibile strutturare un intervento che abbia la capacità di mantenere il progetto del minore e della famiglia all'interno di un percorso condiviso.
Tale stretta collaborazione avrebbe bisogno di incontri congiunti periodici capaci di sviluppare una corresponsabilità nelle scelte e una condivisione delle modalità operative. (ROSA S., 2009)
I rapporti tra questi soggetti, anche a causa dell'evidente complessità delle storie personali dei minori di cui si occupano, sono certamente un ambito molto delicato. Barbero Avanzini (1997), analizzando le possibili problematiche comunicative che possono emergere fra questi due attori, rileva come sia sconsigliabile che i casi di minori in comunità siano affidati ad operatori che non abbiano acquisito una sufficiente esperienza e non detengano di un adeguato supporto dell'ente di appartenenza.
Anche l'eccessiva discontinuità da parte delle figure professionali che si occupano di affido familiare e il loro eccessivo carico di lavoro, possono impedire di dedicare le adeguate energie a questi casi.
Sempre secondo l'Autore (BARBERO AVANZINI B., 1997) esistono poi situazioni in cui i Servizi vengono ritenuti, sia dalle famiglie affidatarie che da quelle di origine, poco efficaci e collaboranti, soprattutto quando non si dimostrano attenti alle modifiche di comportamento e di relazioni che avvengono fra le due parti e non intervengono tempestivamente.
È possibile poi che la famiglia affidataria si senta esposta a rischi eccessivi se gli operatori le affidano un minore dalle caratteristiche diverse da quelle che essa aveva indicato in prima istanza, oppure che venga a trovarsi in una situazione di difficile gestione, pratica e emotiva, se i servizi sovrappongono proposte diverse, spinti dall'urgenza di trovare soluzioni per i loro assistiti. (Ibidem)
Anche analizzando il caso della comunità familiare “Io sono mio”, è emerso quanto possano essere complessi i rapporti fra questi soggetti e come, quando la comunità e i servizi sono portatori di interessi e punti di vista non necessariamente omogenei sugli obiettivi del progetto di intervento sul minore, sia possibile che emergano delle conflittualità in situazioni così delicate.
IL LAVORO DI RETE
Quando parliamo di comunità familiari e del loro rapporto con il territorio è necessario anche parlare di lavoro di rete.
Con il concetto di rete si intende l'insieme delle relazioni che esistono fra più persone, collegate fra di loro da una serie di scambi di comunicazione finalizzate a raggiungere un determinato fine. (BABOLIN L., BARTELLINI S., FIGINI C., GABRIELLE G., IZZO G., TOFFANIN J, 2000)
Nel lavoro sociale, la rete è utilizzata come strumento per conoscere e comprendere i legami che esistono fra più soggetti. Gli aspetti che ne vengono studiati sono svariati: i rapporti di potere fra i soggetti (ovvero la simmetria della rete), quanto i soggetti sono coinvolti nella rete (ovvero l'intensità della rete), quanti soggetti partecipano ad una relazione (ovvero l'intensità della rete), quante volte si comunica realmente in confronto alle volte che si potrebbe comunicare (ovvero la densità della rete); quanti legami sono necessari per mettere in relazioni due soggetti (ovvero l'interconnessione della rete) ed infine la possibilità di suddividere la rete in parti omogenee (ovvero la divisione in settori della rete). (Ibidem)
Si distingue tendenzialmente tra rete primaria (formata dalle persone che si conoscono direttamente come familiari e amici, aiuta a definire quali siano le relazioni affettive, morali ed emozionali) e rete secondaria (costituita da persone che si conoscono indirettamente, aiuta a conoscere le situazioni pratiche, cerimoniali, formative e storiche, che hanno vissuto persone e gruppi.).
Secondo Babolin e altri (2000) nel processo di aiuto ogni elemento della rete rappresenta una risorsa da valutare in base alla sua concretezza, disponibilità, reciprocità, empatia e temporalità.
In altri termini l'intervento di rete può essere definito una modalità ecologica di operare, in quanto rispetta e promuove la complessità del contesto che circonda le persone coinvolte.
Il lavoro di rete, soprattutto quando ci si occupa di strutture come la casa-famiglia, è un'importante chiave di analisi del tessuto sociale e relazionale nel quale tale comunità si inserisce.
Il lavoro delle strutture, come la casa-famiglia raccontata in questa Tesi, contribuisce allo sviluppo della comunità territoriale nella quale è inserita, sia tramite la messa in rete di servizi sia “riportando” e rendendo visibile sul territorio il proprio lavoro.
A tal fine è importante che si attivino iniziative promosse a vari livelli quali: relazioni inviate agli interlocutori istituzionali; richieste e inviti di patrocinio per le iniziative istituzionali; sponsorizzazioni; interventi in seminari e convegni; attività organizzate sul territorio; produzione di materiali e opportunità culturali e scientifiche...
Altrettanto importante è assicurare la costante presenza e il contributo ad attività promosse da altri soggetti della rete e garantire la disponibilità ad adeguare procedure e standard alle innovazioni riconosciute a livello istituzionale e scientifico.
In definitiva si tratta di dare forma, identità e sostanza alla propria presenza sul territorio. (Ibidem)
Attraverso queste attività le case-famiglia costruiscono relazioni significative con le persone che compongono la rete sociale, soprattutto tra essi e i minori che accolgono.
L'inserimento di una comunità familiare in un determinato territorio pertanto determina reazioni differenti fra comunità e comunità, fra territorio e territorio.
A differenza dagli altri servizi territoriali in favore dell'infanzia e dell'adolescenza però, tale comunità deve anche saper controllare e monitorare, in alcune occasioni limitare momentaneamente, gli scambi relazionali e comunicativi con gli altri soggetti del territorio con i quali solitamente interagisce, al fine di mantenere il focus e l'attenzione sulle esigenze e i bisogni di protezione dei minori che accoglie.
Un ulteriore aspetto significativo da porre in evidenza è rappresentato poi dal rischio per le comunità di questo tipo di isolarsi e di rimanere slegate dalle occasioni di confronto fra di loro.
La risposta anche per queste problematiche può essere fornita dal lavoro di rete, attraverso coordinamenti, federazioni, accordi, ovvero momenti di reciproco aiuto nei quali scambiarsi conoscenze, competenze, procedure e percorsi formativi. (Ibidem)
IL TERRITORIO
La comunità familiare, nel suo rapporto con il territorio, riveste un duplice aspetto: utilizza nel suo lavoro le risorse che il territorio offre e contemporaneamente ne è anch'essa una risorsa.
Quando si parla di risorse si affronta un argomento difficile: le risorse sono notoriamente considerate insufficienti e inadeguate, anche se in realtà questo non sempre è vero; oltre alle risorse economiche, effettivamente carenti, esistono le risorse non economiche, le quali sono rappresentate dalle sinergie tra soggetti che lavorano nello stesso campo d'azione, che decidono di condividere operatori, strutture, mezzi, elaborati, tecniche e progetti; enti privati e pubblici che attraverso vari strumenti, come protocolli di intesa e accordi di programma, mettono in rete la possibilità di usufruire di servizi già operanti, senza ulteriori costi, a favore di persone che vengono accolte nei vari progetti. (BABOLIN L., BARTELLINI S., FIGINI C., GABRIELLE G., IZZO G., TOFFANIN J, 2000)
I tipi di risorse appena accennate non rappresentano le sole risorse utilizzate all'interno delle case-famiglia per svolgere il proprio lavoro. Come già esposto in precedenza una delle ricchezze principali di questo tipo di comunità è rappresentata dai propri operatori.
Sono quest'ultimi che svolgono il ruolo di promotori nello sviluppo di protocolli di intesa e nei momenti di confronto pubblico riguardanti la funzionalità della rete e i possibili strumenti utili a renderla efficace.
Nella vita quotidiana questo compito di ricerca di risorse modifica radicalmente il lavoro di coloro che operano all'interno della struttura, che passano da assumere un impegno prevalentemente interno alla casa, ad un impegno genitoriale e di cittadinanza attiva (ibidem).
Per le comunità come la casa-famiglia, in breve, è impensabile occuparsi esclusivamente della rete primaria dei minori che accoglie, ma è auspicabile che possa inserirsi come soggetto attivo nel panorama degli enti che si occupano dei servizi alla persona, in modo da rappresentare non solo un nodo attraverso il quale le informazioni vengano accolte ma anche prodotte. (Ibidem)
LA GENERATIVITÀ SOCIALE
La genitorialità affidataria ha una valenza particolare, in quanto si può iscrivere nell’orizzonte della generatività sociale. (ERIKSON, 1982).
Con tale termine l’autore intende “ la preoccupazione di creare e di dirigere una nuova generazione “ che si esplicita “ nella capacità di prendersi cura delle persone, dei prodotti e delle idee verso cui si è preso un impegno” (Ivi, pag 88). Si tratta di un concetto più ampio di quello di procreazione, poiché riassume sia i caratteri della procreatività sia quelli della produttività e della creatività, tipicamente svincolati dal piano biologico e riferibili al piano simbolico. (MAZZOLI G, SPADONI N., 2005)
Pertanto un ultimo tema sul quale riflettere è rappresentato da tale concetto.
Erikson (1982) descrive la generatività sociale come una qualità psicologica tipica della vita adulta che si manifesta fondamentalmente mediante la vita familiare, in quanto i genitori garantiscono il benessere e la cura non solo ai propri figli, ma anche al di fuori della propria famiglia, impegnandosi per il benessere delle giovani generazioni.
Trattare il tema della generatività vuol dire prendere in esame i rapporti che sussistono tra le generazioni sociali e quelle familiari. Nello specifico tale rapporto rappresenta il perno della transizione dei figli alla condizione adulta, nella quale avviene “il passaggio di consegne tra generazioni adulte e generazioni giovani, cruciale per la sopravvivenza e lo sviluppo sia della famiglia sia della società.” (SCABINI E., ROSSI G., 2006, pag. 129)
Nella società odierna il processo che porta a questa transizione generazionale si basa sulla convinzione che vi sia la necessità di dover prolungare la permanenza dei giovani all'interno del nucleo familiare per poter far fronte alle difficoltà della società e per poter usufruire dei vantaggi psicologici da cui possono trarre vantaggi sia i genitori che i figli.
La famiglia sembra rappresentare il punto fermo a cui potersi assicurare per poter affrontare l'incertezza e la frammentazione della società contemporanea.
I genitori possono esprimere generatività nel contesto sociale a cui appartengono mediante la partecipazione alle istituzioni sociali e l'impegno verso i giovani facenti parte di tale comunità. La generazione adulta familiare estende in questo modo i propri confini, fino a diventare la generazione sociale che in ambito comunitario, politico, educativo e culturale promuove sotto svariate forme il benessere delle giovani generazioni, a cui appartengono anche i propri figli naturali.
Ricerche degli anni 2000 hanno mostrato come gli adulti generativi oltre ad essere figure genitoriali più adeguate, sono individui che si dimostrano più responsabili e più impegnati nel sociale e che considerano l'assunzione del proprio ruolo genitoriale come la possibilità di trasmettere valori alle generazioni successive in una relazione costituita sulla fiducia. (PRATT M.W., DANSO H.A., ARNOLD M.L., NORRIS J.E., FILYER R., 2001)
La generatività si fonda su tre processi:
ü dare vita;
ü curare;
ü lasciare andare.
L'adulto generativo è colui che riconosce come altro, diverso da sé, con una propria identità, la persona a cui ha dato la vita. I genitori generativi incoraggiano l'autonomia dei figli, si fidano di loro e li sanno anche affidare agli altri; contemporaneamente rappresentano dei mentori per i giovani all'interno della società.
“Le case-famiglia rappresentano un esempio di eccedenza generata e generativa sociale. Generata da relazioni di condivisione/interazione fra le famiglie in una data comunità, relazioni non generiche ma ordinate da un riferimento etico valoriale comune (secondo alcuni autori di matrice religiosa). Generativadi ulteriori relazioni di condivisione/interazione tra le famiglie che possono investire tutta la comunità di riferimento. Eccedenza poiché ciò che le comunità sono non deriva dalla somma delle dimensioni analitiche che le compongono. Esse mostrano come i diversi componenti e soggetti agenti che entrano in relazione producono un effetto che non è spiegabile né comprensibile in base alla proprietà di tali componenti e attori sociali, ma assume connotazioni quanto-qualitative proprie. Secondo la prospettiva morfogenetica, l'interazione fra individui avviene in un contesto strutturale e a sua volta lo modifica; una volta posto in essere dagli individui, il fenomeno relazionale ha una realtà propria non riducibile né esclusivamente alla qualità degli individui che la compongono, né a qualcosa che lo sovrasti.” (E. SCABINI, G. ROSSI, 2006, pag. 175.)
La generatività sociale rappresenta un tema molto ampio e interessante, che pur non essendo oggetto di questa tesi è stato brevemente accennato in quanto Silvia e Geraldo, come peraltro la complessità delle persone che lavorano e creano strutture come la casa-famiglia, ne sono un esempio importante.
LE MOTIVAZIONI DEL RICORSO ALL'AFFIDO PRESSO LA CASA-FAMIGLIA “IO SONO MIO” DEI MINORI
La riflessione sui motivi che stanno alla base della scelta rispetto al ricorso all'affido in casa-famiglia, deve partire necessariamente dall'analisi della storia personale e nei servizi dei minori in affido.
Sarebbe stato utile in questa sede approfondire le valutazioni e il processo di scelta sul collocamento dei minori anche con gli assistenti sociali che sono stati direttamente interessati nei casi in questione, purtroppo però a causa di problemi logistici e organizzativi (turnover del personale, carenza di documentazione etc...) ciò non è stato possibile.
Nel tentativo di recuperare, almeno in parte, tali motivi sono state analizzate in questa prospettiva le storie dei minori attraverso le testimonianze di Silvia e Geraldo.
Il primo elemento da tenere in considerazione è rappresentato dal fatto che la casa-famiglia è una tipologia di comunità peculiare sul territorio fiorentino in quanto è in grado di unire a competenze relazionali ed educative un'esperienza a dimensione familiare. Questo aspetto, di cui si è già detto molte volte, può rappresentare un elemento di elezione nella scelta sul collocamento dei minori in quanto, nella prospettiva dei servizi, può apparire come un luogo dove oltre a sperimentare l'affetto familiare, gli adulti di riferimento sono anche capaci di offrire le competenze necessarie a fronteggiare i casi di maggiore complessità.
Silvia e Geraldo, infatti, più volte ricordano come i minori a loro affidati abbiano alle spalle precedenti tentativi di abbinamento etero-familiare “tradizionale” falliti o rifiutati dalle famiglie contattate dal servizio, che non si sono sentite sufficientemente preparate per affrontare queste difficoltà.
Secondo la coppia, la formazione specifica e la preparazione sull'argomento dell'affido, ha permesso loro di acquisire negli anni una serie di competenze per lo sviluppo dell'autodeterminazione e dell'equilibrio emotivo dei minori che, uniti alle possibilità giuridiche in termini di advocacy sui diritti dei minori offerte dalla rete associativa a cui appartiene la casa-famiglia, sono in grado di agire con efficacia anche nelle situazioni più problematiche.
Questo aspetto, di cui si è già avuto modo di dire parlando dei riferimenti teorici sul ruolo delle case-famiglia, può apparire come uno degli elementi di elezione che portano a considerare questo tipo di comunità particolarmente indicata nei casi di affidamento di minori più complessi.
CONCLUSIONI
Quando una famiglia, anche se aiutata, si trova nell'impossibilità di adempiere ai suoi compiti di accudimento ed educativi nei confronti dei suoi membri più giovani, e si rende necessario l'allontanamento di quest'ultimi, la legge prevede che essi vengano affidati ad un'altra famiglia.
Tale provvedimento è volto a sostenere il minore e la sua famiglia di origine, che si trovano momentaneamente in una situazione di difficoltà, ma si ritiene che la relazione fra questi due soggetti, pur essendo problematica, abbia un fondo di positività e che comunque possa evolvere in tal senso.
L'obiettivo dell'affidamento di un minore non dovrebbe quindi dare al bambino una nuova famiglia, ma affiancare alla sua un'altra famiglia oppure una struttura residenziale (nei casi esaminati una comunità familiare o casa-famiglia) disposta a ospitare il bambino o ragazzo in difficoltà e a prendersi cura di lui, mantenendo e favorendo al contempo una continuità di rapporti tra il minore e la famiglia di origine.
L'affidamento si configura pertanto come un intervento di tutela del bambino volto a garantirgli una situazione di vita il più possibile simile a quella familiare quando i suoi genitori per svariati motivi sono impossibilitati a occuparsi di lui, o quando sono stati valutati capaci e desiderosi di modificare dei comportamenti, attivi o mancati, ma comunque pregiudizievoli per la crescita del minore, rendendo necessario l'allontanamento del minore stesso dal suo nucleo d'origine.
Pertanto l'affidamento, sia esso consensuale o giudiziale, implica un investimento sulle risorse positive della famiglia di origine. È evidente, che tali risorse devono essere individuate, verificate e opportunamente incrementate attraverso specifici interventi di sostegni al nucleo familiare e al minore: l'affido è un intervento che ne presuppone e ne richiede altri.
Proprio perché presuppone che la famiglia e il minore possano uscire dalle difficoltà di ordine materiale e relazionale in cui si trovano, l'affido è un intervento a carattere temporaneo. Capita, tuttavia, di imbattersi in provvedimenti che, con la loro durata, dimostrano di essere nella pratica degli interventi definitivi.
In alcuni casi questa situazione è la conseguenza non prevista degli interventi paralleli all'affido non effettuati che avrebbero dovuto valorizzare le risorse della famiglia di origine e promuoverne la competenza: lasciata a se stessa, la famiglia di origine difficilmente riuscirà a trovare la via del cambiamento, oppure si potrà assestare senza ricomprendere al suo interno la presenza del bambino.
In questo modo essa viene giudicata sempre meno competente e inadatta a riaccogliere il bambino.
In questi casi il senso dell'affido viene meno; inoltre l'ambiguità della situazione che viene a crearsi, può generare nel minore, nei suoi affidatari e nella sua famiglia di origine, sentimenti negativi e provocare conflitti interiori fra le parti.
In altri casi invece, la temporaneità dell'istituto dell'affidamento viene meno deliberatamente: i cosiddetti affidamenti “sine die”, non previsti dalla legge, riguardano quei minori che si oppongono alla propria adozione perché non vogliono troncare definitivamente i rapporti con i propri genitori, pur avendo maturato la consapevolezza che sarà impossibile il ritorno presso di loro; o ancora riguardano minori provenienti da famiglie strutturalmente deboli all'interno delle quali esiste, comunque, una relazione significativa tra i genitori naturali e il minore che non sarebbe opportuno recidere mediante il ricorso all'adozione; infine esistono situazioni, come quelle raccontate in questo elaborato, in cui i minori provengono da storie talmente drammatiche che sarebbe impossibile immaginare per loro un qualsiasi affidamento o provvedimento di adozione presso “famiglie tradizionali”, in quanto queste molto difficilmente potrebbero essere in grado di affrontare una situazione così gravosa ed essere di aiuto al minore, il quale rimane sempre la prima persona a cui pensare e proteggere.
È in situazioni come queste che si ricorre all'affidamento “non temporaneo”, in quanto si ritiene che questa soluzione rappresenti una possibilità concreta per il minore di sperimentare consapevolmente e stabilmente appartenenze diverse, non conflittuali né contraddittorie, essenziali ambedue per tutelare e promuovere la sua identità, la sua crescita e i suoi affetti.
È sempre per questa modalità di affidamenti che si ricorre all'accoglienza presso strutture residenziali come la comunità familiare o casa-famiglia, le quali ospitano questi minori “scomodi” che difficilmente incarnano i desideri dei genitori affidatari o adottivi, ai quali peraltro manca l'adeguata formazione e per i quali pertanto è improbabile pensare ad una soluzione alternativa. (GABRIELLI G., 1996)
Le casa-famiglia che si occupano di minori in forte difficoltà, sono formate da nuclei familiari che essenzialmente vogliono sperimentare un modo diverso di fare famiglia e contemporaneamente compiere una forte esperienza di accoglienza. Secondo alcuni autori si tratta di persone che sono spinte nelle loro scelte da una rilevante componente religiosa e che operano coadiuvate da altri membri della comunità sociale di riferimento quali gli enti pubblici, gli insegnanti, le organizzazione di volontariato. (E. SCABINI, G. ROSSI, 2006.)
Questi tipi di comunità devono costantemente gestire un equilibrio fra essere una famiglia e una struttura e fra essere un servizio e una scelta di vita.
Nonostante le motivazioni personali della coppia affidataria siano alla base di tutte le scelte della famiglia accogliente è fondamentale al tempo stesso che la coppia abbia una sufficiente preparazione e che il servizio sia offerto all'interno delle previsioni di legge, operando attraverso precise norme che garantiscano ai minori accolti i propri diritti. (FUSI S.M.L., 2010)
Un ulteriore elemento essenziale della vita in una casa-famiglia è il suo essere centrata sull'attenzione alle relazioni interpersonali, terreno ideale per dare la possibilità ai minori accolti di sperimentare l'appartenenza ad un nucleo familiare.
La vita all'interno della comunità è caratterizzata da relazioni stabili, affettivamente significative, uniche e personalizzate, inserite in una rete comunitaria, con modalità di condivisione adeguate alle esigenze dell'età e al livello di maturazione di ciascun soggetto.
Nelle case-famiglia viene stimolata la creatività e l'iniziativa dei soggetti con la finalità di sviluppare in quest'ultimi capacità specifiche e l'acquisizione di stima di in sé. La comunità diviene quindi la loro base sicura, con valenza sia terapeutica che riabilitativa.
In queste strutture si propone la terapia gruppale e della collaborazione alla gestione della vita familiare. Da assistito si diviene parte costruttiva dell'ambiente relazionale che si costituisce insieme, ognuno secondo il proprio ruolo e le proprie capacità.
Le regole di vita diventano confini utili per la libertà di tutti e per essere al servizio gli uni degli altri.
Proprio questo tipo di esperienza, insieme al pieno reinserimento nel contesto sociale, diventa per i minori che arrivano da storie complesse una possibilità di riscatto e di auto-affermazione per una nuova identità.
Chi viene accolto sperimenta il proprio valore indipendentemente dal proprio passato e pur attraverso un itinerario faticoso, recupera fiducia in se stesso e negli altri.
Ogni casa-famiglia, pur rifacendosi a una comune motivazione si rivela diversa l'una dall'altra. Per ogni persona va individuata una realtà idonea. L'abbinamento vincente è là dove, tenendo conto della storia di ognuno, la persona incontra chi lo accoglie e lo fa sentire importante. Si tenta così di far nascere una nuova relazione di tipo positivo anche in situazioni ipotizzate inizialmente come irrecuperabili.
Oramai le casa-famiglia sono un'esperienza radicata e collaudata. Rappresentano un modello unico di struttura a gestione veramente familiare, ma al contempo, capaci di rispondere grazie alle competenze dei suoi operatori, a quelle esigenze di accoglienza complesse che non trovano risposta nelle singole famiglie accoglienti. (MARTINI V., 2000)
Va comunque ricordato che l'istituto dell'affidamento non rappresenta mai una scelta facile e immediata, perché comunque l'allontanamento del minore dalla propria famiglia di origine presenta, oltre a quesiti di ordine etico e morale, difficoltà di tipo professionale nella misura in cui si richiede agli operatori di effettuare una valutazione sul più efficace collocamento del minore in ordine ai suoi bisogni relazionali e alle sue competenze personali.
Infatti pur vivendo in un altro luogo, la sfida è che il minore rimanga comunque parte integrante della sua famiglia di origine.
Sarebbe importante che la famiglia di origine potesse contare sulla comunità familiare, per condividere l'impegno nella cura e nell'educazione del figlio.
È evidente che la comunità familiare non si debba assumere il peso di sostenere anche il nucleo di origine del minore che accoglie, ma è importante che si crei una situazione in cui i genitori biologici non si sentano minacciati e sostituiti nel loro ruolo dagli operatori della comunità familiare, ma anzi da loro sostenuti, anche se questo non sempre è facile da applicare nella prassi.
In sintesi, anche il nucleo familiare di origine del minore in difficoltà dovrebbe poter trarre dall'affidamento del proprio figlio un giovamento legato al proprio ruolo genitoriale. Perché questo possa accadere è opportuno che i genitori naturali trovino negli affidatari un atteggiamento di comprensione umana della loro complessa vicenda familiare, di fiducia per ogni passo in avanti che intraprendono e di confronto e dialogo.
Per il minore il ricorso all'affidamento comporta l'ingresso in un mondo sconosciuto in cui vengono meno i suoi punti abituali di riferimento e dove i suoi comportamenti assumono significati diversi per le nuove persone che lo circondano, diversi da quelli che avevano all'interno della sua famiglia; per questi motivi la sintonia e la comprensione fra il minore e gli adulti che lo accolgono non possono essere scontate e immediate.
Gli affidatari, in questa Tesi rappresentati dagli operatori della casa-famiglia, dovrebbero essere in grado di riuscire ad osservare e comprendere i comportamenti del minore, a tenere presente l'universo del bambino e della sua famiglia di provenienza, che anche se non è fisicamente presente, accompagna quotidianamente il minore; tale universo, probabilmente non sufficiente per il bambino, rappresenta comunque per lui l'ambito nel quale egli aveva una sua collocazione e identità, magari negativa, ma comunque definita. (GABRIELLI G., 1996)
È molto difficile per questi minori potersi riappropriare del proprio status di bambino, in quanto è frequente che abbiano dovuto assumere precocemente un ruolo di adulti e che siano stati chiamati ad essere loro il punto di riferimento per i propri genitori. Ciò che devono riuscire a fare è non solo liberarsi di un fardello troppo pesante per le proprie possibilità, ma anche uscire dai vecchi ruoli assunti per assumerne altri più appropriati alla loro età e ridefinire la propria identità.
Per minori dalla difficile storia familiare, probabilmente questo delicato percorso risulta possibile solo in realtà quali la casa-famiglia, poiché possiedono strumenti e competenze relazionali maggiori rispetto alle “tradizionali” famiglie affidatarie. (Ibidem)
Quanto scritto in questo elaborato non è sicuramente di semplice applicazione, ma avendo conosciuto e frequentato personalmente la casa famiglia “Io sono mio” durante la mia esperienza di tirocinio, mi sento di poter affermare, che nonostante siano presenti difficoltà, con un forte impegno e tanta dedizione strutture di questo tipo sono possibili e indispensabili.
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